C’è vita dentro l’alienazione - Singola | Storie di scenari e orizzonti

C’è vita dentro l’alienazione

Le parole e la carne nel nuovo libro di Viola Di Grado, "Fame blu", edito da La nave di Teseo. Una recensione.

Massimo Villani

ricercatore in filosofia, si occupa di politica, estetica e pensiero contemporaneo. Ha pubblicato una monografia su Jean-Luc Nancy.

C’è stata la fine della storia, concepita negli anni Novanta come una specie di inerzia vegetale che avrebbe accompagnato la pacifica espansione del capitalismo. Il conflitto, allora, sarebbe rifluito nella dimensione etnica perché, compiuta la storia, esaurita la politica, a scontrarsi sarebbero state solo le civiltà e i rispettivi presunti valori. È stata poi la volta del trionfo delle simulazioni sulla realtà: la guerra del Golfo e poi l’11 settembre inghiottivano le cose, restituendole senza spessore, appiattite sullo schermo. Spaventose crisi economiche, sociali, sanitarie coartavano le nuove soggettività, ne soffocavano il desiderio. Si spargevano discorsi sulla malinconia, sulla depressione di intere generazioni, su futuri rubati e presenti spettrali. Peggio dello stagnare del tempo, il nuovo millennio presentava la fine del mondo.

Un primo motivo di interesse del nuovo romanzo di Viola Di Grado sta nel fatto di mettersi di traverso rispetto a queste narrazioni. Prima ancora che per le pregevoli qualità stilistiche, su cui pure si tornerà, Fame blu (La nave di Teseo, 2022) ci interessa anzitutto per questo, perché dice: c’è un futuro. C’è un erotismo, un desiderio che spezzano il presunto ripiegamento ombelicale dei soggetti; soprattutto, questo desiderio non è generico, fuori della storia, ancestrale. Non richiede alcuna narrazione arcaica, nessuna retorica della carne o richiamo dell’atavico. C’è un erotismo che fa tutt’uno con le forme nelle quali si esprime, adesso e verso il domani. Ci sono passioni, profondità che sfidano le superfici degli schermi, ma che non sono il loro altro. C’è dolore, amore, attesa, lutto, gioia proprio qui e ora, senza alcuna flessione mitica. Il presente fa paura, impossibile negarlo, ma la sua inquietudine è movimento, scuotimento, estasi verso l’avvenire. Il compito maggiore di un buon libro è, oltre a offrire una buona compagnia per qualche ora, quello di trovare i segni di questa inquietudine sbilanciata al futuro, ed è quanto prova a fare il libro di cui parliamo.

È vero, c’è un mondo che viene, e non lo fa presentandosi, mostrando le sue nuove credenziali, cancellando il passato. Il mondo che viene non è altro che la saturazione di quello vecchio, il suo stesso ribollio, la sua frenesia. Non il nuovo che avanza e la rottamazione del vecchio: ciò che viene è precisamente un brulichio. Il nuovo è già qui, ebollizione dell’unico mondo. Non è forse neanche un cosmo, ma materia priva di ogni cosmesi; puro proliferare senza principio, anarchico, è materia in libertà, materia come libertà. C’è un immondo che viene, tutto un movimento che risale. Ogni radice è divelta, tutto sta con tutto, temporalità molteplici coesistono, spazi eterogenei si incastrano. L’immondo che viene non ha spazi chiusi né aperti, dentro e fuori sono lo stesso, reale e immaginario si distinguono appena. Non è, non sarà il cosmo dell’ordine, della coerenza, ma il suo fervore.

La prosa di Di Grado è radente questa inquietudine, la espone. Questo rimestamento di spazi, tempi, immagini, cose risale ovunque perché non ha un centro né un principio, però forse ha un punto di avanguardia: è Shangai. È qui, in questa megalopoli a dismisura postumana, che si reca la protagonista e io narrante del romanzo. Il plot è semplice, perfino banale, ma serve come supporto o come pretesto per l’effervescenza del linguaggio: è su questo piano, piuttosto che su quello della trama, che accade tutto il romanzo. Non conosciamo il nome di questa giovane donna che lascia l’Italia per recarsi nella metropoli a lungo sognata dal suo gemello appena morto. La chiameremo Ruben perché così si chiamava l’amato fratello. Deve confrontarsi con l’estraneità radicale che è la morte, lo fa in un mondo completamente alieno rispetto a quello d’origine. Trova l’amore, e nell’amore ancora dolore, dipendenza, mortificazione, poi catarsi.

Molti sono i temi che si possono individuare: il doppio e l’alienazione, l’elaborazione del lutto, l’amore tossico, il confronto tra civiltà lontanissime, o anche – ché fa ancora notizia – l’eros lesbico, visto che Ruben si innamora di una bellissima donna. Come pure si potrebbe sottolineare che Viola Di Grado è una raffinata studiosa di lingue e filosofie dell’Asia e che questa sua conoscenza precipita continuamente nei suoi libri; già un suo romanzo del 2016, Bambini di ferro (La Nave di Teseo), era ambientato in una Tokyo futura, e i temi fondamentali di molte filiere filosofico-religiose orientali – la mente come mera esperienza, la vacuità – vi trovavano ampio spazio.

Tutto ciò è stato ampiamente sottolineato nella ricezione, già fortunata e meritata, di questo bel libro. C’è però un aspetto che, benché molto evidente in questa prosa, vale la pena sottolineare. Si tratta della tensione che attraversa tutto il testo tra un bisogno di forma, e una pulsione verso l’informe.

L’autrice ha posto a esergo del suo romanzo una citazione da Octavio Paz: ‘amare è spogliarci dei nostri nomi’. In effetti i nomi hanno un’importanza decisiva in questa storia. Ruben nasconde il suo vero nome alla sua amata, occultandosi nello spettro del suo doppio; ma la donna che ama ha, a sua volta, un nome sulla cui impronunciabilità tornano molte pagine. Si chiama Xu, che dovrebbe suonare più o meno sciù, ma la lingua dovrebbe sfiorare leggermente il palato a suscitare un ‘sibilo sinistro come quello di una serpe’. Intorno alle due amanti c’è, infine, una girandola di persone che usano presentarsi con nomi occidentali.

C’è nei nomi una funzione astraente, una capacità di mascherare, di indicare sottraendo ciò che è nominato, continuamente rimessa in gioco in queste pagine. I nomi delle cose e delle persone rappresentano una sorta di mozione d’ordine, un richiamo alle identità ferme e disincarnate, chiuse in una staticità fuori dal tempo. Questo richiamo all’ordine si intensifica e allo stesso tempo si turba in questi continui giochi di specchi. Il reale che vuole essere identificato si moltiplica e dissimula nei nomi in cui si dà. Un giorno Ruben ripete in solitudine il nome della sua Xu come fosse un mantra, fino a scarnificarlo, togliere ogni significato, lasciare solo il suono che propaga nella cavità della bocca, in questa apertura del corpo sul mondo.

Proprio qui, cioè su questo piano che è tutto linguistico o stilistico del romanzo – e che, ripetiamo, è l’unico piano in cui il romanzo accade – qui c’è un rovesciamento: il libro è diviso in trenta brevi capitoli che hanno come titolo i nomi di pezzi di un corpo vivente: ‘bocca’, ‘nuche’, ‘dita’, ‘denti’, ‘vertebre’, ‘labbra’ e così via. Ad animare queste pagine, dunque, non è alcuna suspense in vista di una agnizione o cose simili; l’evento è tutto nella forza con cui le pagine prendono forma, in questa tensione continua tra astrazione linguistica e irriducibile presenza. Una presenza singolare, traboccante di desiderio e dolore, che sfida continuamente il dicibile.

Fame blu è perciò un romanzo di formazione in un senso molto forte. Lo è certamente per un motivo banale, ovvero perché due delle tre protagoniste fondamentali, Ruben e Xu, trovano la loro forma nell’esperienza del loro incontro. La prima giunge a Shangai completamente sfatta dalla sofferenza. È amorfa, una pura passività che si offre quasi sacrificalmente ai vezzi sadici dell’altra. Xu è, al contrario, gelida e perfetta, compiuta come una sfera, impassibile. Xu morde Ruben, le lascia cicatrici, la umilia, l’altra risponde dicendo: ‘mangiami’. Lentamente, però, l’amore innesca in entrambe una metamorfosi, lunga e non facile, che scioglie questa polarità e dona un nuovo innesto. Le due amanti trovano una forma attraverso il loro incontro.

Si tratta, però, di un romanzo di formazione soprattutto nel senso eminente che, più che una narrazione, il libro espone esattamente la dinamica della messa in forma. La scrittura, cioè, scava continuamente il bordo dal quale emergono identità più o meno stabili, e dove le cose tornano a precipitare per diluirsi. La scrittura esplora questo margine nel quale desiderio di autodissoluzione e spinta al possesso non si distinguono. È tutto un mangiare continuo, mangiare e vomitare, farsi mangiare e essere divorati dalla fame. Sono di una potenza indimenticabile le pagine in cui è descritta la casa di Xu, ovunque fasciata di rimasugli di cibo mangiucchiato e lasciato a marcire. Viene alla mente il capolavoro del regista e sceneggiatore Steve McQueen dal titolo non a caso in assonanza rispetto a questo libro, Hunger (2008), dove le pareti del carcere si coprivano di deiezioni. C’è una forza irresistibile dei corpi, della loro putrescenza e della loro capacità di sentire dolore e gioa, che continuamente lotta con la petizione all’ordine richiesta dal linguaggio: questo conflitto, questa dinamica tra forma e informe, è il vero oggetto del libro, l’evento che esso ci ostenta.

Il grande interesse di Fame blu, però, sta nel produrre un immaginario contemporaneo. La potenza dei corpi non è evocata attraverso un richiamo all’arcaico o una fuga verso il mondo rurale. Non c’è nessuna carnalità originaria che si opponga come “più autentica” rispetto allo scenario metropolitano reificato. Ruben e Xu fanno sesso giocando con oggetti di plastica, e il loro set preferito è un ex mattatoio: ancora un luogo di estenuazione e scempio della carne, che però è visitato da turisti in cerca del selfie perfetto. È qui che le due amanti celebrano la loro liturgia, che è appunto tale, messa in scena, infingimento: cioè, ancora, messa in forma. Una forma che viene, qui e adesso, che non è affatto il ritorno dell’ancestrale, ma produzione in atto di desiderio. Questi corpi, inoltre, non sono gli antagonisti delle immagini, dei simulacri, ma si ibridano continuamente con tutto ciò. Non c’è una autenticità da ritrovare altrove, perché non c’è altrove.

Il romanzo di Viola Di Grado è interessante perché offre uno sguardo capace di orientarsi nell’immanenza satura dove siamo. Dove altri troverebbero soffocamento e cercherebbero una fuga verso l’arcadia dei corpi, proprio qui, in questa saturazione, la scrittrice catanese vede ancora il desiderio che spinge, vede forme che emergono.

Coerentemente con tutto questo, Shangai è la terza protagonista del romanzo. Non uno sfondo, ma una presenza viva e costante. È una città ‘dove niente resta se stesso’, una metropoli ‘schizoide’. È un paesaggio estremamente concreto, descritto fotograficamente, ma è anche e soprattutto una dimensione ‘interiore’, dice Ruben. In realtà, come si diceva, è questo confine tra dentro e fuori a essere esplorato dalla scrittura: Shangai è una città immaginaria perché è il teatro virtuale dove si proiettano tutte le pulsioni di tutti gli esseri umani: ‘a Shangai non puoi immaginare nulla, perché c’è già tutto e se lo fai si crea un esubero d’immaginazione e ti fa male’. L’ibridazione tra struttura cerebrale e mondo esterno era già il grande tema di uno scrittore come Ballard. Qui però non abbiamo a che fare con un’estetica della catastrofe. C’è una forte intensità drammatica nelle pagine di Di Grado, certo. Ma piuttosto che contemplare la fine di tutto, la sperimentazione linguistica dell’autrice va alla ricerca di forze che si esprimono, di desideri che si agitano, identità che prendono forma su nessun fondamento, solo lanciando il proprio stesso divenire.

Il titolo stesso del romanzo – con quel cenno al blu che allude all’artificio, alla eleganza plasticosa delle estetiche anni Ottanta – dice di una forza feroce che però non è una vitalità che risale dalla notte dei tempi; fa invece tutt’uno con un immaginario che nasce qui, dinanzi a noi.

Fame blu ci interessa perché, contro tutte le narrazioni sulla resilienza, sulla capacità di assorbire passivamente i colpi della storia, è un’estasi al futuro, feroce e gioiosa; è un libro importante perché sa guardare e sa far vedere il mondo che viene.

 

Hai letto:  C’è vita dentro l’alienazione
Questo articolo è parte della serie:  Recensioni
Italia - 2022
Arti
Massimo Villani

ricercatore in filosofia, si occupa di politica, estetica e pensiero contemporaneo. Ha pubblicato una monografia su Jean-Luc Nancy.

Pubblicato:
07-06-2022
Ultima modifica:
06-06-2022
;