Icone, comete ed eroi
Europa | Arti
Giornalismo e social nel cinema del 2021. Un'analisi a partire da tre film, "France" di Bruno Dumont, "Don’t Look Up" di Adam McKay e "Un eroe" di Asghar Farhadi.
L’analisi del lato weird, eerie e unheimlich di alcuni film recenti presi come esempio per ritrarre la direzione intrapresa del cinema underground moderno.
Ipotizziamo che il mondo sia una persona in crisi che ricorrere alla terapia per comprendere le proprie problematiche e che uno psicologo prenda in considerazione il cinema mainstream e quello underground come se fossero sogni da analizzare. Dai racconti mainstream l’analista intuirà l’atteggiamento del paziente condizionato dallo schema comportamentale della società; mentre per gli impulsi più profondi analizzerà il cinema underground perché libero dai limiti imposti dall’importanza di chi lo dirige, chi lo scrive e chi lo produce.
Ora, immaginiamo che l’analista sia uno scienziato di storytelling e che sia interessato solo a estrapolare i bisogni più intimi: questi si soffermerebbe sul filone underground estrapolando le pulsioni represse dalla componente onirica dagli elementi inquietanti, bizzarri e perturbanti.
Lo scienziato di storytelling prenderà in esame un breve periodo della vita del paziente-mondo, escludendo da esso le influenze degli autori mainstream largamente conosciuti e studiati, ma anch’essi strambi e surreali, come David Lynch, Yorgos Lanthimos e Lars von Trier. La ricerca dello psicologo sarà presto piena di neoregisti unknown-soldier pronti all’attacco in un panorama bellico più intimo, violento e del tutto destabilizzante. L’underground movie, nonostante sia comunque "infetto" dalle caratteristiche usate e talvolta abusate dai registi sopracitati, è votato a raggiungere un pubblico esclusivo che sente il bisogno di allontanarsi dal marasma del politically correct. Questa controtendenza composta da ricercatori di sensazioni estranee e alienanti, liberi di scandalizzarsi e più "istintivi", in larga scala, rappresenta il futuro prossimo comportamentale della nuova generazione e del nuovo cinema. Partendo da questo presupposto, analizzeremo alcune trame-sogno di questi ultimi anni e procederemo per una probabile interpretazione.
Gemma e Tom sono in cerca della casa perfetta e trovano Yonder, un quartiere di case tutte identiche e ordinate. Quando tentano di lasciare la zona, scoprono di essere intrappolati in quella "raffigurazione perfetta" della realtà, dove qualcuno o qualcosa li nutre con cibi senza sapore e gli lascia un figlio da crescere in cambio della loro libertà. Come formiche all’interno di un vivaio, i due scopriranno il segreto sotto quella perfezione: un mondo-altro inquietante e alieno dove si sperimenta il comportamento dell’essere umano fino all’esasperazione. Questa è la trama di Vivarium, un film del 2019 del regista irlandese Lorcan Finnegan, una visione inquietante del moderno nucleo familiare.
Sommersi da esempi di vita perfetta esposta di continuo sui social, siamo anche noi come i due protagonisti che provano a raggiungere una sicurezza da pubblicità, sapendo benissimo che questa non arriverà mai. Il mondo ci vuole accasati, lavoratori e perfetti genitori, ma il sogno si infrange perché la realtà mendace è sepolta dalla stessa superficie. Come risultato a questo atteggiamento ossessivo in Vivarium arriva un bambino incurante delle condizioni spazio-tempo; dopo pochi mesi è già un adulto privo di empatia, indottrinato da una TV aliena piena di immagini astruse. Per il bambino-alieno la comunicazione con i due costretti neogenitori è impossibile, questi assimila e imita esclusivamente i lati negativi della coppia, nasconde la sua vita all’esterno di quella casa perfetta. Sembra un rintocco funebre che anticipa la fine per le nuove generazioni: non solo un distacco dal nucleo familiare come è sempre stato all’età adulta nella civiltà moderna, ma un rifiuto completo della realtà stessa, oramai composta da immagini filtrate da uno schermo a portata di mano. Il cielo sulle case di Vivarium è una riproduzione simile ai quadri di René Magritte, come a dire che per essere perfetti bisogna simulare le opere d’arte. Eppure, qualsiasi opera d’arte decontestualizzata può rivelare una sostanza weird (inteso come "qualcosa che non dovrebbe essere lì" [1]) di disturbo a cui sembra ci stiamo abituando progressivamente.
La ricerca per la libertà spinge i protagonisti in direzioni diverse: Tom scava nel sottosuolo, mentre Gemma prova a comunicare con "suo" figlio oramai adulto. Il tempo passa e la perfezione corrode e destabilizza la coppia. Più Tom scava, più si ammala. Più Gemma prova a comunicare col ragazzo più viene a conoscenza di elementi estranei e disturbanti. A colpo d’occhio, l’interpretazione di questo trama-sogno è evidente: il desiderio ardente di una vita pubblicitaria corrode e costruisce un labirinto, dove l’IO viene irretito in una realtà aliena e fuori al nostro stesso controllo.
In maniera molto simile, la sostanza weird nei contesti familiari invade altri film underground dello stesso periodo. Nel film australiano Relic (2019) di Natalie Erika James, la casa della nonna, il luogo sicuro in cui l’anziana Edna vive i suoi ultimi giorni con sua figlia Kay e sua nipote Sam, rimpicciolisce fino a schiacciare le protagoniste. Consumate dalla muffa nera dei ricordi che ricopre ovunque le pareti dell’abitazione, le due donne giovani affrontano il trapasso dell’anziana genitrice, vivendo un’asfissiante consapevolezza della morte - questa è osservata da più punti di vista: dalla prova iniziatica della ragazza (Sam), dalla fatalità nella donna matura (Kay) fino alla saggezza della vecchiaia (Edna) che tutto divora. “Vorrei seppellirmi” dice la vecchia Edna mentre ingoia letteralmente le sue foto, a rappresentare quell’impossibilità di tornare indietro in un mondo troppo distante. Solo Sam riesce ad attraversare il labirinto della sua antenata, la ragazza sfonda le intercapedini claustrofobiche della casa di famiglia e dimostra che il "nuovo" avanza solo se sa dove scavare nella polvere antica dell’accettazione.
Irrompe, invece, nella sempre più virtuale realtà, la perturbante prima regia del videomaker Gem Deger. Playdurizm (2019) parla di Demir che vive misteriosamente in compagnia del suo attore preferito. I due ammazzano e si fanno del male per diletto in un via vai di trailer a tutto schermo e spezzoni musicali alla velocità di internet. Nel finale, l’eroe si cuce con ago e filo in un bacio eterno col suo fan in un video musicale stile teasure pieno di glitch. Demir ha sognato quello che digita, d’altronde cos’è una ricerca internet se non una lista di qualità nozionistiche che ingeriamo per alimentare il nostro personale piacere? Diventiamo ciò che ingeriamo. Cibo privo di gusto come in Vivarium. Divorati da un dimenticato passato come Edna in Relic. Scorriamo via la vita sulle home della nostra versione della realtà, proprio come Demir.
"Trasformare il confuso e il randomico in una storia comprensibile è una funzione essenziale per il nostro cervello narratore. Spesso ci ritroviamo bombardati da informazioni caotiche. Per darci un’illusione di controllo, la mente ci presenta una versione radicalmente semplificata del mondo attraverso la narrazione […] La memoria umana è ‘episodica’ (tendiamo a sperimentare il groviglio del nostro passato come una sequenza estremamente schematica di rapporto causa-effetto), nonché ‘autobiografica’ (una serie di episodi imbevuti da significati personali e morali)." [2]
Maud è un’infermiera ossessionata dal salvare l’anima della morente Amanda. Ben presto, il passato induce in tentazione la nostra protagonista e la travolge in una spirale di follia. Questa è la trama-sogno di Saint Maud (2019) diretto dalla sceneggiatrice inglese Rose Glass. Un viaggio intimo verso la santità in un mondo dove il percorso spirituale è difficile da intraprendere tra tentazioni sempre a portata di mano. Quando ci si sofferma sull’intangibilità degli eventi di Maud, lo scienziato di storytelling trova in maniera preponderante la caratteristica dell’eerie (non intenso nella traduzione letterale dall’inglese di "misterioso", "inquietante", ma di "qualcosa che dovrebbe essere lì, ma non c’è" [3]) tipica delle agiografie.
All’inizio Maud è fragile e vuota, prova a riempire le mancanze e di raggiungere uno stato di grazia per trovare il perdono per il suo passato sregolato. Poi, quel vuoto si riempie di presenza divina e la pervade, l’eerie sovrasta Maud e lo spettatore che ne segue la storia. Spiazza. Come visto nell’analisi di Vivarium, in questo nostro contesto moderno siamo abituati a incarnare esempi che possiamo "seguire" e "controllare" in ogni momento, mentre in Saint Maud la protagonista insiste su una spiritualità obsoleta al giorno d’oggi, che verso la fine si rivelerà una strada a metà tra la pazzia e la visione mistica.
Maud esaspera "un racconto" che narra a sé stessa e agli altri, prova ad assicurarsi una nuova possibilità di redenzione datale dalla personale reinterpretazione delle figure religiose. Maud è una Giovanna D’Arco dell’epoca digitale, le sue voci nella testa sono impercettibili, la ragazza ritaglia i dipinti di William Blake e li dispone su un altare personale, come una bacheca social, lei è in cerca di un’approvazione per le sue buone azioni. Maud è testarda, esige che qualcuno/qualcosa confermi che quella intrapresa da lei è la strada giusta. Le risposte alle sue preghiere sono veloci come messaggistica istantanea: la ‘presenza divina’ le provoca degli orgasmi intensi in assenza di una risposta tangibile e inequivoca. L’inquietante è nascosto proprio in quelle risposte. Maud si sente davvero pervasa da un’orgasmica presenza divina, oppure questo è sintomo di una discesa brusca nella sua stessa pazzia?
Resta una vaga sensazione di eerie, nessuna risposta. Nei suoi attacchi di disperazione, la protagonista si punisce selvaggiamente e vede apparire dei vortici nel cielo, nello scarico dell’acqua, nei bicchieri, ovunque. Vortici che ricordano la lenta discesa del desiderio isterico verso una pulsione fortemente psicotica di Norman Bates nel film culto Psycho; nella celebre scena della doccia, il vortice scende nello scarico e, con una dissolvenza incrociata, fuoriesce dall’occhio della vittima [4]. Appunto, Maud diventa vittima delle sue stesse preghiere, annega nel vortice della sua pulsione psicotica, fino a che l’anima da salvare di Amanda si tramuterà nella sua demoniaca incapacità spirituale. Qui è la cieca fede a essere pericolosa. In questo nostro mondo iper-affollato di oggetti tangibili e desideri a portata di mano, ci si trasforma lentamente in quelle storie illusorie che raccontiamo a noi stessi e agli altri.
Succede lo stesso in un’altra trama-sogno di un elegante bianco e nero. In Darling, diretto da Mickey Keating e ispirato al cinema di Roman Polanski, la protagonista viene assunta come custode di un’antica tenuta dove aleggia la eco di un inquietante avvenimento: il suicidio del vecchio custode. La ragazza posseduta dal mistero del luogo, impersonifica quasi pedissequamente il racconto del vecchio custode, copiandone gesti efferati e, in fine, condividendo la stessa sorte. Proprio come in Saint Maud, anche la protagonista di Darling racconta a sé stessa una storia, percepisce una presenza intangibile e vive un’illusione, a tal punto da trasportarla nella realtà ed essere ammazzata dalla verità. Lo stesso accade in Sator (2019) di Jordan Graham, una vecchia leggenda di famiglia raccontata dalla nonna a suo nipote Adam lo trasporta nella più totale pazzia. Proprio come nelle altre trame-sogno, una vecchia storia modella la personalità del giovane fino a renderlo folle e ammazzare chiunque.
Lo scienziato dello storytelling che ha preso in esame il paziente-mondo non ha dubbi. Ci sentiamo tutti supereroi per il mainstream, ma allo stesso tempo siamo alla ricerca di noi stessi nelle caverne dell’ES-movie underground. L’analisi della componente weird di queste trame-sogno rivela il lesto sgretolamento delle vecchie tradizioni, dove il nuovo internet-style pubblicitario infetta, interpreta e modella egoisticamente ‘a sua immagine e somiglianza’ patinata una personalità fittizia e incongruente. La fede ossessiva basata sulla presunzione nelle proprie capacità e teorie porta come risultato l’intimo isolamento e il completo distacco dalla realtà. Il cinema si sposta verso una visione satura di estetica per insegnarci a desiderare sempre altro. I futuri adulti saranno sempre più simili a una copia di ‘sentito dire’ che una vera personalità costruita sull’esperienze e l’introspezione.
Un rischio ovvio, dato l’annullamento del velo di Maya che divide il social dal sociale. Tutto questo ‘credersi ciò che non si è’ e tutta la fatica che si fa per adattarlo alla propria storia raccontata ci rinchiude in stanze sempre più simili a profili internet, ricrea famiglie virtuali nel bisogno di certezze e consistenze, distrutte le vecchie abitudini si rimpiazzano con qualità mediocri e nozionistiche. Una volta finite le notifiche arriva il silenzio, si resta nella più totale sospensione. Il conseguente vuoto e la realtà che si presentano ci spingono a volerne di più e a chiuderci nei nostri diorami. Si eroicizza la nostra condizione attraverso trame digitali in cui crediamo fermamente. Viviamo un diorama digitale senza uscita ma bellissimo da esporre, come nel primo recentissimo lungometraggio di Stefan Lernou, Hotel Poseidon dove Dave, il receptionist protagonista, vive una marcia apocalisse estetica con un gruppo di anime malsane felici di dipingere le loro vite degradate in una società in totale decadenza. Evitare di sgretolarsi davanti a questa schiera di supereroi da noi costruiti sembra impossibile.
Eppure, per quanto questa analisi possa sembrare sconcertante e spaventosa, è solo un faro luminoso con cui la popular culture underground esaspera la visione per esporre una soluzione. Lo scienziato di storytelling concluderà la seduta di analisi sull’evoluzione psico-cinematografica e scriverà il commento: il paziente-mondo abbandonerà il supereroe per una trama-sogno silenziosa e contemplativa, così che lo spettatore si indirizzerà verso la stessa battaglia interiore personale, familiare e/o di gruppo dell’individuo semplice e comune. È bene ripetersi, parafrasando Charlie Kaufman: mostrarsi in continuazione non vuol dire comunicare. Il mainstream seguirà silenziosamente la rotta verso la biografia, mentre la pop culture underground si inoltrerà fino al nucleo della resistenza al limite tra il corpo e la mente.
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Note
1. v. M. Fisher, The Weird and the Eerie. Repeater Books, 2017 (trad. it. The weird and the eerie. Lo strano e l'inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018)
2. Will Storr, The science of storytelling (trad. it. La scienza dello storytelling, Torino, Codice edizioni, 2020), p. 36.
3. Op. cit. nota 1
4. v. Slavoj Žižek, L'universo di Hitchcock, Milano, Mimesis Edizioni, 2008