Giocare è una cosa seria - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Dal videogioco BioShock Infinite
Dal videogioco BioShock Infinite

Giocare è una cosa seria

Una lettura di "Reset. Politica e videogiochi", a cura di Matteo Bittanti, recentemente edito da Mimesis.

Dal videogioco BioShock Infinite
Simone Santamato

è autore per la rivista Scenari di Mimesis Edizioni, scrive per l'Einaudi Blog della Fondazione Einaudi occupandosi dell'etichetta Filosofia. Studia Filosofia presso l'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro".

È con grandissima gioia che mi sono avvicinato a Reset. Politica e videogiochi (a cura di Matteo Bittanti, Mimesis, Milano 2023) perché credo che il videogioco non si spenga nell'intrattenimento, ma si estenda a un'esperienza artistica degna di un'analitica corposa. Sempre per Singola avevo consolidato questa mia tesi, presentando le categorie religiose con cui si deve leggere la terza parte di Silent Hill. Insomma, che il videogiocare stia assumendo tratti sempre più politici – laddove per politico si intende uno spazio di circolazione di idee – è evidente, e sicuramente lo si deve, come vedremo, alla sua pervasiva massificazione.

È noto che un medium che circola molto abbia una grande possibilità di trasmettere idee. Una volta sdoganato il videogioco come forma d'arte coagulata in un software, è il momento di cedergli dignità, nella consapevolezza che ogni forma creativa esponga il suo momento storico. Non sono sicuro di credere alla rigida impostazione marxiana per cui la creatività consegue da una impostazione economica, ma è anche vero si debba dare contesto a un fenomeno perché sia compreso. Da mia parte, penso che l'atto creativo derivi da qualcosa di più o meno sostanziale, che ha a che vedere con la natura specifica del soggetto. Perciò, seppure un'economia florida e una debole possano incentivare forme diverse di arte, è pur vero che l'operazione artistica sia rimessa al soggetto.

Quello curato da Matteo Bittanti è un testo che, anzitutto, mi sembra voglia consegnare al videogioco una rinnovata profondità, vedendo il videogiocare come un'attività che interessa seriamente il soggetto. Il momento videoludico chiamerebbe il soggetto a un'azione interattiva che, in quanto tale, lo mette in discussione e perciò può potenziarlo o depotenziarlo. La passività che si credeva caratterizzasse il videogioco, e ancora prima il cinema, decade riscrivendo la logica di una situazione che ora coinvolge pienamente l'ambito della soggettività. Non solamente il videogioco diventa affare del soggettivo, ma anche il programmatore dall'altra parte, che assume sempre più la forma di un vero e proprio autore, può intelaiare la sua visione nel gioco alla pari di come un intellettuale intrappola il suo pensiero nella rete sintattica.

In questa maniera, il videogioco diventa una cosa seria: si riveste dell'aura artistica, e diventa oggetto di analisi da parte di chi, volendo comprendere la natura dell'umano, si affaccia a una sua specificazione. Il videogioco, in altre parole, deve essere considerato come una piena produzione storica dell'uomo, passibile di una fenomenologia profonda che, ancora una volta, pretenda di arrivare alla soglie del senso del nostro essere-nel-mondo. Bittanti traccia un sentiero di questo tipo, proponendo un approfondimento del fenomeno che ne evidenzi la potenza di mediatore massificato di ideologie politiche.

Quello di Bittanti è un testo corposo, denso di riferimenti videoludici peculiari che sottintendono non solamente uno studio profondo ma anche il suo essersi, per così dire, sporcato le mani immergendosi in prima persona nell'ambito del videogiocare. Ciò detto, non lo definirei propriamente un testo per i videogiocatori quanto un testo sui videogiocatori intesi come soggetti di un'analisi epistemologica. Al videogiocatore, insomma, viene data una dignità che lo cristallizza come un modo del soggettivo che può essere sottoposto a uno studio intensivo. Questo perché, come dice Bittanti stesso nel libro, «Il videogame, come la politica, esige una disamina multiprospettica» .

Al suo interno, il libro propone vari e eterogenei studi in merito al politico nel videogioco, tutti col fine di consolidare la tesi che «il ludico non è neutrale, il ludico è politico»: le disamine, nello specifico, vertono l'approfondimento di alcuni videogiochi – tra i quali gli eminenti Days Gone, BioShock Infinite, The Elder Scrolls V: Skyrim – con lo scopo di evidenziarne l'ideologia subliminale. Mi si passi una considerazione personale: è davvero apprezzata la presenza di titoli meno noti alla massa, come Half-Life e Deus Ex, sintomo di un'attenzione al videogiocare che oltrepassa di gran lunga quella attesa. Scardinerei dunque da subito l'opinione che potrebbe sorvolare la mente specie di chi, davvero appassionato, può pensare che il testo proponga l'ennesimo studio sui videogiochi svolto da personalità aliene al media, che quindi pontificano su basi fumose. Al contrario, gli studiosi presentati dal testo sono personalità che, traspare immediatamente da una prima lettura, non solo studiano il videogioco ma lo comprendono essendone dentro.

Inoltre, deve essere pure chiarito come le argomentazioni riguardino il videogioco e il videogiocatore mainstream in particolare: alcune esperienze videoludiche più complesse, che veicolano un messaggio più strutturato, sono al di fuori della forbice di analisi in quanto il videogioco viene qui preso nell'accezione di medium comunicativo di massa. Quelle opere che perciò rappresentano una specificazione dell'arte del videogioco, come ad esempio la stessa serie di Silent Hill di cui mi sono occupato, sono tendenzialmente fuori dallo spettro di lavoro: nelle ricerche ricade il videogioco come bene di consumo. È per questa ragione che, sin da subito, Bittanti fossilizza come i saggi proposti «identificano nel neoliberismo e nel criptofascismo le ideologie dominanti dei videogiochi mainstream» focalizzandosi quasi totalmente sulla condizione politica americana.

Una prova di questo si trova nella tendenza a inserire nei videogiochi, a partire dalla prima metà degli anni dieci del duemila, le famose microtransazioni. Ovvero, cosmetici o oggetti facilitanti l'esperienza di gioco venduti a prezzi relativamente bassi, al di là del videogioco stesso. Questa pratica si è evoluta poi nei tanto detestati quanto acquistati DLC (acronimo di Downloadable Content), ossia dei contenuti di gioco non inclusi nella copia originale venduti, magari su un negozio digitale, a un prezzo variabile. Mi viene subito in mente, avendolo sofferto, l'infame caso del "vero" finale del reboot di Prince of Persia (Ubisoft Montreal, Ubisoft, 2008), venduto come DLC al prezzo di una decina di euro. Quel momento fu simbolico di un trend che nel corso degli anni ha saputo trasformarsi, assumendo forme sempre più occulte, fino a sfociare, perlomeno oggi, nella vendita normalizzata dei contenuti aggiuntivi al videogioco "puro".

È chiaro come questo tipo di microeconomia strizzi l'occhio alle logiche del mercato: oltre la vendita del prodotto, l'obiettivo è capitalizzarci sopra fin quando è spremibile. È avendo questo obiettivo in mente che nascono i giochi denominati game as a service (gioco come servizio): il videogioco diventa un vero e proprio prodotto, un servizio in abbonamento alla stessa maniera di come lo è, per esempio, un abbonamento streaming per il cinema. Ciò contribuisce prevedibilmente ad aumentare il tasso di videogiochi pensati come merce di capitalizzazione, nonché ad abbassare la circolazione della forma del videogioco come arte. Questa faccia della questione penso sia molto interessante perché mostra in che modo manovrare la massa verso una novità, come il videogioco, facendolo aderire alle logiche economiche dominanti. Insomma, detto in altri termini forse più brutali, per diffondere qualcosa basta saperlo vendere. Perché un certo bene interessi un pubblico vasto, deve essere non tanto appetibile ai suoi gusti quanto apparentemente allettante per il suo portafoglio. Dunque, deve farsi merce indirizzata alla soddisfazione della gola consumistica. Questi discorsi vengono più distensivamente affrontati da un'analisi di D. J. Joseph presente nel libro, che si intitola: Battle Pass Capitalism.

Allo stato attuale, sarebbe riduttivo credere che la politica si presenti nei videogiochi solo con la loro mercificazione: al di là del videogioco, infatti, sono note più piattaforme online che permettono di trasmettere il videogioco. E perciò, se ne permettono la trasmissione, fanno trasmissibile pure il suo politico. Nel corso del suo saggio introduttivo, Bittanti racconta di due importanti episodi in merito, trasmessi in live l'uno sulla piattaforma Twitch, l'altro su YouTube. È curioso come gli streaming in oggetto non nascondessero i loro fini politici ma usassero consapevolmente il media videoludico per polarizzare gli spettatori verso un'ideologia piuttosto che un'altra. È il caso riportato da Bittanti della politica democratica Alexandria Ocasio-Cortez che, con l'ausilio di Among Us, un videogioco molto trasmesso e apprezzato, ha totalizzato un record di spettatori simultanei (435.000) nonostante parlasse di politica più che del videogioco stesso.

Quello tenutosi su YouTube, poi, credo sia l'apoteosi: uno streamer, tale Destiny, è solito a suo dire sensibilizzare il suo pubblico a un'analisi ponderata del contesto politico americano. Per fare questo, nelle sue trasmissioni si lascia andare a elucubrazioni più o meno fumose nei confronti delle varie proposte politiche, spesso accompagnate da espressioni sarcastiche, se non da veri e propri insulti. Fa parte del gioco: lo streaming videoludico è un servizio complesso, e necessita di una personalità esuberante perché si possa acchiappare una grande massa. È capitato che, in uno degli streaming, abbia criticato R. D. Wolff, un economista americano di orientamento marxista tra i più rinomati. Una critica che ha sollevato tanto interesse da portare addirittura lo stesso Wolff a una discussione con Destiny su YouTube, moderata da un canale terzo, The Serfs.

Questi episodi sono un simbolo non trascurabile del fatto che, alla pari della radio, poi della televisione e infine del cinema, anche i videogiochi, alla mercé della società dei consumi, sono un modo di comunicare della vulgata ideologica. Non è dunque più possibile pensare il videogiocare come una sterile forma di intrattenimento priva di significato e perciò «Chi ne rivendica la natura apolitica [...] è ingenuo oppure in mala fede». D'altronde, è rinomato nella comunità videoludica l'episodio dell'acquisto da parte di Barack Obama, nel corso della sua campagna elettorale del 2008, di un banner pubblicitario nel videogioco di corsa Burnout Paradise, a riprova che il videogioco è una cosa seria e ha ormai rotto gli argini circoscritti del momento ludico.

Non ci si può più nascondere dietro un riduzionismo ormai pericoloso: il videogioco mainstream ha ben che oltrepassato la sua natura ludica, elevandosi a una situazione che indica attivamente la soggettività, la coinvolge e ne tenta un riposizionamento, in questo caso, ideologico. L'intrattenimento videoludico di massa è quindi un alibi oltre il quale ha sede l'ennesimo tentativo speculatorio di usare un oggetto di consumo per la mediazione di contenuti ideologici. Per tutte queste motivazioni, è impossibile esimersi da uno studio attento del mercato dei videogiochi mainstream in quanto esso, alla pari degli altri mercati legati al consumo di massa, veicola idee interiorizzate silenziosamente, e così muove le coscienze del mondo. Questo per dire nuovamente che – non solo per quanto abbiamo discusso – il videogioco è una cosa seria.

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Questo articolo è parte della serie:  Recensioni
Globale - 2023
Pensiero
Simone Santamato

è autore per la rivista Scenari di Mimesis Edizioni, scrive per l'Einaudi Blog della Fondazione Einaudi occupandosi dell'etichetta Filosofia. Studia Filosofia presso l'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro".

Pubblicato:
08-02-2023
Ultima modifica:
07-02-2023
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