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Appunti per una cartografia del paesaggio italiano nel cinema americano contemporaneo, da "Luca" a "Chiamami col tuo nome".
La narrativa black si rinnova ciclicamente attraverso le proteste della società civile. Il quadro degli scenari, tra rivelazioni dirompenti e impossibili premonizioni.
Durante la Settimana della Critica della 77esima edizione del Festival di Venezia è transitato Enforcement (in originale Shorta), film danese diretto dalla coppia di registi esordienti Frederik Louis Hviid e Anders Ølholm. Il titolo pare prendere il via lì dove finiva Les Misérables del francese Ladj Ly, altra pellicola circolata per lo più nel circuito festivaliero e che si è aggiudicata il Premio della giuria al Festival di Cannes del 2019. Enforcement e Les Misérables sono infatti l’espressione dello stesso identico disagio delle periferie cittadine dei ricchi Paesi del Nord Europa, concepite, e di conseguenza trattate, come residui contemporanei di un retaggio coloniale.
Qui, gli “altri”, le seconde e terze generazioni di immigrati che dalle vere colonie si sono spostati, vorticano come satelliti attorno a un nucleo pulsante dal quale sono esclusi e che, tutt’al più, possono contribuire ad alimentare con lo sforzo del sudore e del sangue. Sangue, sì, che in questi film scorre sotto l’etichetta di un genere che fa incontrare l’intramontabile La Haine di Mathieu Kassovitz (la cui attualità contestataria, dal 1995, pare non essersi spostato di un millimetro) assieme al cop - e non tanto buddy - movie Training Day di Antoine Fuqua , arrivato nel 2001. Torniamo però a Enforcement, di cui colpisce una cosa in particolare: sono pochi istanti, brevissimi frame con i quali il film si apre e che faranno da motore agli eventi. Un poliziotto irrompe in una stanza dove il collega è già chino in terra mentre si assicura di rendere inerme l’arrestato. Il tutto dura pochissimo, giusto il tempo di vedere un ginocchio ben piantato alla base del collo del ragazzo nero riverso in terra che con un ultimo filo di voce esala: «Non riesco a respirare».
È questione di una frazione di secondo quella dietro ai processi di associazione che immediatamente si attivano nella mente. Una frazione di secondo è quella necessaria ad attraversare un intero oceano che separa il Paese scandinavo dalla land of dream statunitense. Una frazione di secondo è più che sufficiente per atterrare al bordo del marciapiede dove l’afroamericano George Floyd sta lentamente morendo sotto il corpo della legge che porta il nome di Derek Chauvin. Siamo a Minneapolis, Minnesota, è il 25 maggio 2020. Il travaglio di Floyd non dura però pochi così come quello del giovane ragazzo all’inizio di Enforcement. Tutt’altro. I video (sì, molteplici) dell’arresto-assassinio del quarantaseienne durano diversi minuti: sono ripresi, registrati e divulgati a partire da smartphone privati, da telecamere di sicurezza, dalle bodycam dei poliziotti intervenuti. L’agonia di Floyd è catturata frame by frame per la totalità dei suoi 9 minuti e 29 secondi (in prima analisi 8 e 46, numero divenuto una delle tante icone delle proteste successive all’omicidio), il tempo necessario perché la pressione del ginocchio sul collo conduca quel «I can’t breathe» a suggellare con la morte l’atto di violenza.
Quella che lega il caso Floyd al film Enforcement non è altro che una triste coincidenza che ci porta a riflettere su un paio di questioni. Da una parte, c’è un ragionamento di carattere etico-morale sullo stato del regime di visione, sulla pervasività dell’occhio di ripresa che nell’ossessione dello sguardo coglie (quasi) ogni piega del reale. Coglie il volto di Floyd deformato dal dolore e dalla paura per la consapevolezza della fine che sopraggiunge inesorabile e inquadra il secondo volto, quello raggelante di uno psicotico-compiaciuto Chauvin, che non scansa di un centimetro il peso del proprio corpo. Coglie anche gli altri tutori della legge che partecipano all’arresto-omicidio, Tou Thao, Thomas K. Lane e J. Alexander Kueng, che vorticano attorno a quell’atto di morte con fare incerto e complice. Ma questi occhi di ripresa si sono e si stanno anche rivelando fondamentali durante il complicato processo che vede i numerosi filmati come centrali nel corso del dibattito penale.
Ed è impossibile, qui, non tornare con la memoria al clamore del pestaggio dell’attivista Rodney King da parte di alcuni poliziotti nella Los Angeles del 1991, dal quale Kathryn Bigelow trasse ispirazione per il suo sfaccettato Strange Days. La brutalità dell’evento fu ripresa dell’amatore George Holliday che portò il video alla stazione televisiva KTLA, pronta a diffonderlo e quindi a rendere pubblico l’accaduto dopo il disinteresse della polizia per quel materiale. Video che, successivamente, anche in quell’occasione, si rivelò fondamentale durante il processo. Insomma, senza il cristallizzarsi e il conseguente rimbalzare digitalmente nei dispositivi privati di queste brutali informazioni visive, l’uccisione di Floyd non avrebbe mai ottenuto la risonanza che ha condotto milioni di persone in piazza per settimane e settimane.
Questo ci conduce direttamente al secondo punto. Una coincidenza condensata in un arco di tempo così relativamente ristretto e tanto separata da un punto di vista geografico, che non fa altro che evidenziare l’esigenza artistica di riflettere e trattare certe dinamiche sociali. La piaga del razzismo nei confronti della popolazione nera è un tratto comune nel mondo bianco occidentale, sebbene sia caratterizzata da profonde differenze e forme tra il Vecchio e Nuovo continente. E il 2020 è stato, da questo punto di vista, un fortissimo indicatore, breaking point di un’esasperazione di matrice afroamericana della quale l’assassinio in mondovisione di Floyd è solo l’ultima goccia di sangue spillata da un corpo troppo a lungo martirizzato. Nonostante la crisi pandemica del Covid-19 stia in quei mesi imperversando inesorabile in tutti gli USA, anche a causa della scellerata politica di Donald Trump, non pare affatto esagerata o tantomeno sconsiderata la scelta di milioni di persone di scendere in piazza a protestare assieme al movimento per la lotta al razzismo Black Lives Matter, fondato originariamente nel 2013.
La questione è ovviamente complessa e radicata a fondo nella storia di un Paese che ha sempre fatto i conti a metà con la propria storia. Oltretutto, quello degli Stati Uniti è un tessuto sociale esacerbato da quattro anni di politiche divisive e incendiare da un punto di vista del progresso, in grado di spaccare in due una nazione dove i piccoli, ma importanti passi (soprattutto d’ordine simbolico) dell’amministrazione Obama paiono essere solo un lontano ricordo. Il momento era quello giusto e per meglio comprenderlo viene incontro anche il mondo cinematografico, che mai come nello scorso anno si è così veementemente approcciato alla questione. Il cinema, o meglio la filiera audiovisiva, si è rivelato essere un humus ricco di opere amplificatrici di questo percorso di lotta e rivendicazione culturale.
Abbiamo a che fare con una forma sempre più codificata di un black cinema statunitense fortemente battagliero e consapevole delle armi che deve utilizzare per dare risalto al popolo di cui parla. Popolo che in più di un’occasione viaggia su un binario parallelo rispetto a quello del Paese dove nasce, cresce e muore. Non è una tipologia di cinema che germoglia dal nulla; è anzi affiancata all’esperienza di autori e registi fondamentali all’interno del discorso come Spike Lee, la cui consapevolezza politica ed estetica ha le sue radici nello spazio vangato spesso dalla dibattuta e contraddittoria blaxploitation, rappresentativa di un periodo di elaborazione artistica e identitaria essenziale della black culture. Non pare quindi un caso che un pioniere di questa ondata di film come lo è Jordan Peele parta proprio dalla cornice del genere per instaurare un nuovo processo discorsivo da portare sui grandi schermi. Il suo Scappa – Get Out (2017) è probabilmente il primo e più immediato punto di partenza, horror a bassissimo budget, dallo stratosferico incasso al botteghino e che si porta dietro anche due dei volti-icona che ricorrono spesso, ovvero Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield.
È ancora Peele a battere un ferro che sta divenendo sempre più caldo con Us (2019), chiarificando come una cinematografia di successi di genere stia in realtà smuovendo le acque per il progressivo sollevarsi di molteplici voci. Lapo Gresleri nel suo recente Body and Souls. Il corpo nero, #BlackLivesMatter e il cinema afrosurrealista, agile e interessante incursione nel black cinema che prendendo proprio Peele evidenzia come «rielaborando stili e linguaggi che alimentino un nuovo immaginario collettivo, i film dei registi afroamericani emergenti si fanno esempi efficaci della nuova tendenza afrocentrica che guarda allo stato della nazione senza più vittimismi, in una prospettiva democratica che ne influenzi e rinnovi la mentalità». Aggiunge poi: «Molto interessante in tal senso è il loro peculiare approccio ai generi cinematografici, una revisione degli stilemi hollywoodiani che ne ribalta gli assiomi portanti, sfruttando un linguaggio comune ormai assimilato dal pubblico per comunicare altri contenuti». Vien da sé che a evidenziarsi come genere fin qui particolarmente privilegiato sia appunto quello horror, declinabile a favore di uno sfogo sovra-razionale che è utile a tratteggiare le ipocrisie di un’evidente impasse sociale. Gresleri parla appunto di cinema afrosurrealista, secondo l’accezione del termine coniato da Amiri Baraka, fatto di racconti criptici, metaforici, profondamente intrecciati alle radici ancestrali africane e che sono espressione di una realtà statunitense talmente contraddittoria da poter trovare il proprio sbocco solamente nel dominio dell’irreale.
Si ruota molto attorno al tema del corpo, terminale di una black coolness dalla quale l’uomo bianco sembra essere costantemente ossessionato, attratto come da un oggetto esotico che se non può odiare deve invidiare con malsana fascinazione. Di certo non può rimanerne indifferente, deve in qualche maniera farsene vanto ed esporlo. Un corpo, quindi, del quale tornare ad appropriarsi in modo diretto e fisico, catturandolo e assorbendolo (Get Out), o più subdolamente da trattare scindendolo in due parti contrapposte, quella del selvaggio fuori dal potere di mercato e quella del nero civilizzato accettato dalla società bianca perché a questa conformato (Us). Puntuale il modo in cui Gresleri riporta a questo punto del discorso le parole dell’attivista bell hooks: «Il timore principale è che le differenze culturali, etniche e razziali vengano continuamente mercificate e offerte come nuovi piatti per soddisfare il palato dei bianchi – che l’Altro venga mangiato, consumato e dimenticato».
A conferma di questa tendenza, nel corso del 2020 arrivano sul piccolo schermo anche Lovecraft Country e Antebellum, la prima una serie TV e il secondo un film costretto allo streaming a causa dell’imperversare del virus e quindi delle sale chiuse. E, ovviamente, non stupisce come nella serie sviluppata da Misha Green a partire dall’omonimo romanzo di Matt Ruff figuri tra i produttori proprio Peele. Dieci episodi costruiti con una sapiente ma non sempre uniforme esplorazione di differenti generi e carature umorali, prediligendo un sovrannaturale sanguigno e sanguinolento dove il principale punto di raccordo si rivela essere un massacro mai rimosso, quello razziale della città di Tulsa a cavallo tra il 31 maggio e il 1 giugno 1921. Tulsa che fu già il cuore di un’altra importantissima serie arrivata nel 2019: Watchmen, sequel creato da Damon Lindelof capace di riflettere brillantemente sul vero tema politico degli Stati Uniti contemporanei, così come fece la graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons ai suoi tempi.
Antebellum, scritto e diretto da Gerard Bush e Christopher Renz, arriva invece un po’ più in sordina, pur rimanendo sulla scia dell’evidenziazione di quella «appropriazione e […] sfruttamento dei corpi neri per mano dei bianchi, nel passato come nel presente, dalla schiavitù allo spettacolo e allo sport», per usare ancora le parole di Gresleri, dove il nesso temporale è la chiave di un twist narrativo efficace e puntuale nel trasporre il portato di un incubo a occhi aperti.
E al filone afrosurrealista pare accostarsi, per modalità di trattamento (su tutte la spiccata centralità della tradizione africana), anche un altro black horror come His House, originale Netflix scritto e diretto dall’esordiente Remi Weekes, che esula in parte dal discorso per la matrice europea del film. Siamo in Inghilterra e le radici delle frizioni sociali sono differenti da quelle statunitensi. Il tema dominante è quello migratorio connesso all’atteggiamento colonialista del mondo occidentale, così come si faceva presente in apertura del testo. Servirebbe insomma tutto un discorso a parte, così come per Small Axe, la serie televisiva antologica scritta e diretta da Steve McQueen sulla comunità afro-britannica, ma è interessante notare ancora come quello dell’horror resti cifra d’analisi ideale per la trattazione di questi temi da un capo all’altro dell’oceano.
Molti punti di contatto del black cinema USA sono quindi sotto il cappello del genere, ma altrettanti se ne rintracciano nella ricorrenza dei nomi (abbiamo visto Peele) e soprattutto dei volti che si calano davanti all’obiettivo. Si prende dalla tradizione divistica e la si spoglia del glamour in favore della connotazione da impegno politico, di attrici e attori che nell’epoca dell’immagine imperante non sono più solo star, ma divengono simboli di coesione sociale e veri e proprio capipopolo.
E come si può, a questo punto, non prendere ad esempio il recentemente compianto Chadwick Boseman? La sua Pantera Nera, sua come Black Panther (2018) lo è di tutte le maestranze prevalentemente afroamericane che hanno partecipato alla realizzazione del film, ha marcato a fondo l’immaginario della gioventù nera così come quello di un intero popolo. Discutere dei meriti strettamente artistici del film diviene un esercizio superfluo, sforzo miope se non accompagnato al rilevare l’importanza sociale che ha avuto, e tuttora ha, un film appartenente al genere cinematografico per eccellenza della contemporaneità, quello supereroistico, che in Black Panther racchiude l’impegno autorappresentativo popolare ideale. Per il film diretto da Ryan Coogler le candidature agli Oscar furono sei – portati a casa tre -, tra cui la prima volta a Miglior film per un cinecomic. Un segnale, quello lanciato della stagione dei premi, che dopo l’accusa di #OscarsSoWhite partita da Spike Lee nel 2016 ha assunto tutto un altro spessore.
In cima a questo, appunto, Boseman. Un attore che ottiene il plauso definitivo proprio per il simbolo che è finito per rappresentare incarnando il re T’Challa, ma che prima di Black Panther aveva già dimostrato la propensione a scegliere ruoli di un certo impegno. Jackie Robinson in 42 del 2013, primo giocatore di baseball afroamericano a calcare i campi della Major League Baseball, poi la leggenda della musica James Brown l’anno successivo con Get on Up. È però il 2020 che segna per lui una consacrazione quasi messianica, anno tagliato trasversalmente dalle due interpretazioni più intense dell’intera e purtroppo breve carriera di Boseman, prima con il Da 5 Bloods proprio di Spike Lee e in seguito con Ma Rainey’s Black Bottom a firma di George C. Wolfe. Il primo arriva in streaming su Netflix dopo aver dovuto rinunciare al passaggio al Festival di Cannes annullato nel 2020 a causa della pandemia e che vede nel 2021 riconfermato come presidente di giuria, tra l’altro, Spike Lee. Il film ruota attorno a un gruppo di veterani afroamericani che tornano nella terra del rimosso per eccellenza, quel Vietnam che è ferita mai rimarginata per gli USA e che per questo manipolo di ex soldati neri rappresenta anche il limbo di un sangue versato in nome di un Paese che non li vuole.
La cifra stilistica di Lee, che non ha mai svestito la divisa del cinema da guerriglia a poco più di trent’anni da Fa’ la cosa giusta (1989), si carica in spalla un animo battagliero e dai contorni caustici che volgono al viscerale, che parla alle interiora e che le fa anche schizzare fuori in un progressivo cedere al surreale. La forma di risarcimento che questi uomini imbolsiti cercano è una cassa d’oro nascosta ai tempi della guerra, che a sua volta nasconde un segreto più grande mai affrontato e legato a quel loro capitano-guru nel corpo di Boseman. Stormin’ Norm vive nei flashback, nella compressione del formato ed è una guida che parla dal passato con la veemenza di chi è saggio: è Martin Luther King che abbraccia Malcolm X, che come loro è morto.
Un punto estremamente degno d’interesse è come siano centellinati gli insegnamenti di queste due figure imprescindibili della cultura nera all’interno del black cinema. La rabbia collettiva, o meglio esasperazione, si riflette all’interno di queste opere dove il Dr. King pare farsi socio minoritario, pare dover lasciare spazio all’irruenza da coltello tra i denti del credo di Malcolm X. A partire da Da 5 Bloods, che si chiude con una parte del bottino consegnata dai protagonisti nelle mani del movimento BLM, e passando proprio per Ma Rainey’s Black Bottom, dove il racconto basato sull’omonima pièce teatrale di August Wilson (principale commediografo afroamericano) è articolato sull’intensità di sferzate e scambi nervosi. Fa un certo effetto ritrovare qui, a pochi mesi dalla scomparsa, un Boseman provato, consumato dalla malattia che dona al trombettista Levee un’aura spettrale e ne amplifica a dismisura il potere iconico, un’interpretazione che anche in ottica di premiazioni sta riscuotendo un incredibile successo. Siamo nella Chicago di fine anni ’20 ma il sangue che scorre nelle parole strappate, gridate, lanciate via da Boseman sembra essere lo stesso che diverso tempo dopo confluirà nei discorsi di Malcolm X. Quest’ultimo figura chiave che troviamo nella serie televisiva Godfather of Harlem ma soprattutto al fianco di personalità come Cassius Clay, Sam Cooke e l’atleta Jim Brown in One Night in Miami, esordio alla regia cinematografica della premio Oscar Regina King - protagonista, per inciso, proprio della serie Watchmen citata.
Arriva qui un altro spunto d’analisi nel riconoscere come anche questo sia un film tratto da un’omonima opera teatrale scritta da Kemp Power, che sceneggia anche il film (come recentemente ha sceneggiato pure il Soul della Pixar). E come in Ma Rainey’s Black Bottom lo spazio fisico si riduce al minimo, le distanze si annullano e l’unica coordinata possibile resta quella di un dialogo, di una tradizione orale che prende il sopravvento nel configurarsi come valvola espressiva e ponte di congiunzione di un presente che guarda al passato conscio della strada percorsa e di quanta ancora ce ne sia da calcare. Un cinema ridotto all’essenziale, che si fa atto esorcistico dei soprusi e delle violenze subite attraverso lo scorrere fluviale delle loro parole, una volta raccolti attorno all’ideale fulcro che altro non è che l’identità black. Rifiuta l’articolazione di una messa in scena complessa ma non per questo sommaria, come ad esempio avviene con la trattazione marginale della pantera nera Bobby Seale nel Processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin, film che guarda più golosamente al dispositivo cinema che alle implicazioni dell’evento trasposto.
In merito alla centralità della lotta e delle Pantere Nere, chi guarda bene al cinema senza dimenticarsi di essere prima di tutto “black” è lo Judas and the Black Messiah diretto da Shaka King, film più recente tra quelli fin qui nominati. Pellicola più “classica” per quanto concerne la costruzione drammaturgica degli eventi, Judas and the Black Messiah porta in scena con dignità e precisione il tradimento di William O’Neal ai danni di Fred Hampton, rispettivamente interpretati dai due incredibili e già nominati Lakeith Stanfield, uno dei simboli della serie TV Atlanta creata da Donald Glover, e Daniel Kaluuya a riconferma di un divismo politico sempre più radicato. Ma non solo, il film ha anche già segnato la storia degli Academy Awards divenendo il primo lavoro prodotto interamente da afroamericani (lo stesso regista, Charles D. King e il ricorrente Ryan Coogler) a essere candidato come Miglior film. E quando Coogler, che ha rifiutato l’invito a entrare nella Academy, solleva la questione del perché ci siano voluti 93 anni perché ciò accadesse è francamente difficile controbattere.
Ciò che rimane, in chiusura di questa breve panoramica nella densa e magmatica realtà di un black cinema in continuo divenire, è sicuramente la necessità discorsiva alla base di questi film. I tempi della segregazione razziale sono distanti non più di qualche decennio, e i rigurgiti d’odio diffusisi a macchia d’olio sotto l’incendiaria amministrazione politica recente non hanno fatto altro che rivangare un passato che evidentemente ancora non è percepito come tale. Da qui, sicuramente, arriva il nuovo impulso artistico che ha avvertito la necessità di fronteggiare il quadriennio trumpiano con la codificazione intensiva di questa ondata di cinema. Le elezioni statunitensi sullo scadere del 2020 hanno però evidenziato in modo preoccupante la spaccatura netta di una nazione polarizzata su frange opposte, dove mai come prima la possibilità di dialogo tra le parti appare impresa a dir poco difficoltosa. In un clima di forte tensione culminato nel tanto grottesco quanto drammatico assalto alla tenuta democratica con l’invasione di Capitol Hill, sarà estremamente interessante vedere come la sensibilità creativa e sociale della comunità nera si approccerà alla complicata era Biden.