Se fosse una follia - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Dettaglio di un'opera di Francesco D'Isa
Dettaglio di un'opera di Francesco D'Isa | Copyright: Francesco D'Isa / Gizart.com

Se fosse una follia

Ne "L'assurda evidenza", in uscita per Tlon, l'autore e artista Francesco D'Isa raccoglie le conclusioni provvisorie della sua ricerca filosofica raccontando la sua auto-iniziazione alla sfida più cruciale del pensiero: fare i conti con l'assenza di senso.

Dettaglio di un'opera di Francesco D'Isa | Copyright: Francesco D'Isa / Gizart.com
Intervista a Francesco D'Isa
di Andrea Cafarella
Francesco D'Isa

(1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l'esordio con I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell'Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste. Il suo ultimo saggio è in Trilogia della catastrofe (effequ). Il suo sito personale è gizart.com.

Andrea Cafarella

collabora abitualmente con «Cattedrale», «Altri Animali», «L’Indiscreto», «Kobo», «Singola» e «Stanza 251» dove scrive critica letteraria e filosofia. Un suo testo è entrato a far parte della raccolta Piccola Antologia della peste (Ronzani, 2020), curata da Francesco Permunian, con illustrazioni di Roberto Abbiati. Ha curato l’introduzione a Controcielo di René Daumal (Edizioni Tlon, 2020). Il suo ultimo lavoro è il saggio Il simbolo tace. Il dio fanciullo e l’accordo supremo (DITO publishing, 2021).

In quello che sembra ormai un lontanissimo ottobre del 2020 mandai all’Indiscreto un breve ma fondamentale testo di René Daumal intitolato «Un ricordo determinante», che era stato pubblicato in un libricino per le edizioni Ursae Coeli (ripubblicato l’anno successivo, nella collana Ursa Minor con una mia postfazione) intitolato La guerra santa. Nella brevissima introduzione al frammento daumaliano facevo menzione di uno dei concetti fondamentali su cui si è formato il gruppo dei «Phrères simplistes» che diede vita alla rivista Le Grand Jeu, segnando la prima parte della vita di Daumal: «l’Evidenza assurda».

Francesco D’Isa, direttore dell’Indiscreto, mi aveva allora  chiesto numi su questa geniale espressione dal retrogusto patafisico. Eppure, non avrei mai potuto sospettare che sarebbe diventata il titolo del libro al quale Francesco stava lavorando. Sono rimasto quindi piacevolmente sorpreso quando, qualche settimana fa, ho ricevuto il libro che da oggi potete trovare in tutte le librerie: L’assurda evidenza. Un diario filosofico (Edizioni Tlon, 2022). 

L’assurda evidenza è un esile volume che va a impreziosire la collana «Planetari big» delle Edizioni Tlon, a mio avviso una delle più interessanti dell’editore, dove sono già apparsi il celebre Magia e tecnica di Federico Campagna, libro memorabile e illuminante, assieme ad alcuni classici ritrovati, come Le voci perdute degli déi di Julian Jaynes e Dee che raccoglie gli interventi di Joseph Campbell sulla Grande Dea e le divinità femminee. 

Francesco D’Isa, oltre a essere direttore dell’Indiscreto – ovvero una delle riviste online più interessanti del panorama italiano, senza ombra di dubbio – si era già distinto, negli anni scorsi, come autore e artista visivo. Ha scritto romanzi e racconti, una graphic novel, saggi di filosofia, e la sua attività di divulgazione non si ferma alla carta stampata o al mondo delle riviste ma tracima nell’universo dei social network e nella partecipazione a conferenze e simili occasioni di confronto, anche grazie alla collaborazione con Tlon. 

Questo diario filosofico si presenta un po’ come il culmine, la summa, o se vogliamo “il risultato” di un lungo labor limae intellettuale che nasce diversi anni or sono e che ha sempre accompagnato D’Isa, nella vita come nel lavoro, fino a portarlo a un punto di svolta, per quanto paradossale possa sembrare, che gli ha permesso infine di scrivere questo testo e di proporre anche una “non-soluzione” ad alcune delle domande esistenziali che sono i pilastri fondamentali della filosofia di tutti i tempi. Pertanto, mi è sembrato doveroso, in quest’occasione, interpellare personalmente l’autore per porgli qualche domanda e fare chiarezza su cosa possa significare L’assurda evidenza e il percorso di vita che rappresenta. 

Andrea Cafarella - Non è semplice definire il genere letterario – ammesso che a qualcuno interessi – di questo libro. È di sicuro un testo che nasce da alcune delle domande filosofiche più essenziali che i pensatori di ogni tempo e luogo si sono posti: «perché soffriamo?», «esiste qualcosa?» e tutte le conseguenti domande del caso. Eppure, il libro si presenta in forma di vero e proprio diario di un percorso. Peraltro D’Isa, in questo testo, si rivolge al lettore con una seconda persona singolare che cerca evidentemente un’intimità con chi legge. Non possono non venirci in mente gli stilemi classici del linguaggio che richiedono i social network, dei quali d’altronde D’Isa è maestro. Mi sembra che abbia qui cercato di usufruirne come di un’officina, per sviluppare la lingua, e quindi la forma stessa di questo libro (cosa che sarebbe anche perfettamente aderente all’attività di Tlon, che ne ha curato la pubblicazione). Allora, a prescindere da questa supposizione, volevo chiederti com’è nata l’idea di costruire questo saggio con una forma ormai così desueta – e che allo stesso tempo, però, conserva le caratteristiche formali del saggio di divulgazione e tenta in ogni modo di rispettare l’aristotelico ‘principio di non contraddizione’?

Francesco D’Isa - Questo libro ha una storia travagliata, anche stilisticamente. È nato dagli appunti che avevo preso per il romanzo La stanza di Therese (Tunué) e da lì si è ingigantito nella forma di un saggio accademico. Il risultato non mi convinceva, mi sembrava scritto in una lingua non mia, come se cercassi di imitare il professore universitario. Non è il mio linguaggio. Credo che la filosofia abbia perso da tempo la sua ricchezza stilistica, limitando il suo campo al saggio accademico. È stata abbandonata la forma dell’aforisma, del diario, del dialogo, la confessione, la poesia, nonostante siano stili che hanno fatto la storia della filosofia, con autori e autrici come Weil, Platone, Cioran, Nietzsche, Zhuangzi, Laozi, Kierkegaard, Zambrano, S. Agostino, Parmenide… tutte persone attraverso le cui opere mi sono formato. Questo limite stilistico ha avuto un riflesso anche nelle tematiche e la filosofia ha perso il ruolo di esercizio spirituale, come lo definiva Pierre Hadot. Si tratta di un’istanza che non era aliena alla filosofia occidentale, tutt’altro; mi viene in mente un’opera di metafisica celebre per il suo rigore geometrico, l’Etica di Baruch Spinoza – perché non l’ha intitolata metafisica? Il motivo, credo, è che ogni metafisica, per astratta che sia, pone implicitamente le basi di un’etica, delle indicazioni su quello che ci si augura sia il miglior modo di vivere. Da questo punto di vista sono vicino al buddismo (come anche a Camus), per il quale il primo e più impellente problema filosofico è quello del dolore, rispondere alla domanda su come (e se) vivere la nostra vita.

La mia scelta stilistica ha due funzioni, veicolare ciò che ho da dire nel modo più chiaro e sintetico possibile e stabilire un legame con chi legge. Quando scrivo tengo ben presente che chiedo a delle persone di ascoltarmi e se lo faccio è perché mi arrogo la speranza di dir loro qualcosa di utile o interessante.

AC - Andiamo subito al nocciolo della questione che pone il tuo libro, ma torneremo sulla forma, poiché questo è anche uno di quei testi in cui la forma esprime il contenuto. 
Sfogliando rapidamente l’indice si nota subito una struttura tripartita, «Esiste qualcosa», «Esiste qualcosa solo se esiste qualcos’altro» e «Ogni relazione è una differenza» sono i tre capitoli che suddividono il libro. Partendo dalla domanda «perché soffriamo?» si arriverà alla “risposta” che «il paradosso è una caratteristica intrinseca della realtà», attraverso un raffinato ed eclettico resoconto filosofico delle teorie che hanno provato a fronteggiare le questioni fondamentali dell’esistenza. Il tutto raccontato come un giallo filosofico, o, se vogliamo, un “viaggio dell’eroe”, che al termine della storia torna al punto di partenza – a casa – per ritrovare se stesso. Proviamo a raccontare in poche parole questo percorso concettuale in tre movimenti?

FD -  Ho cercato di mantenere il percorso il più schematico possibile, nonostante la forma diaristica. Nell’introduzione sono riuscito a sintetizzarlo, ma se ci si ferma al sunto sembra un gioco di parole. Come partenza cercavo una base solida, più robusta del cogito cartesiano, e l’ho trovata in un genericissimo «qualcosa esiste» – un’asserzione innegabile anche se il qualcosa preso in analisi fosse un’illusione, dato che anche le illusioni sono qualcosa. Questo primo passo sembra non portare da nessuna parte, ma apre a un’analisi ulteriore, che al suo vertice si autodistrugge (o meglio, si svela) in una contraddizione. Se esiste qualcosa, infatti, è un preciso qualcosa, un’identità, quale che sia. E cos’è un’identità? In qualunque modo cerchi di definirla, devo rifarmi ad altre identità come sponda, negazione o parallelo. Qualunque cosa esista, insomma, è tale solo in relazione a qualcos’altro, che ne stabilisce i limiti e le caratteristiche – in caso contrario sarebbe priva di identità e non sarebbe più “qualcosa”. Questo secondo passaggio apre alla via negationis che uso in tutto il mio viaggio: ogni relazione implica necessariamente una differenza, perché quale che sia la relazione tra due elementi, tra loro vi dev’essere una divergenza oppure coinciderebbero. Qui ci si apre al paradosso: la condizione necessaria e sufficiente per essere qualcosa è non essere qualunque altra cosa; necessaria, perché altrimenti una cosa coinciderebbe con un’altra; sufficiente, perché esaurisce tutte le relazioni possibili (se una cosa non è tutte le altre, non può che essere se stessa). Se qualcosa non esiste, però, non può essere diversa da tutto il resto, o esisterebbe per via di quanto detto sopra. Di conseguenza è uguale a qualcosa: dunque esiste. È quindi impossibile che qualcosa non esista.

Come ti dicevo, suona come un gioco di parole. Eppure nel libro lo prendo sul serio, anche perché la convinzione che il mondo sia paradossale precede la mia analisi.

 

AC - Una caratteristica molto intrigante e a mio avviso necessaria, in generale ma in special modo viste le premesse della tua trattazione, è lo sguardo trasversale tra pensatori di ogni epoca e filosofie geograficamente e culturalmente molto distanti. Una sorta di filosofia comparata warbughiana, o calassiana, se vogliamo, che si lascia guidare dall’istinto e dalla passione. In che modo hai scelto le fonti e i riferimenti per questo libro e come ti sei mosso tra questi mondi filosofici e culturali così differenti?

FD - La specializzazione è un’attitudine contemporanea in cui non mi trovo a mio agio; avviene un po’ in tutte le discipline e in molti casi è necessaria, data la complessità dei prodotti intellettuali umani. La filosofia non è esente da questa tendenza, nonostante la sua vocazione (impossibile) a essere una sintesi dei saperi. Molti/e filosofi/e si specializzano solo in determinati rami, come la filosofia della mente, la bioetica, l’estetica… o persino in problemi molto specifici, come la mereologia. Non è una tendenza sbagliata, ma credo debba essere accompagnata da ricognizioni più inclusive, che abbraccino filosofia, scienza, religione, letteratura e arte, se possibile oltrepassando gli angusti limiti culturali dell’Occidente. Questo tipo di scrittura non raggiunge la potenza analitica di uno studio specialistico, ma ha il pregio di fare da sintesi e connessione tra i saperi, di cercare consonanze, facilitare nuove intuizioni, scoprire limiti e soluzioni che uno sguardo troppo settoriale non percepirebbe.

Alla filosofia Orientale mi ci sono avvicinato da autodidatta, perché si studia pochissimo nelle università, nonostante la grande influenza che ha esercitato sin dall’antichità su quella Occidentale. C’è persino chi la snobba perché non la considera una filosofia ma una religione, glissando sul fatto che gran parte della filosofia Occidentale è intrisa da tematiche e figure religiose – abbiamo persino dei filosofi santi. Credo che si tratti del cascame di un inutile e castrante eurocentrismo, che nonostante i colpi della storia stenta ancora a cedere.

 

AC - Il percorso che descrivi nel libro ci porta quindi all’evidenza dell’assurdità intrinseca della vita stessa – in soldoni, mi si perdoni la semplicità. E arrivi a dire che questa consapevolezza, che pensavi «fosse una follia», che è diventata poi anche «motivo di sofferenza», infine si è trasformata solo in una «causa di gioia»; abbracciando un modo di pensare che ricorda quello buddhista, anche se ci arrivi tramite un ragionamento tuo, altamente razionale e logico, anche

Io vorrei chiederti: in che senso? Cosa può insegnarci la consapevolezza di questa assurda evidenza? Quale sarebbe quella che alla fine del libro chiami la cura?

FD - Qua mi fingo maestro zen 2.0 e invece di una scortese bastonata o una ciotola in testa ti offro un meme:

Il fatto che la mancanza di un senso della vita sia una brutta notizia credo che sia il più grande errore del pensiero Occidentale. Un errore logico prima ancora che etico: laddove non esiste un senso non c’è né bene né male, dunque perché dovrebbe essere un male? Il giudizio semmai si annulla. Il passaggio successivo invece è più complesso, perché secondo questa riflessione l’assurdo non è un male, è vero, ma nemmeno un bene. Qui il salto non è di carattere logico e avviene nella forma della rivelazione. È forse quel che intende Simone Weil quando scrive nei suoi quaderni che

«Dobbiamo essere indifferenti al bene e al male, ma essendo indifferenti, cioè proiettando in modo uguale sull’uno e sull’altro la luce dell’attenzione, il bene vince per un fenomeno automatico. È questa la grazia essenziale. Ma è anche la definizione, il criterio del bene».

Perché il bene vince “per un fenomeno automatico”? Non lo so, semplicemente accade; al di là di qualunque definizione giace pura e contraddittoria bellezza. Ma il vuoto non viene sempre vissuto così, anzi, nella furia di una crisi psicotica è esattamente l’opposto. Accade perché il vuoto può essere letto in ogni modo? O perché nel mondo c’è più male che bene, e la perdita di entrambi è comunque un profitto? Sempre Weil scrive (suo lo stampatello):

La gente è felice e fiera di poter dire: ho ottenuto la tal cosa. Mentre: non ho fatto la coda, non è cosa che si possa dire, è NEGATIVO. NON SI PERSEGUE CIÒ CHE È NEGATIVO.
L'ASSENZA DI PENA (salvo che per i veri epicurei) NON
È OGGETTO DI DESIDERIO.

Ecco, il mio è un invito a perseguire il negativo, fino a ribaltarlo.

 

AC - Leggendo il libro mi è sembrato di seguire anche una sorta di percorso iniziatico interiore. D’altronde tu stesso descrivi la tua iniziazione – se possiamo chiamarla così – alla pratica della meditazione. E mi sembra forse il senso ultimo di questo testo: il lavoro su di sé. Esiste però un obiettivo da raggiungere, l’illuminazione o qualche altra meta da attraversare per arrivare a una consapevolezza ulteriore, che stia aldilà del paradosso dell’esistenza?

FD - Chiunque scriva – anzi, chiunque faccia qualcosa – si pone prima o poi la domanda: perché lo faccio?
Per soddisfare qualche atavico desiderio, per ottenere un vantaggio, per curiosità, per una ricerca di conoscenza? È davvero conoscenza quella che ottengo? E che importa, anche fosse?
Credo che il miglior obiettivo sia perdere ogni obiettivo (questo incluso), ma c’è comunque qualcosa che avvia questa ricerca: il dolore. Ogni grande religione lo pone al centro delle proprie speculazioni, ma nessuna lo ha fatto con la chiarezza del buddismo. Il problema è il dolore. 

 

AC - Chiudiamo con qualche domanda più leggera e tecnica per mettere in luce alcune altre caratteristiche altrettanto interessanti de L’assurda evidenza e della sua strana forma: chiude il libro una copiosa bibliografia che eccede le fonti esplicitate all’interno del testo. Questi sono i libri che hanno alimentato il ragionamento che porti avanti nel testo oppure si tratta di un percorso di lettura ulteriore per il lettore? O entrambe le cose?

FD - Questo libro era molto più lungo della sua forma attuale e tutti i testi in bibliografia sono o erano citati all’interno. Ho mantenuto anche quelli di cui ho eliminato le citazioni, perché testimoniano in modo più completo il percorso intellettuale dell’Assurda evidenza, e come dici possono offrire spunti di lettura e approfondimento ulteriori per chi legge.

 

AC - Le illustrazioni che separano i capitoli provengono da una serie che s’intitola «Meditazioni». Come ci hai abituati a sapere, tramite altri tuoi lavori, come la serie «Innominabili» (nella quale le immagini sono lavorate tramite intelligenze artificiali) o quella degli «Arcani filosofici» (da poco pubblicati in cartaceo per D Editore), i tuoi disegni provengono di rado da un processo di concezione dell’opera in senso classico, ma si legano spesso ad altre esperienze “esterne” o sono eseguiti per mezzo di tecniche o strumenti non usuali. Puoi raccontarci da dove nasce «Meditazioni» e come si lega al testo de L’assurda evidenza?

FD - Questa serie di lavori ha una genesi particolare; si tratta di una mescolanza tra assemblaggi di opere già esistenti (libere dal copyright) e di integrazioni originali, sviluppate tutte dopo delle sessioni di meditazione. Da questo punto di vista si tratta di una proiezione visiva del processo di costruzione e decostruzione di senso che avviene durante la meditazione. La tecnica è digitale, ma non ho usato intelligenze artificiali. A dire il vero ho spesso pensato che è così che pensano le intelligenze artificiali, ma non saprei dire perché. Nel libro ci sono quattro illustrazioni, ma ne ho fatte circa un centinaio, alcune delle quali si possono vedere dal mio sito.

Hai letto:  Se fosse una follia
Italia - 2022
Pensiero
Francesco D'Isa

(1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l'esordio con I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell'Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste. Il suo ultimo saggio è in Trilogia della catastrofe (effequ). Il suo sito personale è gizart.com.

Andrea Cafarella

collabora abitualmente con «Cattedrale», «Altri Animali», «L’Indiscreto», «Kobo», «Singola» e «Stanza 251» dove scrive critica letteraria e filosofia. Un suo testo è entrato a far parte della raccolta Piccola Antologia della peste (Ronzani, 2020), curata da Francesco Permunian, con illustrazioni di Roberto Abbiati. Ha curato l’introduzione a Controcielo di René Daumal (Edizioni Tlon, 2020). Il suo ultimo lavoro è il saggio Il simbolo tace. Il dio fanciullo e l’accordo supremo (DITO publishing, 2021).

Pubblicato:
16-02-2022
Ultima modifica:
16-02-2022
;