Ho seguito la "vicenda" Marie Gulpin (edito da Neri Pozza Editore, collana Beat) almeno da quando le sue prime pagine hanno cominciato ad apparire sulle colonne di alcune riviste (lo dirò proprio in apertura), perché in sé contenevano elementi caldissimi, probabilmente quelli che in modo più deciso rimarcano la fisionomia socio-politica del nostro Continente, e allargando di tutta la civiltà occidentale: spirito di potenza, desiderio di controllo, animalità, militarizzazione, esasperazione, malattia, violenza.
Quello di Marco Mantello è un libro che parla di tutto questo, infilandosi nelle pieghe di un paese coloniale e d'immigrazione, la Francia, che più dell'Italia è teatro di queste forme, dalla crisi delle banlieue alle stragi del Bataclan e di Charlie Hebdo, fino al ferro e fuoco contro Hollande, Sarkozy e Macron, un libro rivelatore degli ingredienti più tossici ed esplosivi, le scorie, le schegge non impazzite ma fondative del nostro ordine. Ho scambiato con lui qualche parola.
Filippo Rosso - Chiariamo subito una cosa: questo libro parte da lontano, da scritti di almeno sette anni fa (poi apparsi sulle colonne di Minima&Moralia). Al tempo ti inventavi un ministro francese che grazie al voto popolare riesce a ripristinare la pena di morte. È Marie Gulpin. Oggi il suo alter-ego prende il 40% dei voti rivendicando il suo sostegno a chi in patria vieta le parole straniere, fa fuori i giornalisti e "libera" i prigionieri mandandoli in trincea. Hai scommesso sul cavallo giusto.
Marco Mantello - Il contesto in cui è stato concepito Marie Gulpin era ed è tipicamente occidentale. Cavalcatori di tigri a parte, il background della storia ha molto a che fare con la degenerazione in atto delle democrazie europee. Questo a partire dall’ascesa del populismo, dalla pretesa creazione di comunità omogenee e tenute insieme da un "nemico", che nel romanzo prende le forme delle "vittime colpevoli". La paura della morte, il mito della legalità e della sicurezza solo per "noi", una capillare organizzazione degli spazi comuni attraverso prassi di polizia e sistemi di sorveglianza urbana: è questo lo sfondo della narrazione, almeno nella prima parte del romanzo. Ma poi qualcosa, nel "naturale scorrere degli eventi", si inceppa e crolla, al pari della procedura che porterà alla condanna a morte del figlio della Presidente della Repubblica. Ed è allora che emerge il "male".
FR - Penso a due episodi, ma sono solo i primi che mi vengono in mente: l’intercettazione – riportata da Roberto Saviano - della discussione di un camorrista che metteva in guardia il boss sull’inquinamento delle falde acquifere, a cui questo risponde: “a noi che ci importa, beviamo acqua minerale.” Secondo: il “quando i nazi vennero a prendere i comunisti, sono rimasto in silenzio” di Martin Niemöller. Insomma, siamo portati a pensare che gli effetti nefasti delle nostre azioni cadano soprattutto sugli altri. L’isola come auto-rappresentazione. Il male in Europa nasce spesso dal sentirsi protetti dai propri torti?
MM - Il tema del "punire" e delle "società punitive", recentemente trattato in un libro di Fassin, dove si affronta la vecchia idea di pena come "vendetta" e "retribuzione" (tralasciando peraltro l'altro filone alla Seneca del Ne peccetur, della funzione preventiva) parte a ragione dalle prassi di polizia, giudiziarie, carcerarie, che realizzano fattualmente la cosiddetta passione del punire. Fassin ha il merito di individuare, sulla scia di Foucault, una sineddoche fra le concezioni giuridiche della pena e il punire e l'autopunirsi fattuali, come prassi degli esecutori e talora delle vittime stesse. Tutto questo lo sento molto vicino al lavoro che sto facendo con i miei romanzi.
Credo che il libro di Fassin risenta di alcuni limiti nel momento in cui cerca di spiegare il "perché si punisce" (spesso collettivamente, una parte della società assurta a nemico) con passi di Nietzsche tratti dalla Genealogia della morale, e in definitiva con il sadismo. Oggi negli spazi urbani europei esistono una violenza che ripristina il diritto violato, e una violenza che usa e manipola il diritto per realizzare una potestà punitiva di fatto su una parte della popolazione, esiste una violenza delle procedure, esiste una violenza che non si fonda sulla preventiva violazione del diritto, ma sulla percezione di criminali potenziali e sul mero "controllo" fine a sé stesso; esiste infine una violenza tesa a punire gli stessi dissociati delle classi sociali privilegiate, e cioè le condotte solidali. Le causa di queste forme di violenza non sono correlate sempre e solo al "sentimento del punire", ma vanno anche ricercate al microscopio nelle relazioni "umane" che si instaurano nei luoghi della violenza, fra gli esecutori e la parte di popolazione sorvegliata ad hoc. Da questo punto di vista resta molto attuale la lezione di Foucault: assimilare e escludere sono due facce della stessa medaglia. A mio avviso queste condotte non si realizzano oggi, solo, in un contesto di guerra civile, ma anche in un contesto di pace perpetua e di mantenimento di un ordine come bene supremo di una società autoritaria.
FR - Due scene del libro: la Gulpin e il suo marito (italiano) che vanno a comprare della “carne islamica”, cioè halal, ma discretamente, in modo che la politica non si contamini di fronte al suo elettorato con quella materia oscena; prima ancora, la coppia che assiste in strada a due giovani in effusioni, lui un “ragazzone” francese di quasi due metri e lei una ragazza araba. Ci sono delle filigrane, dei passaggi porosi tra l’emanazione dei corpi e le loro frontiere. Queste sono sempre, prima di tutto, politiche. Ci puoi dire qualcosa di più su questo aspetto?
MM - Sono anche frontiere fisiche, e legate proprio alla percezione e all'alterazione dei corpi. Nella prima parte del romanzo queste frontiere sono rappresentate dal corpo del “tunisino” brutalmente ucciso da un gruppo di adolescenti francesi, di cui fa parte Luigi, il figlio di Marie Gulpin. Il corpo di una vittima innocente, che poi, attraverso il meccanismo mediatico del tribunale parallelo, diventa il corpo di una vittima colpevole, un corpo rotto, maciullato sotto i binari da un treno in corsa, e poi ricomposto per i funerali islamici, e poi di nuovo alterato, da cadavere, nel macabro rituale di un gruppo terroristico di estrema destra, che appare a ridosso della condanna a morte sulla ghigliottina del figlio della Gulpin, e comincia a profanare cimiteri islamici e a bruciare minareti, invocando la grazia del loro “affiliato”. Qui pensavo a un affresco di Rembrandt, La lezione di anatomia del dottor Tulp, e a una bella osservazione di Sebald, nelle prime pagine de Gli Anelli di Saturno, sul carattere simbolico della scena. Nell'affresco di Rembrandt ci sono questi medici olandesi davanti al cadavere di un assassino. Si sta svolgendo l'autopsia e Tulp, il chirurgo mostra ai sui adepti il movimento della sua mano, accanto a quella del cadavere, che è stata appena dissezionata. La cosa interessante della scena è che tutti gli astanti non guardano il corpo dell'assassino, guardano tutti altrove, alcuni un libro aperto come una Bibbia, altri solo il vuoto, mentre Tulp, il chirurgo, mostra la sua mano, accanto a quella violata del cadavere steso sotto di lui, per far intuire il meccanismo delle terminazioni nervose. Il come si muove la mano dell'assassino, e il come si muove la sua mano. Ecco, la mano del “potere”, che doppia quella di un “omicida”, nel corso di una procedura che di suo è violenta, e si attiva da sé, nel corso di un rituale che va oltre la mera autopsia del corpo, e che è già fortemente punitivo, asettico, deresponsabilizzato e privo di “colpa”, dal lato di chi ha il diritto e il privilegio di non dover guardare. Nella seconda parte del romanzo, la prospettiva sui corpi cambia ancora e perde la sua feroce sacralità da violenza delle procedure, che siano di polizia o di altro tipo. Qui mi interessava scendere a un livello più personale, legato ai singoli personaggi, e alle loro alterazioni emotive e psichiche provocate dal dolore. C'è il rapporto disturbato, quasi da immaginario pornografico, di Cesare Cannelutti con il proprio corpo, rivissuto in quello del figlio morto, c'è la felice pedofilia upper-class della psicologa di Marie, Emilia Kosmanne, che se la fa, come si dice in gergo, con minorenni dal background migratorio, c'è una disturbante scena di stupro di una disabile a una festa dei diciotto anni al mare, girata in video da “terroristi”. Il tema dell'alterazione dei corpi è centrale, e si lega a una progressiva alterazione delle identità. Talora questi black-out sono provocati da eventi drammatici, come nel caso di Cesare che perde il figlio, e inizia a maturare attraverso la visione dei video dei terroristi, il complesso del pene piccolo; talora ci sono forme tarate o fraintese di emancipazione sessuale, come nel caso di Emilia Kosmanne, che vive in un perenne “carpe diem”, le sue nuove occasioni di carriera. Il feroce bisogno di ricominciare a vivere e uscire dalla follia, nel caso di Marie, e della sua relazione priva di sbocchi con Cesare, è modellato su una nuova, tardiva adolescenza senile, che parte proprio dalla scena dei due ragazzini a scuola di cui parlavi nella domanda. Queste situazioni fanno da sfondo a un continuo tentativo di definizione, e allo stesso tempo di rimozione di sé, dall’angolo visuale della voce narrante, che lentamente si sgretola in un’inappagante e infruttuosa ricerca di verità sull'Affaire Gulpin.
FR - Il libro mi sembra contenere dei contrasti fertili, a partire dalla dimensione temporale, la sincronicità di eventi lontani, il rimando a un “un senso di futuro e di medioevo allo stesso tempo”. Questo lavoro se da una parte è fantascienza distopica, dall'altra ripercorre un passato recente (ricordi che l'esecuzione di Hamida Djandoubi, l'ultima avvenuta in Francia, è allena del 1977). In questo caso, sembra che ogni movimento centrifugo sia invece centripeto, che ogni rimando a vicende d'immaginazione serva a rievocare cose ultra-concrete. È così?
MM - Marie Gulpin è costruito su una trama del tutto inventata, ma rimanda continuamente a situazioni percepite come attuali e reali, che di solito il lettore conosce dai media o dai social, sotto forma di spettatore. Ho corso il rischio di sfruttare la disturbata precomprensione di chi vive la nostra epoca come una sommatoria di stimoli esterni alla “conoscenza”. Le percezioni di un lettore temporaneo, sottomesso sovente a “esperti”, invaso da informazioni, e destinato a sparire nel tempo come la carta stampata, sono state nella mia testa almeno, un sottofondo perfetto per raccontare una fiction, spero più durevole. La trama del romanzo è fondata anche sul lasciare intendere, o sul sottintendere, “fatti reali”, e in questo ha a che fare con un mondo dove non c’è attesa, e dove non c'è speranza, c'è solo il bisogno di capire che cosa sta accadendo realmente alle nostre vite, traslate su quelle dei personaggi. Credo che questo “rimando” al “presente” nasconda un meccanismo opposto a quello di celebri distopie da film, dove il mondo si accorge di non esistere per come si percepisce, e di essere finzione, rispetto alla scoperta di un sottofondo oscuro di “immaginazione distopica”. Pensa ovviamente a Matrix, alla società delle macchine, alle persone ibernate, alle astronavi: queste cose, che di loro sono fantascienza, fiction, in quel film diventano, per così dire, la realtà reale. Invece in un libro come Marie Gulpin avviene quasi l’opposto: qui non c'è nessuna scoperta di un sommerso, perché è la fiction a essere doppiata continuamente dalle percezioni della nostra realtà, che fa appunto da “matrice”, da “sottofondo oscuro”, in cui la storia si conclude nelle sue pagine finali. Poi c'è un secondo profilo, che chiami di “sincronicità di eventi”, riferendoti alla compresenza di elementi del passato (e del futuro) nel presente storico del romanzo. Questa dimensione temporale, dove tutto si mescola e si fa sincronico, ha molto a che fare con le sensazioni dei personaggi e con le atmosfere in cui sono immersi. Qui ha giocato un ruolo importante la mia personale percezione di invisibili scorie nella nostra realtà, dove esistono ancora e operano frammenti di un passato rimasticato dalla tecnologia, dalle mere decontestualizzazioni di massa, o dalla bieca ignoranza e passività di chi obbedisce a ordini, o a incentivi. Un qualcosa di già successo, di già teorizzato, di già vissuto, che muta forma, e diventa il “nostro futuro”, o la “modernità”, quasi in modo inconscio. Penso alle vecchie teorie di Skinner sugli “stimoli ai topi da laboratorio”, oggi rivisitati dagli informatici per i sistemi di social credit, penso al culto del Made in Italy e della lingua italiana e all'ideologia fascista, penso al mito dell'essere produttivi nel pensiero fisiocratico e all'intelligenza artificiale, o alla costante riproposizione propagandistica nelle società occidentali di teorie della “guerra giusta”, che rimandano davvero alla “guerra santa”, ai canonisti, a Innocenzo IV, o al meglio a Francisco de Vitoria, e penso infine alla ghigliottina, alla dimensione simbolica di cui è intriso ancora oggi in Europa il potere di vita e di morte sulle persone, nelle sue antiche, eppure nuovissime forme.
FR - In uno dei capitoli del libro apri con: “La domanda a questo punto sorge da sé e me l’hanno rivolta in tanti alle presentazioni del libro, accusandomi di essere il solito banale narratore onnisciente, o solo un mitomane complessato: come facevo a sapere i particolari intimi su quei due stronzi?” Proprio in riferimento a questa “nostra” realtà che sovrapponiamo alla lettura del libro, ci sono delle vicende della tua storia personale da cui hai maggiormente attinto durante la scrittura?
MM - Forse stati d'animo, più che vicende personali. Ultimamente ho letto un breve racconto di Bernard Malamud, Spring Rain, che rappresenta bene "l'incomunicabilità", il "frenarsi", in armonia con il tuo ambiente, il costante produrre cesure fra pensieri di liberazione, che so? Della propria giovinezza perduta, e parole troppo simili alla calvizie, o al solito background di separazioni e matrimoni falliti, che attanaglia generazioni di scrittori. Questa è quella che chiamo una narrativa indotta da un'idea, o da un tema. È fatta di scene quotidiane minimali, simboliche, a loro modo insulse, e sviluppa una coerenza fin troppo telefonata fra la caratterizzazione di un protagonista e l'idea che deve rappresentare. Nel racconto di Malamud, l'idea di fondo è la cesura fra quello che si vorrebbe esprimere, e i contenuti della propria voce, una volta emessa all'esterno. Questa idea di incomunicabilità assume le fattezze del solito personaggio a senso unico. Si chiama George Fisher, ma potrebbe anche chiamarsi con un altro nome e cognome essendo un personaggio-idea. Comunque, George è un padre di famiglia middle class, che per strada assiste alla morte di un giovane uomo, proprio nell'incipit del racconto. Forse anche in George qualcosa è morto nel giro di sei righe, al pari della comunicazione con moglie e figlia. "Il giovane uomo morto" si sente resuscitato, per brevi attimi dalla sua solitudine, quando Paul, il ragazzo della figlia, invita il vecchio George a fare una passeggiata, confidandogli che non riesce a comunicare con la sua ragazza, non riesce a "raggiungerla". Nel corso di quello che nella testa di George sembra essere un evento liberatorio, e che liberatorio non è, piove. George si infervora interiormente, e sviluppa la sua cesura. Nella sua testa vorrebbe aprirsi con tutto sé stesso e rivelare a Paul che si rivede in lui, che ha sentito e sente cose analoghe alle sue ai tempi in cui era innamorato della moglie, ma poi ogni slancio emotivo si materializza in un banale: "I know what you mean, Paul". Tornato a casa, in un ennesimo lampo di interiorità priva di sbocchi, George va a a svegliare la figlia per raccontarle della passeggiata con Paul. Dentro è euforico, vorrebbe parlare, vorrebbe dire cose mai dette prima. Florence si rigira nel letto mezza assonnata. Quando chiede cosa vi siete detti con Paul durante la passeggiata nella pioggia, George risponde solo: "He didn't say anything". Una lettura utile per capire come non devi scrivere a cinquant'anni, quando le cose che hai dentro non sono più riducibili a un te stesso da giovane, o già riferibili a un te stesso da vecchio, e quello che sei in questo preciso momento si riduce appunto a stati d'animo. Per me è un po' così adesso, forse a farmi scrivere fiction è proprio il non riuscire a esprimermi nella vita reale, rivisitando “esperienze“, o facendo ruotare tutto su metafore, o peggio sul simbolico, rispetto a un vissuto seriale.
FR - Questo libro è parte di una serie di romanzi che stai scrivendo sul tema della violenza e del controllo nell’Europa contemporanea. Un’opera abbastanza monumentale, nella mole e nell’ambizione. Ci puoi anticipare qualcosa a riguardo?
MM - Marie Gulpin è il primo libro di un ciclo di sette storie autonome, con una cronologia unitaria e personaggi ricorrenti, ambientate in un continente parallelo all'Europa. Lavoro a questo progetto da dieci anni e ho quasi finito di scrivere cinque romanzi sui sette programmati. Il prossimo libro del ciclo, su cui attualmente sto facendo l'editing, è ambientato nell'enclave spagnola di Melilla, in Marocco, dove sono stato diverse volte a vedere le reti divisore di un confine. È un romanzo di oltre 600 pagine e l'augurio che mi faccio è che esca in due parti ben divise a livello di trama.
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