Protocolli di tortura - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Un'opera di Jean-Luc Moulène
Un'opera di Jean-Luc Moulène | Copyright: Lorenz Seidler / Flickr

Protocolli di tortura

In anteprima un estratto dall'introduzione di "Tortura concreta" (Edizioni Tlon) di Reza Negarestani.

Un'opera di Jean-Luc Moulène | Copyright: Lorenz Seidler / Flickr
Gioele P. Cima

è un ricercatore indipendente. Tra le sue pubblicazioni: Il seminario perpetuo. Il tardo e l’ultimo Lacan (Napoli-Salerno 2020), Georges Bataille. Il pensiero violento (Milano 2022), Psicoanalisi e dissidenza. Su Elvio Fachinelli (Milano-Udine 2022). Ha curato la traduzione di Reza Negarestani, Tortura Concreta (Roma 2022) e l’introduzione critica a Elvio Fachinelli, On Freud (Cambridge, MA, 2022). Per Orthotes ha curato la traduzione del volume Contro il discorso della libertà. Saggi su politica, estetica e religione di Lorenzo Chiesa (2019).

Sebbene Tortura concreta intenda inizialmente porsi come una speculazione sulle opere dell’artista francese Jean-Luc Moulène, i suoi propositi filosofici si estendono ben oltre. Assumendo l’operato di Moulène come una singolare prassi di astrazione, Negarestani celebra le installazioni dell’artista come la realizzazione, attraverso svariate tecniche e procedure, dell’abbattimento dei confini dell’arte e del pensiero contemporanei. I bizzarri oggetti creati da Moulène (nodi di bronzo, fiori metallici, teste ricavate versando colate di cemento dentro maschere sigillate) equivarrebbero a «modalità del pensiero» incarnate, creazioni ibride, truculente e informi, saldamente installate nella struttura della materia. Approcciando l’arte come un processo di produzione guidato dalla materia, anziché dalle semplici decisioni dell’artista, Moulène riporterebbe a galla il compito rimosso della sua disciplina, quello di «riorganizzare e destabilizzare il rapporto di configurazione tra i parametri del pensiero, quelli dell’immaginazione e i vincoli materiali» [1] che modellano la cognizione. Qualunque definizione decidiamo di attribuirle, l’arte non può mai essere validata internamente, ma deve essere di volta in volta ricondotta alla struttura generale del pensiero. Non certo per consolarlo o allietarlo, quanto piuttosto per scuoterlo, contaminarlo, stanarlo sia dalla sua fissità di coscienza contemplativa che dall’altrettanto fallace concezione del pensiero che plasma la materia a sua immagine. Per Negarestani, nelle esibizioni di Moulène è l’idea stessa di arte a cambiare baricentro e a subire un clamoroso straripamento disciplinare: né significazione chiusa, impermeabile all’influenza di altri saperi, né campo aperto e depredato dall’incursione di altri discorsi (filosofici, storici, economici, politici), l’arte designa un dominio di revisione e riprogettazione, un piano di lavoro in cui azione, cognizione e materialità sono indissociabili ma non per questo immediatamente conciliabili. Piuttosto che risorse di cui l’artista può disporre liberamente, le pietre, la resina, i vetri e il resto della rassegna di materiali utilizzati da Moulène sono entità chiuse che rifuggono ogni forma di comunione con le intenzioni dell’artista. Le possibilità di stabilire un rapporto di partecipazione tra l’artista e la materia sono doppiamente limitate: da un lato, dalle decisioni e dalle capacità del singolo artista; dall’altro, dalla ristrettezza del concetto di materialità, e cioè dall’irriducibile impenetrabilità del materiale che si decide di utilizzare. [2] Di conseguenza, più che una comunanza reciproca, occorrerebbe intendere l’incontro tra l’artista e i materiali come una vera e propria collusione. Anziché guidata dall’intenzione, l’arte procede per gradienti di complicità, e ogni suo prodotto rispecchia sempre il frutto di una trama narrativa contingente, scaturita dal dispiegamento di contrazioni imprevedibili, torsioni e sospensioni di volta in volta favorite dall’impenetrabilità del materiale. Più l’opera riflette questa chiusura (più essa si incava nella materia), più si apre alla contingenza, a quell’imprevedibile condizione che Negarestani definisce una concomitante espressione della possibilità e dell’impossibilità dei fenomeni: la complicità dei materiali è «una forma di speculazione estrema» in cui «tutto può accadere, ma allo stesso modo, nulla può accadere». [3]

Il fulcro di questa speculazione ruota attorno ad un nuovo approccio all’astrazione, che Negarestani estrae proprio dalle procedure compositive dell’artista francese. Oggi, nota Negarestani, è difficile riconoscere l’operato dell’astrazione senza ridurlo ad una funzione rudimentale del pensiero. Con il susseguirsi delle epoche storiche, il concetto di astrazione è mutato in modo tanto radicale che il suo significato originale ci appare ormai irriconoscibile. Tuttavia, così come le reciproche perturbazioni tra pensiero e materia raffigurate nelle opere d’arte non sono isolabili ad un singolo ambito della conoscenza, nemmeno l’astrazione può dirsi l’ancella di un sapere specifico. Piuttosto, l’astrazione è una funzione che tende asintoticamente all’unità di tutte le modalità di pensiero, alla sintesi elaborativa del singolare e dell’universale, del locale e del globale. Invece di omologare le diverse manifestazioni del pensiero ammollandole in una totalità generica, l’astrazione si manifesta attraverso la concomitante differenziazione e re-integrazione delle determinazioni del suo oggetto: da un lato, preservando la propria propensione all’unità (un’unità che non è mai data a monte, ma sempre costruita e particolarizzata punto per punto), l’astrazione rispetta il carattere frammentario della realtà senza tentare di ricomporlo in una falsa totalità; dall’altro, recuperando e liberando nuove modalità con cui pensiero e materia si perturbano a vicenda, essa riunisce tali momenti in un cammino globale che non sacrifica né semplifica l’eterogeneità del suo oggetto. Questo passaggio destabilizzante ma al tempo stesso integrativo dischiude nuove opportunità per la ragione di trasformare se stessa, di diversificare e ricalibrare i propri ambiti di azione a partire dalle opportunità contingenti della materia. Astraendo, la mente impara a legare formalmente l’esterno, separandolo dalle sue tracce sensibili e preservando la natura cosale dell’oggetto (la sua impenetrabile composizione materiale).

Non è la semplice rimozione delle determinazioni del pensiero a essere in gioco, come se si trattasse di sollevare tante sottili bucce (le tracce che l’intuizione sensibile imprime inavvertitamente su ciò che entra nel suo spazio noetico) per giungere a una sorta di rapporto incorrotto con l’oggetto. Una simile operazione infatti lascerebbe tanto il pensiero quanto la materia intatti, separati ciascuno nella propria nicchia. Quel che occorre fare è invece imprimere una perturbazione reciproca tra i due termini della relazione, che esprima la propensione del pensiero a mobilitarsi e turbare lo stato inerziale della materia e, allo stesso tempo, consenta alla materia di scombussolare la stabilità del pensiero. Negarestani chiama questa condizione la crudeltà formale del pensiero: allentando i cardini della propria struttura trascendentale, il pensiero incorre in uno squilibrio, una scossa di destabilizzazione in cui le distinzioni tra l’esterno e l’interno, l’oggetto e la ragione, collassano in vista di una nuova contaminazione. In bilico sulla propria sospensione trascendentale, il pensiero coglie la capacità di liberarsi dagli idoli che lo limitano e riconosce le proprie norme (ciò che esso è o dovrebbe essere) come delle contingenze revisionabili. Ed è proprio grazie a questa complicità con l’esterno che esso si scopre crudele: non vincolato a niente che non possa essere rimosso o revisionato, non dipendente da nient’altro se non dalla propria ostinata vocazione a superare se stesso. 

Crudeltà e astrazione sono le due facce della stessa medaglia: non riconoscere l’intrinseca crudeltà del pensiero, la sua propensione a sospendere la propria forma, significa escludere a priori la possibilità dell’astrazione, e dunque di rielaborare criticamente le condizioni di realizzabilità e di effettualità della ragione. Tuttavia, sarebbe altrettanto fuorviante intendere la crudeltà come un abbattimento sconsiderato delle facoltà razionali, un annichilimento masochistico in cui la ragione si disperde in un’apertura senza soglie e margini. Non solo, specifica Negarestani, ciascuna perturbazione pone di volta in volta la ragione nella condizione di produrre un nuovo giudizio (una nuova norma) che la rilocalizzi rispetto al proprio spazio d’azione, ma la stessa crudeltà, lungi dal precipitare il pensiero nell’abisso dell’indifferenziato, è una prassi che opera per protocolli. I protocolli, che Negarestani mutua proprio dalla metodologia di Moulène, sono sistemi performativi di leggi (rappresentazionali, immaginative e materiali) che forniscono di volta in volta nuove «scelte» di disequilibrio. Ogni volta che sperimenta il fardello della propria crudeltà, il pensiero incontra nuove e diversificate strategie per ridefinire il rapporto che lega le sue leggi a quelle della materia e dell’immaginazione, così da poter ridirezionare tale turbamento verso un nuovo orizzonte cognitivo, pratico e procedurale. La stessa astrazione, in tal senso, non è altro che un «protocollo in costante evoluzione», e che permette al pensiero di cogliersi dal di fuori, dalla prospettiva della materia e della sua impenetrabile contingenza. [4]

Ciascuna di queste reciproche perturbazioni apre nuovi scenari di azione e di partecipazione che travalicano i vincoli trascendentali della ragione. Di conseguenza, non è affatto errato dire che quella ad astrarre sia una propensione del tutto naturale, uno stravolgente impulso a liberare la ragione dall’assoggettamento alla necessità dei limiti dell’immaginazione. Diversificare lo spazio dell’astrazione, spingere la mente verso nuove possibilità di «fare» qualcosa, è un’«operazione emancipativa» che si oppone alla tendenza del pensiero a segregarsi nelle sue fortezze. Come aggiunge Negarestani però, affinché il pensiero sospenda la stabilità della relazione con il proprio oggetto, esso deve prima di tutto perturbare la relazione che ha con sé, mettere sotto scacco la sua inclinazione all’omogeneità. Un pensiero in grado di confrontarsi attivamente con la crudeltà che lo abita è un pensiero costantemente in grado di apporre una differenza «in un mondo marchiato da una perenne indifferenza». [5]

 
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Note

[1] R. Negarestani, Tortura Concreta, tr. di G.P. Cima, Tlon, Roma 2022, p. 57.

[2] Su questo si veda in particolare R. Negarestani, Contingency and Complicity, in R. Mackay (ed.), The Medium of Contingency, Urbanomic, Falmouth 2015, pp. 11-16.

[3] Ivi, p. 14. 

[4] R. Negarestani, Tortura concreta, op. cit., p. 53.

[5] Ivi, p. 97. 

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Globale - 2022
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Gioele P. Cima

è un ricercatore indipendente. Tra le sue pubblicazioni: Il seminario perpetuo. Il tardo e l’ultimo Lacan (Napoli-Salerno 2020), Georges Bataille. Il pensiero violento (Milano 2022), Psicoanalisi e dissidenza. Su Elvio Fachinelli (Milano-Udine 2022). Ha curato la traduzione di Reza Negarestani, Tortura Concreta (Roma 2022) e l’introduzione critica a Elvio Fachinelli, On Freud (Cambridge, MA, 2022). Per Orthotes ha curato la traduzione del volume Contro il discorso della libertà. Saggi su politica, estetica e religione di Lorenzo Chiesa (2019).

Pubblicato:
15-07-2022
Ultima modifica:
15-07-2022
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