Attenzione ai racconti - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Attenzione ai racconti

Dovrebbe essere un gran momento per il racconto; soprattutto per il racconto breve.

Dario De Marco

(1975) è stato redattore del mensile Giudizio Universale e editor di Esquire. Scrive di letteratura e cibo per CheFare, Dissapore, Esquire, L’Indiscreto, L'Integrale, La Ricerca. Ha pubblicato il romanzo Non siamo mai abbastanza (66thand2nd) e la non fiction Mia figlia spiegata a mia figlia (LiberAria). Nel 2021 è uscito il libro di racconti Storie che si biforcano (Wojtek).

Un giorno un uomo avvicinò Ikkyu e chiese: «Maestro, scrivereste per me qualche massima della più alta saggezza?». Ikkyu prese il suo pennello e scrisse: «Attenzione.»
«Tutto qui?» chiese l’uomo.
Ikkyu scrisse: «Attenzione. Attenzione.»
«Bene» disse l'uomo «Non vedo una grande profondità in quello che avete scritto.»
Allora Ikkyu scrisse: «Attenzione. Attenzione. Attenzione.»

(koan zen)


Viviamo nell’economia dell’attenzione: se qualcosa sta vicino alla parola economia, si sa, è perché è un bene scarso. Quella per accaparrarsi l’attenzione, più che una gara, è una guerra: e noi non siamo i contendenti, ma il campo di battaglia. Un campo di battaglia ormai devastato: l’effetto di questa rincorsa a moltiplicare gli stimoli è infatti, paradossalmente ma non troppo, quello di rendere la nostra attenzione sempre più frammentata, volatile, effimera. È del 2015 un famoso studio che dice come la soglia di concentrazione umana sia diventata inferiore a quella, notoriamente labile, di un pesce rosso: 9 secondi loro, 8 secondi noi. E 8 secondi si chiama un libro di Lisa Iotti (Il Saggiatore), che in parte fa debunking di questa visione un po’ semplicistica, ma soprattutto conduce in un viaggio a tratti agghiacciante attraverso tutti gli aspetti del mondo digitale, cioè del mondo.



Il trend sempre più discendente del cosiddetto attention span è confermato da studi più recenti. Non riusciamo a restare concentrati su una cosa per più di pochi minuti, tra notifiche social, mail, messaggi e stimoli vari. In questa corsa alla distrazione, in questo susseguirsi di attimi scollegati, i contenuti dovrebbero essere veicolati nei format più rapidi e compatti. E spesso è così: le stories di Instagram, i meme, i video di Tik Tok… L’era della disattenzione è l’età dell’oro della brevità. Ma se spostiamo il discorso ad altre forme di arte e comunicazione, le cose cambiano. Io sono un lettore, un appassionato di libri e di storie. Sono, nello specifico, un devoto delle forme brevi: diciamola, la parola tabù: di racconti. Ma una cosa è il mio gusto, un’altra cosa lo spirito del tempo. Che riposa, da sempre, in tutt’altro luogo: in seno al romanzo, di cui il racconto è fratello minore; quello bizzarro e simpatico, ma tutto sommato trascurabile.

Eppure il racconto è stato ed è palestra di giovani talenti, e campo in cui si sono misurati i geni della letteratura. Paolo Albani, scrittore (I sogni di un digiunatore e altre instabili visioni, Exòrma) e agitatore culturale (è membro dell’OpLePo), è stato uno dei primi con cui ho affrontato l’argomento. Lui la riassume così: “Mi viene spontaneo chiedere: Jorge Luis Borges ha mai scritto romanzi? E Anton Čechov? E ancora Raymond Carver, per il quale «un buon racconto vale quanto una dozzina di cattivi romanzi», ne ha mai scritti, lui, di romanzi? Nella sua lezione americana sulla rapidità (quasi un sinonimo di brevità), Italo Calvino confessa di sognare immense cosmologie, saghe e epopee racchiuse nelle dimensioni di un epigramma, e di voler mettere insieme una collezione di racconti d’una sola frase, o d’una solo riga, come l’insuperabile racconto dello scrittore guatemalteco Augusto Monterroso che recita: «Cuando despertó, el dinosauro todavía estaba allí».”.

L’argomento, detto in modo secco, è questo: dovrebbe essere un gran momento per il racconto; soprattutto per il racconto breve. Dovrebbe essere l’epoca del suo riscatto. E invece, ancora una volta, no. Daniela Di Sora, editrice (Voland): “In realtà questa disaffezione al racconto data da ben prima di internet, gli editori si tramandano da sempre la notizia che «i racconti non si vendono». E mi dispiace confermarlo: anche i promotori, quando protesti per un numero basso di prenotazioni, rispondono: «Eh, ma è un libro di racconti!». Quindi destinato a scarse vendite. Peraltro ormai anche su Facebook i post lunghi non vengono letti, e spesso non vengono letti neanche i commenti ai post. Siamo un popolo di scrittori e non di lettori, questa è la triste verità. Io penso che il racconto sia un genere difficile, intendo difficile da scrivere bene, in modo che non sia monco, che abbia un senso compiuto e perfetto. La cosa che mi stupisce è che invece sono sempre più diffusi i romanzoni di 500 pagine o più. Non ho risposte sensate, da parte mia ho pubblicato solo quest’anno due splendide raccolte di racconti: Stanno smontando il mare e altri racconti di Piergiorgio Paterlini e Miti personali di Matteo Marchesini. Forse è questa la mia risposta”. (Una risposta che lungi dall’essere promozionale, è l’unica sensata da parte di un editore. Tanto che ai suddetti nomi aggiungerei, scavalcando il suo pudore, i bellissimi libri di Georgi Gospodinov).


Alessandra Minervini
, scrittrice (Overlove, LiberAria), editor e docente di scrittura creativa: “Non mi piace troppo parlare in termini di successo. Preferisco accoglienza. Il racconto scritto e pubblicato in lingua italiana non gode di adeguata accoglienza. Per una serie di motivi, la cui origine si è persa nei gironi dei rifiuti editoriali. La forma breve è considerata un accessorio. Un panino indecoroso rispetto a una tavola imbandita, per quanto in quella tavola spesso possa non esserci alcuna pietanza gustosa. Credo si tratti di un pregiudizio e come tale resterà immutato. Ha che fare con la percezione umana, la più difficile da modificare. Editori e lettori italiani non danno ascolto, ufficialmente e senza troppe motivazioni alte, alla pubblicazioni di racconti. Se non per "rapporti occasionali": riviste, contest, concorsi e improvvisati atti di operosità che durano meno di una stagione. Molto diverso però è il discorso se si tratta di raccolte di autori e autrici in traduzione. In quel caso l'interesse del mondo editoriale e conseguentemente dei lettori cresce, anzi è sempre più in aumento. Per i racconti di importazione si può usare anche il termine "successo". Forse quindi noi in Italia non li sappiamo scrivere? Sarebbe bello un giorno scoprirlo, in libreria”.

Editori e lettori, critici e scrittori: tutti sono chiamati in causa. Allora, per cercare di farmi un’idea su questo apparente paradosso, per cercare di cambiare idea rispetto a quella preconcetta che mi stavo formando già, ho intrapreso un piccolo viaggio in questo mondo, tra queste figure, interpellando varie persone di mia conoscenza. Perché – ho chiesto loro in sintesi – nell’epoca della brevità il racconto non ha successo? E ho raccolto varie opinioni.


Le lettrici

Prima di tutto, la categoria che viene spesso trascurata nelle raffinate analisi del mercato editoriale e delle tendenze letterarie: i destinatari finali dei libri, i lettori. E anzi, sarebbe più corretto dire le lettrici, non per la questione - pure ormai ineludibile - del maschile sovraesteso, ma proprio perché le donne leggono più degli uomini. Parlo quindi di lettrici, e pazienza se qualche maschio si sentirà appellato al femminile, valga come risarcimento per i millenni in cui c’è fatto al contrario.

Ho cercato di capire se alla base del fatto che i racconti non vendono, c’è effettivamente il fatto che i racconti non piacciono. Mi sono mosso all’interno di  gruppi Facebook dedicati alla lettura e community online: una breve e artigianale raccolta di opinioni, anche qui, non certo un sondaggio condotto con rigorosi metodi statistici.

Ho registrato innanzitutto un coro di proteste quasi unanime contro il termine “genere minore” da me improvvidamente usato per definire il racconto. E però poi, ho rilevato che il racconto raccoglie il consenso di una minoranza anche tra le lettrici forti, quali sono quelle che partecipano attivamente a una community letteraria: minoranza nutrita, circa un terzo, ma comunque minoranza. Ho chiesto allora: cos’è che non vi piace, non vi convince, non vi coinvolge del racconto? Qualcuna effettivamente collega la possibilità di un cambiamento, di una rinascita, alla situazione storica e psicologica: “Dipende molto dal momento e dal tipo di racconto. Per anni non ne ho voluto sapere di leggerli, il 2020 mi ha ribaltato la prospettiva”. Ma la maggior parte ragiona così: “Quando leggo, mi piace immergermi in un mondo, viverlo, seguirne le vicende. Pertanto preferisco vivere avventure lunghe”, “conoscere a fondo i personaggi e il racconto difficilmente me lo consente… non riescono a smuovere fino in fondo la mia empatia e lasciano un po' il tempo che trovano”. “Ciò che cerco in un romanzo è, soprattutto, la solidità della costruzione dei personaggi, l'approfondimento psicologico e la coerenza del loro percorso di evoluzione. I racconti invece danno discontinuità al libro e faccio più fatica ad arrivare in fondo”. “Amo i racconti, però mi è successo a volte di rimanere delusa e sorpresa alla fine di un racconto che avrei voluto continuasse ancora e accorgermi che è finito”. Poi ci sono opinioni che hanno a che fare con la modalità di lettura, o di scrittura, e possono valere anche come suggerimenti per scrittori e editori: “Preferisco quando c'è un filo che lega i vari racconti”, “I libri di racconti non li compro mai, magari poi se trovo un racconto su una rivista lo leggo volentieri”.

Passando alle opinioni degli operatori culturali, le riporto qui di seguito con pochi commenti, per non allungare ulteriormente un pezzo sulle forme brevi tutt’altro che breve. Unica cosa, le ho organizzate per tipologie di risposte, per aree vagamente tematiche: abbiamo così le multiple, le dubbiose, le paradossali, le complesse. (Tra parentesi, aggiungo: tra parentesi ho messo, nella maggior parte dei casi, non l’opera più famosa o l’ultima uscita, ma il gancio che mi ha condotto a coinvolgere le persone in questione in un discorso sul racconto).


Multiple

Sono le risposte che offrono più di una soluzione. Gabriele Romagnoli, scrittore (Navi in bottiglia, Garzanti) e giornalista, anticipa molti punti che andremo a sviscerare: “Me lo sono proprio chiesto essendo stato invitato a un Festival del racconto. Ho fatto 3 ipotesi che non si escludono tra loro:

- il pubblico fast non è lo stesso dei libri, che è più da tv generalista o serie 
- in realtà penso che, per quanto possa sembrare strano, il racconto richieda più attenzione: ti fa entrare in medias res, è implicito, non spiega, spesso non chiude. Il romanzo consente distrazioni, spesso chi legge salta parti o corre al finale, alla "soluzione del giallo”
- l'hanno deciso gli editori circa trent'anni fa”.

Matteo Di Gesù, storico e critico della letteratura (Una nazione di carta, Carocci), docente universitario (Palermo): “Devo principiare la mia risposta dissentendo dall’assunto della domanda, rispetto a una questione. Giovanni Boccaccio, nel proemio del Decameron, offriva la sua opera alle “graziosissime donne” non solo per una consonanza con le loro afflizioni sentimentali - che la lettura della sua opera avrebbe consolato - ma anche perché, a differenza degli uomini, indaffarati a commerciare, a fare profitti, avevano più tempo da dedicare alla lettura. Nulla di nuovo, dunque, rispetto all’assunto della tua domanda. Non credo che la scarsa attenzione dei lettori italiani verso il racconto sia sorprendente, rispetto alla indubbia congenialità che la brevità della forma breve dovrebbe avere con i modi e i tempi del consumo culturale nell’epoca digitale. Credo che la questione sia più banale: i lettori e le lettrici italiane propendono per il romanzo, possibilmente per il “grande romanzo” perché assecondano una tendenza. Quasi tutti gli autori italiani tra i quaranta e i cinquant’anni ritengono di dovere scrivere appunto il “grande romanzo” sul modello americano. Quasi sempre falliscono, nondimeno i lettori li seguono. Tutto ciò a dispetto non solo di una tradizione, ma direi di una sorta di attitudine antica della prosa italiana, che privilegiava appunto la novella, il racconto, la prosa d’arte. Peccato”.


Dubbiose

Sono quelle opinioni che hanno messo in dubbio, in un modo o nell’altro, uno degli assunti della domanda: che i racconti abbiano scarso successo. È una contestazione che mi piace, perché apre un barlume di speranza. Piergiorgio Paterlini, giornalista e scrittore (Fisica quantistica della vita quotidiana. 101 microromanzi): “Posso solo supporre che gli autori e i lettori di Instagram e di Tik Tok (Facebook e Twitter sono casi diversi, in Italia almeno) non siano, in grandissima parte, lettori di libri. E viceversa. Per cui caratteristiche narrative, lunghezza e brevità dei testi non trasbordano da un pubblico all’altro. Faccio una piccola provocazione ma non insensata, anzi la formulerò come domanda, ipotesi, dubbio. E se fosse che i veri lettori forti - sempre con le dovute eccezioni, senza generalizzare troppo - la leggono eccome la "scrittura breve", e chi acquista Grandi Tomi è chi più che leggerli usa i libri come tappezzeria, arredamento di interni? Ci dimentichiamo sempre, e sbagliamo - di fronte ai libri di tendenza che raramente sono racconti e comunque raramente testi brevi - che c'è differenza tra acquistare e leggere”.



Vanni Santoni, scrittore (Personaggi precari, Voland), giornalista culturale, editor: “Credo che le cause dell’insuccesso commerciale dei racconti – un insuccesso fattuale: quando anni fa interpellai sull’argomento alcuni dei direttori editoriali delle major, uno di loro mi mostrò un po’ di numeri, e non c’era dubbio che i racconti vendevano poco, pochissimo, anche rispetto a romanzi dello stesso autore – siano molteplici e si alimentino a vicenda. Un libro di racconti è più difficile da comunicare nel sistema contemporaneo di lancio dei libri, perché non si può dire rapidamente “di cosa parla”, a meno di fare quegli orribili elenchini di personaggi e situazioni strambe che si vedono a volte nelle quarte delle raccolte. Inoltre il libro di racconti chiede un impegno maggiore al lettore, non avendo dalla sua l’immersività del romanzo, e tende a essere letto in più tempo, in modo più frammentario e a generare poco passaparola (inoltre, un romanzo avvincente si può anche leggere a bottarelle di due pagine, mentre un racconto di dieci pagine bello intenso va letto tutto assieme, quindi in realtà al lettore occasionale… prende più tempo). A questo si aggiunge il fatto che da noi i racconti escono in prima battuta su riviste lette per lo più da addetti ai lavori o comunque da un pubblico avvedutissimo, e sono del tutto banditi dai magazine generalisti – non esiste un New Yorker o un Atlantic italiano. Questo crea un clima “anti-commerciale”; che a sua volta porta le reti vendita a essere poco convinte, i librai a fare poche prenotazioni, gli editori a non investire denaro nella promozione delle raccolte (e non portarle ai premi), il che dà vita alla classica “profezia che si autoavvera”: siccome si teme che i racconti vendano poco, non li si mette in condizione di vendere molto. Detto ciò, siamo sicuri che le raccolte racconti debbano vendere, e che dei racconti si misurino solo in base alla loro uscita in volume e poi pure al venduto? In realtà in questo momento in Italia c’è un ecosistema di riviste vitalissimo, che pubblica moltissimi racconti ogni settimana, e c’è pure un editore dedito ai soli racconti: mi paiono marcatori di successo e buona salute della forma breve, anche se resta strutturalmente poco adatta a fare il botto in libreria”.

Andrea Cafarella, giornalista culturale ed ex libraio: “Secondo me non ha successo commerciale perché si è generato un pregiudizio (a tutti i livelli della filiera: dall'autore al lettore, passando per tutti gli addetti ai lavori). Oltre al dato commerciale mi sembra che la narrazione breve, invece, a un livello puramente letterario stia conoscendo nuova fortuna. Soprattutto per quanto riguarda forme letterarie ibride che deformano la narrazione fantastica più ortodossa. In generale, comunque, la struttura dei romanzi è sempre più frammentaria e sono tantissimi i libri in cui dei brani brevi e conchiusi la fanno da padrone (sempre considerando la mia idea di brevità – che non va a peso). Il problema è che letteratura e mercato editoriale vanno in direzioni diametralmente opposte. Il mercato cerca il prodotto standardizzato e riconoscibile, facile da proporre e da vendere. Mentre la forma breve è per sua natura pluriforme e metamorfica. Scrivere racconti brevi significa ragionare sempre sulla forma (del racconto singolo e dell’insieme dei racconti), al contrario il romanzo può permettersi la libertà e la protezione dell’accogliente etichetta commerciale “romanzo”, quando spesso si tratta di opere costruite attorno a narrazioni brevi. La brevità è immediatezza e mistero, difformità, mancanza, errore, altrimenti è solo l’ennesimo prodotto preconfezionato (romanzo borghese, horror, thrillerone, ecc) semplicemente ridotto in pillole, cosa che non sarebbe conveniente per chi fa libri. La letteratura però è un’altra cosa: lì il racconto domina”.

Liborio Conca, giornalista culturale (Minima&moralia) e scrittore (RockLit, Jimenez), allarga: “Io penso che dovremo anche intenderci su cosa intendiamo per "successo", come ragionamento preliminare. Da quando seguo le - chiamiamole così - vicende letterarie italiane, ho notato in realtà un'attenzione piuttosto buona al genere del racconto; soprattutto dagli editori piccoli e medi, ma a volte anche nella narrativa mainstream. Ma il fatto è che parliamo di una nicchia, perché si tratta di un genere che è paradossalmente il più complicato da gestire. Oltretutto, ragioniamo di una nicchia (cioè quella degli amanti dei racconti) all'interno di un regno non esattamente gigantesco quale è quello dei lettori italiani. Insomma, io penso che tutto ruoti intorno a una questione fondamentale di cui purtroppo non importa quasi a nessuno: bisogna allargare la platea dei lettori, avvicinarli alla letteratura, far capire ai ragazzi e alle ragazze che non è quella cosa pallosa che gli insegnano spesso a scuola, ma che è una cosa che può salvarti. Esattamente come accade con la musica o con altre forme d'arte. E penso che proprio i racconti, anche brevissimi, potrebbero (dovrebbero) essere il grimaldello giusto per scardinare queste resistenze. Magari trovando nuove forme espressive, sperimentando anche, ma con coscienza e amore”.

Fabrizio Venerandi, editore digitale (Quintadicopertina), scrittore (L’amore è un cavolfiore, Coniglio), sperimentatore di forme e mezzi (romanzi interattivi, poesie elettroniche), ribalta: “Io non credo che non abbia successo anzi: il racconto breve ha successo proprio nelle stories di Instagram, nei meme, nei video, nei thread di Facebook. Ha cambiato pelle e si è deframmentato in atomi sui quali lo scrittore non ha più un controllo completo. In alcuni casi non esiste nemmeno più uno scrittore, la narrazione è collettiva e vive di commenti, condivisioni e alterazioni. In altri casi  lo scrittore esiste, ma il racconto è distribuito in decine di post, foto, link. Pensare - invece - di portare il racconto nato per la carta, nel web, copincollandolo dentro, non funziona. Diversi gli spazi, i tempi di attenzione, la possibilità di lasciarlo e riprenderlo nel tempo”.

Gianni Montieri, scrittore (Le cose imperfette, LiberAria), redattore di riviste di racconti (The FLR), critico culturale: “Ogni tanto la questione del successo del racconto ritorna. Io credo che l'interesse in Italia sia molto vivo, c'è da parecchi anni un buon fermento di riviste ed escono buone raccolte di racconti, alcune bellissime, spesso in traduzione. Forse il lettore preferisce il romanzo per pigrizia. Sì, non deve sforzarsi di immaginare, nel romanzo (bello) ha tutto. In un buon racconto come per la poesia, ti devi sforzare di immaginarti un mondo, che è meraviglioso, ma non per tutti. Lettori anche molto forti (come si dice) chiudono i racconti con l'amaro in bocca perché volevano di più, più pagine, più dettagli, la noia, infine. Il racconto è la cosa che più si avvicina al meccanismo della poesia, perciò è adorabile, perciò non vende”.

Mauro Maraschi, traduttore, editor, redattore di riviste di racconti (Cadillac), scrittore, in controtendenza esprime dubbi sulla forma racconto: “Se effettivamente questa è l'epoca della disattenzione, non mi stupisce che per determinati media le forme brevi abbiano più successo di quelle lunghe e che al contrario, per quanto riguarda la lettura, le sorti della forma racconto non abbiano tratto vantaggio dalla frammentazione e dal calo di qualità del tempo a disposizione. Intanto, se limitiamo il discorso a "stories, meme e Tik Tok", ci rendiamo subito conto che si tratta di contenuti effimeri e che richiedono una fruizione passiva. Un intrattenimento efficace in pillole è però possibile anche nel caso di contenuti più nobili come le micro-narrazioni audiovisive di Love, Death & Robots; e, più in generale, il boom delle serie tv, avvenuto ormai quindici anni fa, ha dimostrato che la frammentazione della fruizione può avere i suoi vantaggi. Ma questo vale soltanto per l'audiovisivo e per una fruizione più passiva di quella propria della lettura. Puoi riflettere quanto vuoi su un film o su una serie tv, puoi sforzarti di capire più a fondo di altri, ma a conti fatti guardare una narrazione (il cui tempo del racconto non dipende da noi, in linea di massima) è sempre più immediato che leggere, attività che richiede concentrazione costante, un contesto tranquillo e, nel più dei casi, un oggetto fisico che non portiamo sempre con noi. Per cui, considerata l'ovvietà per la quale un racconto non è un romanzo incredibilmente breve e che ha regole diegetiche tutte sue, il solo fatto che richieda un minor tempo di lettura non implica che sia più preferibile al romanzo quando il tempo a disposizione è meno del solito. Se il racconto non è appagante non importa che mi abbia richiesto otto minuti, se poi considero sprecati quegli otto minuti. Per quanto mi riguarda, poi, tendo a preferire la lettura di intere raccolte a quella di un singolo racconto (a meno che non sia un racconto eccezionale): per una dinamica assimilabile a quella del binge-watching, un racconto davvero buono è quello che mi spinge a leggere subito il successivo (di un'ipotetica raccolta). Anche perché, di norma, ho bisogno di un tempo di carburazione per entrare in sintonia con l'autore, e nel caso della lettura di un singolo racconto quel tempo non c'è, per cui se il racconto è soltanto convenzionalmente buono dopo un'ora ho dimenticato chi l'ha scritto, di cosa parlava e come mi chiamo”.


Paradossali

Sono quelle che smascherano l’equivoco, la trappola che poi era la mia illusione di riscatto. Lo dice in maniera precisa, quasi crudele, Rossella Milone, scrittrice (Il silenzio del lottatore, minimum fax) e ideatrice della rivista online Cattedrale. Osservatorio sul racconto: “Che il racconto si presti a una lettura fugace e veloce è un equivoco madornale e costante. È esattamente il contrario: il racconto, per come si compone e si forma la sua sostanza, vive di aspetti narratologici, suggestivi, stilistici e formali complessi, che richiedono immersione, profonda partecipazione e anche qualche competenza. Insomma, il racconto pretende che il lettore faccia uno sforzo e si tuffi in verticale, cosa molto contraria all'orizzontalità della fugacità”. 

Luca Ricci, scrittore (L'amore e altre forme d'odio, Einaudi) fino a tre anni fa esclusivamente di racconti: "Il racconto è breve ma non rapido, non si può fruire con disattenzione. La frammentarietà che cerchiamo è quella seriale, una variazione infinita della stessa storia, che infatti richiama il romanzo e non il racconto. Non si può non fare attenzione a qualcosa che tra poco finirà, e non c’è niente che stia per finire, che sappia di stare finendo, di un racconto. Al contrario possiamo distrarci durante una narrazione più lunga, premendo come punti cardinali tempo e spazio e personaggi principali”.

Loredana Lipperini, giornalista culturale e scrittrice (Magia nera, Bompiani): “La mia sensazione è che il racconto non venga percepito come veloce ma come frammentario. È  come se ai libri si chiedesse comunque "la trama", e fin qui possiamo persino concordare, ma il racconto ne venisse considerato privo, e nei suoi confronti continua a persistere una diffidenza poco comprensibile, un po' come nei confronti della narrativa fantastica (figurarsi, poi, se i racconti appartengono al genere fantastico: un seppuku, e io lo faccio spesso). Possiamo opporre ogni argomentazione  (la compiutezza del racconto stesso, la tecnica superiore che richiede) ma il pregiudizio resta. E davvero non c'è un motivo sensato. Sono sicura che persino Alice Munro venga letta da una ristretta cerchia italiana (sia pur di fedelissimi) per questo motivo. Mi arrendo (non è vero) e torno a leggere Katherine Mansfield”.

Paola Moretti, giornalista culturale e scrittrice (Bravissima, 66thand2nd): “Se veramente il racconto breve ha poco successo nell’epoca della brevità è perché richiede paradossalmente molta più concentrazione nella lettura. In una storia che si dipana su 300 pagine se perdi qualche dettaglio, se ti distrai un attimo, difficilmente comprometti la comprensione o il godimento del romanzo. Il racconto invece è un genere compresso che punta sui dettagli, su una forma di economia delle parole e delle azioni in cui tutto ciò che arriva sulla pagina conta e, di conseguenza, se lo si perde, si perde anche il gusto di quel preciso racconto. Dunque, il tempo di lettura di un racconto può essere minore, ma l’attenzione richiesta è maggiore”.

Carlo Mazza Galanti, insegnante, critico culturale, scrittore (Cosa pensavi di fare, Il Saggiatore) allarga :“In sintesi: perché è comunque troppo lungo, e troppo semioticamente omogeneo. Anche un racconto di tre pagine se lo metti a confronto con una storia di Instagram o uno status di Facebook resta troppo impegnativo. Non a caso mettono i minutaggi all'inizio degli articoli di giornale: ci vogliono 6 minuti a leggere questo pezzo, così la gente - gente che evidentemente "non ha tempo da perdere”- si rassicura. Forse bisognerebbe metterli anche nei racconti: per leggere questo racconto ci vogliono 12 minuti della tua vita (tra l'altro qualche e-reader mi sa che già lo fa). Se quantifichi controlli e pianifichi, tutto rientra nel meccanismo produttivo quindi la cosa la fai. Immergersi in un racconto per davvero, senza pensare a quanto ci vuole, a cosa troverai eccetera, è un po' come drogarsi. Quindi insomma, sì frammentazione, ma il racconto resta poco competitivo in quanto letteratura, anche se breve, rispetto ad altre forme molto più accattivanti e integrate”.

Alessandra Castellazzi, traduttrice e giornalista culturale (Il Tascabile): "Spesso penso che i racconti non abbiano successo proprio a causa della loro brevità, perché è un’illusione che siano più veloci da leggere. In realtà richiedono un tempo, un’attenzione pari se non superiore ai romanzi. I racconti con la loro frammentazione, gli inevitabili vuoti, l’essenza condensata, lanciano uno sguardo traverso al mondo. Dicono tutta la verità ma la dicono obliqua. Sono più spaesanti, lasciano i contorni indefiniti. E per un lettore può essere una gran fatica ritrovarsi a riempire quei vuoti, o girarci attorno. Persino gli esperimenti di successo commerciale come la collana “Centopagine”, ideata da Calvino a inizio anni settanta, che pubblicava romanzi brevi e racconti, non sembrava dare piena autonomia alla forma, perché era pensata ‘nel segno di aperture per ulteriori esplorazioni di grandi autori’ e per facilitare la lettura nelle ‘giornate meno distese della nostra vita quotidiana’…”.

Elena Giorgiana Mirabelli, curatrice editoriale e scrittrice (Configurazione Tundra, Tunuè): “Risposta intuitiva: il lettore non ha il tempo di affezionarsi a un mondo, a un carattere, a una lingua. Vive la lettura di un racconto come un amante che non riesce a godere del tutto. Risposta ragionata: il racconto è scrittura densa, complessa, iperstratificata. Molto spesso richiede una maggiore attenzione e un serio esercizio di decodifica. Nel caso del racconto il godimento è di chi scrive, perché è nel racconto che viene esercitato ancora di più il potere seduttivo delle storie. Non credo che il racconto non abbia successo, è che il racconto è rivolto a chi vuole essere sedotto non a chi vuole essere accompagnato/accolto/coccolato”.

Stefano Friani è uno dei due ideatori della succitata casa editrice che pubblica solo racconti (Racconti edizioni), inizia a complicare le cose: “Cerco di spacchettare la domanda. Se prendiamo il lato editoriale della faccenda bisogna giocoforza parlare di racconti anziché di racconto, e questa pluralità pone in essere una serie di problemi difficilmente superabili. Una raccolta o un’antologia sono più complicate da raccontare rispetto a un romanzo (pietra di paragone ineludibile e fratello maggiore nella fiction). Nei vari passaggi si perde sempre qualche informazione: l’editore la racconta al promotore che poi più vagamente la descrive al libraio il quale con una certa approssimazione prova a ricordarsi che gli aveva detto il promotore e forse la mette in mano al lettore con l’avvertenza tremenda: sono RACCONTI. La catena di trasmissione del romanzo può invece contare sulla trama e questo rende il cammino molto più facile. Se invece prendiamo il racconto in sé allora uno si direbbe che in tempi di diminuzione dell’attention span dovrebbe andare alla grande ma, al contrario del romanzo, dove appunto si possono seguire solo gli eventi tralasciando il resto, il racconto: a) è eminentemente letterario (difficile che esistano racconti midcult); e b) proprio per questo richiede l’attenzione a ogni dettaglio di un giallo senza quasi mai essere un giallo, ovvero i dettagli di un racconto sono cruciali ma difficilmente si leggono con lo stesso engagement (dovrebbe essere così, ma chiedersi whodunnit è sicuramente più avvincente). Insomma, è una forma (non un genere) che richiede una concentrazione che il suo contraltare più disteso non vuole”.


Libraie

In scia come argomentazioni, alcune rappresentanti di una categoria molto vicina al consumatore finale: le libraie e i librai. Alcuni di loro stanno diventando animatori culturali e veri e propri book influenze. Donato Porcarelli (Otherwise, Roma), è lapidario: inizia citando Cortázar (La novela siempre gana por puntos, mientras que el cuento debe ganar por nocaut, Il romanzo vince sempre ai punti, il racconto deve vincere per KO) e prosegue: "Io credo che il lettore insegua la semplicità e la ‘perfezione’ e per paradosso il romanzo non torrenziale, non difficoltoso è più semplice del racconto”.

Malvina Cagna (Trebisonda,Torino): “Una delle regioni può essere legata semplicemente al fatto che si tratta di target diversi: chi utilizza le piattaforme social non legge, o legge poco; o magari ricerca libri pubblicati da autori e autrici altrettanto attivə in rete, come influencer o youtuber. Mentre chi legge, in formato cartaceo e/o elettronico, resta legatə al romanzo come forma narrativa privilegiata, perché permette una lunga immersione, o evasione. Le lettrici, i lettori, spesso amano affezionarsi ai personaggi e alla loro storia, talvolta se potessero li seguirebbero anche a libro finito. Ciò detto, il racconto deve poter avere una sua propria dignità, non patire costantemente il confronto con altre forme narrative; in altre parole, il gusto di chi legge va formato, stimolato e non è facile: penso ad alcunə clienti che scelgono di leggere quasi esclusivamente noir, o letteratura nordamericana”.

Angelo Orlando Meloni (Casa del libro Mascali, Siracusa) è anche scrittore (Santi, poeti e commissari tecnici, Miraggi): “Rispondo basandomi sulla mia esperienza personale, tra librerie e fiere. È indubbio che moltissimi lettori, anche forti lettori, alla parola ‘racconti’ reagiscono soffiando come gatti. Una possibile risposta è data dal fatto che psicologicamente il romanzo è una grande coperta di Linus che ti rassicura e ti copre. Al contrario il racconto implica che ogni poche pagine si debba azzerare lo sforzo di immedesimazione e ripartire da capo con altri personaggi, altri nomi, altre situazioni. E questo infastidisce molti lettori, c'è poco da fare. Come mai nell'epoca dello zac e flash il racconto non attizzi, infine, si spiega anche con il fatto che i racconti, anche se brevi non sono abbastanza zac e flash per i giovini figli dell'internet, mentre forse lo sono troppo per il grande pubblico della letteratura, che ha bisogno della copertona di Linus. Non se ne esce, mi sa, ma siccome mi piace molto leggere racconti spero di sbagliarmi”.

Chiara Calò (Bookstorie, Roma): “Credo di poter dire che il racconto fatica ad attecchire proprio perché è capace di veicolare un messaggio in tempi brevi. La brevitas a cui siamo abituati noi è una grande illusione che ha poco a che fare con la sintesi e molto con la superficialità. Il racconto, invece, quando è ben scritto ti costringe ad andare a fondo con più fatica. Tanto che ad amare i racconti sono soprattutto i lettori accaniti”. 

Davide Franchetto (Pantaleon, Torino), anche scrittore (L’attesa, Autori Riuniti): “È una domanda che mi sono posto spesso anch'io e, come te, ragionavo sul fatto che questa dovrebbe essere un'epoca d'oro per i racconti, le forme brevi, e invece  non è così. Nel mio mestiere di libraio ascolto di frequente rifiuti da parte dei lettori di fronte a una proposta di questo genere. Io credo si preferisca il romanzo per il piacere, che se ci pensi è lo stesso della serie tv, di tornare in compagnia degli stessi personaggi, di fare un viaggio insieme a loro. Questo in fondo spiegherebbe anche il grande successo, al di là del giallo genere trionfante, dei personaggi alla Montalbano, Rocco Schiavone, che moltissimi lettori seguono di libro in libro con assoluta fedeltà. Un altro motivo, forse più sottile, potrebbe essere che il lettore proprio in un'epoca tanto veloce e forse un poco più superficiale, patisca il nascosto, il sottratto del racconto, fatichi a riempire quel vuoto, voluto e che dovrebbe in realtà essere stimolante, e lo lasci con un senso di eccessiva incompiutezza. Si cercano, in linea di massima chiaro, narrazioni lineari e risolte”.


Complesse

Non sono molto differenti dalle posizioni immediatamente precedenti, ma complicano e spostano il discorso verso aree contigue ma diverse.  Andrea Zanni, bibliotecario digitale (Wikimedia) e critico culturale: “Una risposta di getto (quindi molto probabile che sia sbagliata) è quella che il racconto comunque è lettura, è uno spazio di fiction mediato, solitamente, dalla carta. È comunque qualcosa che ha bisogno di un tempo di minuti, di decine di minuti, non di secondi. Quindi ha un tempo geologico, un ordine o due di grandezza diverso rispetto agli status di Facebook, ai tweet, ai tremendi video di TikTok (che ora ci sono anche su IG e Youtube, e che sono tremendi in termini di dopamina e velocità, un salto quantico e pericoloso). Mi viene da dire che i racconti quindi stanno ancora dalla parte dei libri, e paradossalmente quindi sono dalla parte della reazione a tutto questo. Quindi se reagisco, prendo un libro e ci abito dentro per un po', come per le serie. Se ci pensi accade la stessa cosa ai film e alle serie: in questo momento per me è difficile vedere un film di due ore, ma mi spaventa molto meno vedere una serie. Non so neanche spiegarti il perché: hai un ritorno di investimento diverso, direi, perché ti affezioni ai personaggi e sai che puoi stare con loro per decine di ore, non solo una e mezza. È un investimento affettivo più oculato, a volte. Una delle altre dimensioni fondamentali dell'intrattenimento è anche leggerezza-pesantezza. Stare sui social dopaminici è leggero, la tua ricompensa neurochimica è lì, immediata. Con la lettura è sempre diverso. È un discorso di pazienza e di saper affrontare un po’ di fatica e di noia per avere un premio più grande dopo. ma in questi anni il nostro cervello rettile è bombardato e quindi facciamo così”.

Letizia Pezzali, scrittrice (Amare tutto, Einaudi): “Il racconto richiede molta attenzione, in verità. Il racconto brevissimo, in particolare, può essere un oggetto letterario raffinato, per lettori esperti. È affine alla poesia. In letteratura l'attenzione non dipende dalla lunghezza, da un’idea di durata. Dipende piuttosto dalla creazione di un mondo. Quello che conta, spesso, è la capacità di creare un mondo all’interno del quale il lettore entra cogliendo alcuni elementi essenziali e da lì si muove alternando concentrazione e sbadataggine. Il romanzo, un certo tipo di romanzo almeno, è in grado di creare questo mondo. E si presta addirittura a essere letto saltando dei pezzi, per quanto questo allo scrittore faccia orrore. Nell’epoca della disattenzione, notiamo come al di fuori dei social prevalgano forme di intrattenimento che girano intorno a un mondo, a un contesto vasto dentro il quale si entra per poi perdersi. Le serie televisive, i videogiochi che si espandono anche al di fuori dei prodotto in sé per diventare discorso condiviso (e merchandising). In letteratura, piaccia o non piaccia, l’equivalente è un certo tipo di romanzo vasto, talvolta seriale. Sembra pessimista. In realtà io credo molto al racconto come forma letteraria”. Trovo molto sensato il paragone con le altre forme immersive tipo videogiochi e serie. Avrei voluto coinvolgere esperti anche di questi settori per chiedere loro se sta succedendo qualcosa di analogo (videogiochi narrativi complessi preferiti a meccanismi che possono risolversi in pochi minuti), ma poi davvero il discorso sarebbe diventato troppo lungo. Ci si tornerà magari con una trattazione a parte. Quello che non avevo pensato è il fatto del contesto, cioè che una stories di Instagram è sì una narrazione breve, ma anche una "puntata" di una storia più lunga, potenzialmente infinita, o almeno lunga una vita: la vita della persona che “followi”.

Demetrio Paolin, scrittore (Anatomia di un profeta, Voland) e critico culturale: “Mi viene da rispondere con una boutade, ovvero che sul il tema sollevato bisognerebbe scriverci un bel romanzo-saggio, alla maniera primo novecentesca, dove uno scrittore in crisi cerca di vendere e piazzare i suoi racconti sempre più brevi alle riviste specializzate, collezionando una serie di rifiuti, che lo porteranno all'afasia. E mentre scrivo questo scherzetto, mi viene in mente che per l’Italia, ma non solo, la forma breve s’affermò al grande pubblico nel primo 900 (Pirandello, Tozzi, ma non solo). Il primo 900 con i suoi cambi di paradigma, filosofici, fisici, politici, con i suoi avvenimenti storici ed economici produce uno scuotimento delle strutture narrative, di cui hanno tratto giovamento le forme più brevi, che potevano permettere agli autori di sperimentare nuove modalità, nuovi temi e nuove sintassi (e di guadagnare qualche lira: pensiamo solo alle grandi innovazioni e intuizioni di Novelle per un anno, con le quali Pirandello per un po’ s’è guadagnato la pagnotta). Oggi, in questo oggi che scrivo, sta avvenendo qualcosa di simile, siamo in un cambio di paradigma, ma il tuo ritratto dell’era della disattenzione mi sembra che certifichi non tanto un trionfo della disattenzione, ma l'affermazione di altri modi narrativi che stanno soppiantando la narrativa. Ciò che tu elenchi – stories, meme, tik tok, podcast, canali youtube, videogiochi etc etc – ha sancito che questo strumento che io e te stiamo usando adesso è sostanzialmente obsoleto. E credo che paradossalmente proprio il racconto che è - nella sua essenza - una rarefazione della narrazione (mi viene in mente Kermode che parla dell’unità minima del racconto nel tic toc dell'orologio) ne fa per primo le spese, perché un oggetto e una struttura narrativa più fragile. La sparizione del racconto, similare la sparizione dell’api, nella celebre profezia di Einstein, è indice di una possibile calamità: la scomparsa della parola scritta. Meno tragica della fine del mondo, certamente, ma non meno sicura”.

Alfredo Zucchi, agitatore culturale (Crapula), scrittore (La memoria dell’uguale, Polidoro), editor e editore (Wojtek): Da un lato penso che grazie a dio non sono Bourdieu, e non sono problemi miei. Il fatto però è che sono anche problemi miei. L'assioma per cui la brevità dei cicli dell'attenzione (proprio: dell'economia dell'attenzione) dovrebbe sposare la fruizione del racconto in quanto forma breve secondo me è sbilenca. La fondamentale intuizione di Poe dell'unità di effetto, oggi (e non a metà Ottocento), si applicherebbe a un meme e non a un racconto, perché l'unità di effetto prevede l'unità di fruizione ("unità di seduta" disse Poe); ma l'unità di seduta dura tre minuti oggi, non due ore come al tempo dei treni a vapore. Inoltre la natura della complessità veicolata dal meme (pensiamo a un meme a vari strati) è molto diversa da quella di un racconto: il linguaggio dell'immediatezza del meme, per il tramite di immagini, sintagmi nominali, simboli matematici, bypassa quasi del tutto il filtro delle regole e delle mediazioni del linguaggio letterario (grammatica, sintassi, consecutio, struttura del periodo, tutto l'armamentario rappresentativo della lingua letteraria scritta); si volge dunque a una fruizione decisamente più intuitiva, anche quando presenta strutture complesse dal punto di vista logico. Il ritmo della forma breve oggi, della forma breve in grado di catturare l'attenzione, mi pare passi per una fruizione del genere: non più ‘bassa’ o meno complessa, ma decisamente più immediata. Non essendo Bourdieu, sorvolerò sulle conseguenze di questa tragedia dell'attenzione sulle sorti della letteratura”.

Meno pessimista sul futuro delle forme narrative Giuseppe Girimonti Greco, insegnante, traduttore e consulente editoriale: “Non so se questa sia davvero l’epoca della brevità (tu ne sei sicuro?). Ma forse è ozioso persino cercare di stabilire se davvero lo sia. Si potrebbe sostenere anche l’opposto, e cioè che questa è – senza ombra di dubbio – l’epoca d’oro della prolissità, della verbosità e del vaniloquio. E poi… attenzione: le forme brevissime della comunicazione social non sono sempre narrative; anzi: spesso non sono neanche particolarmente espressive; e – colmo dei colmi – non sono necessariamente aforistiche. La comunicazione rapida e breve o brevissima che è tipica di alcuni social (ma non di FB, per esempio) non è chiusa, e non è lineare. Se l’arte del racconto (quella classica, ovviamente) è un’arte “del chiudere” e del narrare in modo lineare, allora non è sorprendente che “i tempi” siano ostili alla forma-racconto. Ma è sicuramente fuorviante ostinarsi a portare avanti la riflessione prendendo come modello immutabile e atemporale la forma classica così come è stata forgiata dai grandi maestri. Per ragioni generazionali (ma forse anche di gusto e di istinto) io sono molto legato alle forme classiche del racconto breve (da Madonna Oretta di Boccaccio al Funes di Borges) e del racconto lungo (quello alla Henry James, per intendersi; quindi molto lungo, e non sempre così lineare); ma sono molto incuriosito dalle nuove forme del narrare breve: forme frammentarie, dall’andamento, certe volte, un po’ statico, almeno in apparenza. Mi piacciono molto le narrazioni lunghe costruite attraverso il montaggio e/o la giustapposizione di “quadri narrativi”, prose, inserti saggistici, innesti lirici, ecc. Mi vengono in mente molti esempi che si prestano a illustrare questo orizzonte di nuove forme, più libere e mosse, più inattese … Mi limito a un solo nome: i libri di Mario Fillioley. Sono romanzi? O sono raccolte di testi che possono essere letti come racconti (anche se solo “rilegati” all’interno di una precisa e robusta cornice tematica)? Mi piacciono molto le raccolte attraversate da un filo rosso, oppure da un Tema con la maiuscola. E se il tema è invadente, tanto meglio, perché è sempre un piacere, per il lettore, godersi lo spettacolo delle “Variazioni”. Ma in questo momento non ho in mente le raccolte tenute insieme da un collante tematico, no. Sto provando a pensare alle sperimentazioni che forse, in un futuro prossimo venturo, contribuiranno a incrinare le paratie che ancora separano la forma-racconto dalla forma-romanzo. Non è facile stringere in poche battute un argomento così complesso e ricco di potenzialità e sviluppi inopinati, ma sicuramente esiste una tendenza ben delineata: quella dei micro-romanzi (due soli nomi: Régis Jauffret e Piergiorgio Paterlini)”.

In scia Matteo Moca, insegnante e critico letterario (Figure del surrealismo italiano, Carabba): “Credo sia necessario anche valutare come stia variando la forma del racconto, come molte forme letterarie in continua evoluzione, perché credo che questo possa darci un'ottica diversa sull'argomento: faccio un esempio per essere più chiaro. Un libro come Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamìn Labatut, che credo abbia soggiornato un poco anche nelle classifiche di vendita, è assimilabile, a mio parere, a un libro di racconti anche se sposta un po' le coordinate teoriche raccontando in brevi quadri le vite, le scoperte e le sofferenze di alcuni grandi scienziati del Novecento, sempre con una percentuale variabile di fiction, e con l'ultimo testo della raccolta, che abbandona un po' lo schema, che è secondo me un racconto dalla forma perfetta. Un libro quindi di racconti di cui si è parlato molto e che ha venduto credo altrettanto, certo anche grazie al posizionamento commerciale e culturale di Adelphi, ma qui aprirei un'altra lunga parentesi”.

Sottolinea anche la peculiarità italiana e le differenze con i mercati stranieri Gianluca Didino, critico culturale e scrittore (Essere senza casa, minimum fax); “Innanzitutto direi che l'affermazione "il racconto non ha successo" è opinabile: dipende dal contesto editoriale di ci si sta parlando. Nel mondo anglofono, e soprattutto negli Stati Uniti, le raccolte di racconti hanno sempre goduto e godono tutt'ora di ottima salute. La domanda semmai è perché "il racconto non ha successo in Italia", e qui le risposte possono essere varie, ma la principale ha a che vedere con la limitatezza di forme davvero asfittica del mercato editoriale italiano: da noi la letteratura coincide sostanzialmente con il romanzo, il che è un po' paradossale se pensiamo che i dei tre padri nobili della nostra letteratura (Dante, Petrarca e Boccaccio) nessuno era, per ovvie ragioni storiche, uno scrittore di romanzi. I racconti pagano il pegno di questo strapotere della forma romanzesca come altre forme, basti pensare a generi come il personal essay o il memoir che sono sempre in cima alle classifiche di vendita USA e UK e da noi sono virtualmente inesistenti.
La nostra epoca mi pare possa essere definita decisamente "massimalista": viviamo sfide enormi, la scienza ci ha insegnato a immergerci in dimensioni spazio-temporali infinitamente più grandi di quelle umane, e i grandi romanzi mostruosi ed eccentrici sono sicuramente più in grado di catturare questa dimensione del presente. Se ci pensi il racconto breve ha avuto l'ultimo grande boom negli anni 80 con i cosiddetti minimalisti, in un'epoca in cui, proprio all'opposto di ciò che capita oggi, il movimento della storia era quello del ritorno al privato, della cura narcisistica della forma, del controllo. Con questo non voglio certo dire che il racconto non sia più rilevante oggi, ma che come tutte le altre forme letterarie dovrà necessariamente cambiare. Detto da uno che si è laureato con una tesi su Carver, che da Carver è stato influenzato tantissimo, che per anni e anni si è percepito come uno scrittore di racconti e che tutt'ora, anche se non li pubblica, continua a scrivere racconti: oggi non trovo niente di più noioso e fuori dal tempo che un racconto "ben fatto" e che "funziona bene" come quelli di cui Carver era maestro. Anche il racconto, oggi, deve aprirsi a nuove sfide e cambiare”.

Chiude riassumendo un po’ tutto quanto detto finora, e poi rilanciando la palla nel più vasto campo della letteratura, e della vita, Andrea Gentile, scrittore (Apparizioni, Nottetempo), editore e editor (Il Saggiatore): “La domanda è molto interessante e meriterebbe, per risposta, uno studio autentico. Provo a tracciare, per quel che posso, solo poche coordinate:

- Questioni di “tradizione”: sempre più negli ultimi decenni il lettore italiano ha associato il libro, per varie ragioni, a un oggetto immersivo: dal romanzo al saggio, la fascinazione per il testo che ti avvolge per giorni o settimane, dato anche l’investimento di tempo che gli dedichiamo, è consolidata.

- Questioni editoriali: a tutt’oggi, e da molti anni, l’intero comparto editoriale è scettico quando si tratta di promuovere una raccolta di racconti (ma anche di poesie, o anche della cosiddetta narrative non fiction: è un settore sempre più propenso alle categorizzazioni rigide). Dai buyer ai librai alle reti promozionali fino a qualche editore, ogni qualvolta che ci si trova di fronte a una raccolta di racconti, sembra necessaria la premessa invalidante: anche se è una raccolta di racconti, è un libro che piacerà, o che venderà.

- Ho detto che la fascinazione per il testo che ti avvolge per giorni e settimane è uno degli elementi rilevanti riguardanti l’atto della lettura. Naturalmente anche una raccolta di racconti può avere queste caratteristiche. Siamo di fronte a un bivio, allora. Potremmo da una parte teorizzare che, proprio in virtù della società della disattenzione (andrà sempre peggio…), i lettori, che rappresentano una piccola nicchia del paese, vedono nel libro un’esperienza talmente immersiva da renderla una pratica in netta contrapposizione col rumore del mondo. E per darvi più significato preferiscono testi più lunghi a testi più brevi. Allo stesso modo potremmo teorizzare quasi l’esatto opposto: che proprio in virtù del calo d’attenzione diffuso, la forma breve sia particolarmente ostica per un lettore, che ogni 4 o 5 o 10 pagine deve re-immergersi in un nuovo mondo, con nuovi personaggi e una nuova trama, un’attività piuttosto faticosa (un tipo di brevitas che ha il suo culmine massimo nella potenza del verso poetico).

Se è vero che non esistono risposte univoche, forse però nessuna di queste due risposte è convincente. Come tutte le categorie, i lettori costituiscono una categoria tutt’altro che statica. Uno studio della Sapienza dimostrava che man mano che aumentavano il numero di libri letti al tempo stesso aumentavano le altre attività compiute. Teatro, cinema, yoga e persino palestra. Nonostante i luoghi comuni, secondo questo studio fatto da Chiara Faggiolani nel 2020, sono i più lettori che hanno praticato sport nel corso dell’anno, che i non lettori. Tutto questo per dire che i lettori sono spesso individui curiosi, talvolta voraci, che passano da Instagram a Netflix a un libro, a un podcast sulla meditazione, al campo di calcio o di tennis. Forse allora una risposta potrebbe essere questa: si leggono meno le raccolte di racconti perché, per questioni legate alla “tradizione”, e per questioni legate ai processi editoriali, si mettono meno in mostra le raccolte di racconti. È  una specie di tautologia: le raccolte di racconti (ma anche la poesia o la narrative non fiction etc.) non si vendono perché non possono essere vendute. Non si leggono perché non possono essere lette.  È  tuttavia una questione di inerzia. Sappiamo che l’inerzia cambia. Nulla è permanente.

Il tema di fondo è però questo: che non si tratta di salvaguardare i racconti o le poesie o la narrative non fiction o chissà cos’altro. Piuttosto auspico che i testi vengano presi per quello che sono, qualunque forma essi abbiano. Esistono testi che sono in grado di farti vivere un’esperienza. Esistono poi, e sono i più rari, testi che possono sconvolgerti o cambiare almeno una parte di te. Nella brevità o nella lunghezza, nel tempo non solo della disattenzione, ma anche dell’illusione della conoscenza, ma anche della divinizzazione dell’attuale (non del presente, purtroppo) forse i testi mantengono questa forza: scorrono come fiumi dentro di noi, passano, se ne vanno, ma talvolta ci lasciano, dentro di noi, l’erosione che ci porteremo con noi, finché potremo”. 


E se avessi preso una cantonata?

Infine. C’è un intervistato che ha espresso invece proprio una critica radicale, da tutti i punti di vista, all’impostazione della domanda e di questo articolo. È  Giulio Mozzi, scrittore (Fiction 2.0, Laurana), editor e consulente editoriale, docente di scrittura creativa. Subito ha replicato con una mitraglia di controdomande: “È vero che non riusciamo a restare concentrati su una cosa per più di tre minuti? È  vero che viviamo nell'epoca della brevità? È vero che il racconto non ha successo? Il "noi" della domanda, a chi corrisponde esattamente, a "tutti"?  Io che non frequento Tiktok, che pubblico in Instagram una foto alla settimana se va bene, che ignoro i meme, rientro nel “noi”?”. Tutto può essere eh, io sono sempre pieno di dubbi, è possibile che mi sia fatto una costruzione mentale fondandola su basi inesistenti. Mi sembra già meno probabile che io sia riuscito, dando per acquisiti una serie di “presupposti e generalizzazioni”, a suggestionare tutti gli altri interlocutori, che si sono trovati d’accordo con alcune o tutte le premesse.

Ho cercato di precisare la domanda e aggiungere pezze d’appoggio, quelle che qui ho messo nell’introduzione, e quelle relative allo scarso successo dei racconti da vari punti di vista (classifiche di vendita, premi letterari, attenzione della critica, disponibilità degli editori…). Mozzi ha replicato raccontando: “Ieri mattina ho lavorato dalle 7.15 alle 10.30 all'editing di un romanzo, e dalle 11 alle 13 - in videoconferenza con l'autore - all'editing di un altro romanzo. Ieri pomeriggio ho lavorato dalle 14.30 alle 18 alla contabilità delle iscrizioni della scuola di narrazione che dirigo: ho risposto a una ventina di email, ho fatto una decina di trattative sui prezzi, alcune per iscritto e alcune al telefono, ho messo tutti i dati negli appositi fogli Excel, ho controllato che fossero arrivati tutti i pagamenti che dovevano arrivare. Dalle 18 alle 20 ho chiachcierato e cucinato per la truppa. Ieri sera ho lavorato dalle 21.15 alle 01.30 per rivedere, correggere e caricare e impaginare una dozzina di pagine di un sito. Ieri è stata una giornata normale. Otto secondi? Siamo sicuri? A me pare che qui ci spazzoliamo delle tirate da due, tre ore, anche quattro, senza particolari problemi. E mi pare che così facciano pressoché tutte le persone che lavorano. Non dubito che possa esserci una parte di popolazione che ha difficoltà di concentrazione: non ne so nulla. Ma quel "noi" della domanda mi sembra molto simile a un "tutti". O forse vivo in un mondo speciale.

I premi non rispecchiano necessariamente il successo commerciale dei libri. Mi pare che in Italia si pubblichino molti più romanzi che raccolte di racconti: bisognerebbe avere dei numeri, per capire se effettivamente nei premi e nelle classifiche le raccolte di racconti sono sottorappresentate. Io non li ho, questi numeri. A occhio, direi che l'interesse degli storici e dei critici della letteratura è più verso il romanzo che verso il racconto. A occhio. Da lettore di inediti qual sono per professione, direi che ricevo una raccolta di racconti circa ogni trenta romanzi. Ma è solo la mia esperienza. Quanto ai "più venduti di sempre", domando: non è che forse il romanzo è una forma d'arte di per sé più ricca, soddisfacente eccetera, o forse solo più facilmente godibile, del racconto? (Esempio: ci sono grandi pittori e grandi scultori, ma mi pare che la pittura in genere goda di molta più popolarità della scultura. Mi pare).

Non ho mai sentito nessuno dire: "Ho dieci minuti liberi, mi leggo un racconto". Ciò non significa nulla, mi pare, se non forse che frequento persone che non usano la lettura come un tappabuchi per i momenti morti della giornata. Alla domanda: "come mai in un periodo di attenzione decrescente le forme letterarie brevi non hanno una fortuna crescente?" risponderei:

-  forse non c'è nessuna relazione tra i periodi di attenzione e la fortuna di forme letterarie lunghe o brevi;

-  forse gli studi sui periodi di attenzione non sono stati compiuti sulla lettura di libri;

-  forse il decremento dell'attenzione potrebbe concernere le persone che compiono certe attività (o: mentre compiono certe attività) e non le persone che ne compiono (o mentre ne compiono) certe altre.

Mi viene in mente un ragazzino quasi decenne di mia conoscenza che nella conversazione salta continuamente da un argomento all'altro, e poi quando ascolta un audiolibro è capace di restare immobile un'ora e mezza (e poi raccontarti per filo e per segno ciò che ha ascoltato) - idem se ha da montare un'astronave galattica Lego. Ah: la domanda "Come mai oggi che tutto corre così veloce non prevalgono le forme narrative brevi?" io la sento fare da quando ho mosso i primi passi nel mondo editoriale, cioè dal 1992”.

E sapete una cosa? Tutto sommato, anche dopo tutto questo riflettere, ascoltare e costruire - anche dopo questo articolo, che è una delle cose più lunghe che io abbia scritto, libri a parte - sarei più contento se si potesse dimostrare che tutto il ragionamento che avete finora pazientemente letto, fosse fondato sul nulla; sarei più contento se avesse ragione lui.

Hai letto:  Attenzione ai racconti

Pensiero
Questo articolo fa parte della issue:
#3 Attenzione!
Dario De Marco

(1975) è stato redattore del mensile Giudizio Universale e editor di Esquire. Scrive di letteratura e cibo per CheFare, Dissapore, Esquire, L’Indiscreto, L'Integrale, La Ricerca. Ha pubblicato il romanzo Non siamo mai abbastanza (66thand2nd) e la non fiction Mia figlia spiegata a mia figlia (LiberAria). Nel 2021 è uscito il libro di racconti Storie che si biforcano (Wojtek).

Pubblicato:
25-05-2021
Ultima modifica:
08-06-2021
;