«LLa casa è al centro di una contraddizione insanabile: spazio fisico dell’abitare, di cura e di riproduzione sociale da una parte; merce, investimento e prodotto finanziario dall’altra».
Sarah Gainsforth, ricercatrice indipendente e giornalista freelance, ha scritto un libro fondamentale, Abitare stanca. La casa: un racconto politico (effequ, 2022), in cui opera una vera e propria genealogia del concetto di ‘casa’, concetto-oggetto che abbiamo forse bisogno di rimettere a fuoco nella sua ambivalenza: ovvero che la casa dovrebbe essere la prima condizione per abitare il mondo e muoversi in esso, ma è anche, sempre di più, una merce; e, in quanto merce, ha perso via via l’aspetto di un diritto da garantire a tutti e tutte.
In questo senso, il testo di Gainsforth, che si muove tra saggistica, analisi storica, reportage, racconto personale e familiare, non rinuncia a prendere una posizione critica rispetto tanto alla lacunosa situazione odierna delle politiche abitative quanto alla grottesca gestione dello spazio pubblico.
Si va dalla Roma dei giorni nostri dove è di stanza l’autrice, e poi i fili della trama si dipanano verso l’America, terra natìa paterna; si indugia sull’Irlanda, patria materna; e viene trattato profusamente, poi, il Regno Unito di epoca thatcheriana, la culla delle prime e incisive politiche abitative neoliberiste: «La promozione della proprietà di massa è stata il fulcro della rivoluzione conservatrice che ha cancellato le politiche abitative del Secondo dopoguerra e la loro visione universalistica».
Ho fatto una chiacchierata con l’autrice secondo uno schema che definirei per cerchi concentrici, partendo dal rapporto tra pubblico e privato nello spazio della città, passando dai nodi della precarietà lavorativa e abitativa, per arrivare a parlare della provincia e del suo significato sociale.
Sono tre nuclei di curiosità che desideravo esplorare insieme a Gainsforth, a partire dal cuore del suo testo fino ad arrivare a questioni tangenziali che non sono direttamente presenti nel libro ma ne rappresentano un ideale prolungamento, per un ripensamento profondo del modo in cui abitiamo e viviamo.
Silvia Gola - Inizio con il dire che, per deformazione professionale, mi piacerebbe andare subito un po’ sul concettuale, senza con questo sminuire la parte di reportage e storia familiare.
Mi piacerebbe parlare con te della triangolazione che esiste tra ‘pubblico’, ‘privato’ e ‘privatizzato’: penso ai vari Jova Beach Party, ai tornelli a Venezia, a Piazza Santo Spirito a Firenze, ai dehors dei bar di Bologna, solo per fare alcuni esempi noti.
Quello che mi sembra accada sul suolo cittadino è una continua tensione tra ciò che è pubblico e ciò che di volta in volta viene rosicchiato dal privato e quindi, come esito del processo, “privatizzato”, (ma, speriamo, non in modo irreversibile).
Come si ridisegna, tra queste tre dimensioni, lo spazio che abitiamo in comune?
Sarah Gainsforth - Per risponderti, partirei da un esempio concreto: poco tempo fa, io e altre persone abbiamo preso una multa sedendoci sulla scala di Trinità dei Monti a Roma, dove è vietato sedersi dal 2019, anno in cui è entrato in vigore il Regolamento di polizia urbana.
Secondo questa logica, lo spazio pubblico, che per definizione è lo spazio dell’imprevedibile, viene perimetrato in zone rosse in cui non si vogliono più comportamenti imprevedibili, liberi, che non siano cioè votati al consumo, addirittura trasformando l’atto di sedersi su dei gradini in una minaccia alla sicurezza pubblica o all’integrità del monumento. Comportamenti innocui vengono a essere inquadrati come problemi di ordine pubblico. E questa è una prima parte del problema.
La seconda è che molti dei luoghi a noi interdetti si possono prendere in affitto e destinarli a eventi privati, per poche migliaia di euro. Ma la ciliegina sulla torta è che oggi sempre di più queste operazioni di privatizzazione dello spazio pubblico, che avvengono spesso in nome del decoro, vengono presentate come atti di “restituzione” alla cittadinanza.
La privatizzazione, raccontata come mecenatismo, è appropriazione predatoria del suolo pubblico da parte di privati. Sarebbero occasioni di far cassa per il pubblico, ma a leggere i dati non è neanche così. I canoni e le tariffe per le occupazioni di suolo pubblico, per i tavolini o per gli eventi privati, sono bassissimi, a fronte di ingenti guadagni.
È indubbio che lo svuotamento, l’indebolimento, il definanziamento del pubblico, in atto dagli anni Novanta in poi, sia a livello di personale nella Pubblica Amministrazione sia di fondi, ha indebolito tantissimo l’apparato statale a tutti i livelli, ed è indubbio che al momento non ci sia più una visione di cosa il pubblico debba (tornare a) essere, al di là del suo ruolo di facilitatore di interessi privati che, sbagliando, si pensa sempre potrebbero favorire un cosiddetto effetto trickle-down rispetto ai territori e alle realtà in cui si inseriscono. Spoiler: non succede mai.
Secondo me è importante oggi recuperare l’idea del ‘pubblico’ come risultato delle lotte e delle rivendicazioni. Penso alle lotte per la salute negli anni Settanta e a gruppi come Medicina Democratica: è facile ricostruire come queste spinte siano state la base per cambiamenti importanti, riforme nel campo del welfare, così come per l’applicazione delle leggi sulla sicurezza e sulla salute nei luoghi di lavoro, ecc.
Ad oggi, spesso, ‘pubblico’ viene equiparato a ‘controllo’, e lo Stato viene visto simile a un Moloch, mentre credo ci sia bisogno di recuperare l’idea che il pubblico è (o almeno dovrebbe essere) il risultato delle lotte e della partecipazione che agisce a una scala piccola, a partire da esperienze di autorganizzazione e dagli enti di prossimità (come potevano essere, in passato, i consigli di quartiere o i consigli di fabbrica), e che salendo dovrebbe informare le varie scale di una macchina amministrativa nutrita di fondi. Questo per me è il tema cruciale. Il fatto che ci troviamo in una fase di picco di sfiducia nelle istituzioni e di assenza di partecipazione (basta guardare i dati sull’astensionismo) mentre dall’altra fioriscono “politiche generative” e iniziative di sussidiarietà, fa riflettere.
Il problema, a mio avviso, è che se non si mette in discussione il fatto che lo Stato e le istituzioni sono diventati “sussidiari” al mercato – nel mio libro racconto questo processo per quanto riguarda le politiche abitative –, e che la partecipazione è stata ridotta a orpello, a meccanismo di legittimazione del mercato, ecco, senza questo passaggio essere “sussidiari” allo Stato – un’entità svuotata di partecipazione e forse di democrazia – oggi significa essere di fatto sussidiari al mercato.
Silvia Gola - Mi è molto vicina l’idea che ogni pezzetto in più che viene “strappato” nello scacchiere dei diritti è grazie a un comparto sociale che si muove per ottenerlo.
Mi chiedevo, poi, se non sia utile trattare ogni ‘privato’ come un ‘privatizzato’, almeno in senso lato; con uno sguardo ampio sulle cose, appare chiaro che ciò che del pubblico diventa ‘privato’ (le concessioni balneari, Ponte Vecchio affittato per una cena di Montezemolo, una piazza chiusa per dare spazio a un evento a pagamento, etc.) è sempre il risultato di scelte politiche.
Sarah Gainsforth - Nel libro ho voluto mettere in discussione il concetto di proprietà proprio per questo, per interrogare la funzione della proprietà privata: sono voluta partire da un punto di vista radicale perché mi rendo conto che bisogna ribadire una serie di cose che andrebbero date per scontate (ma che invece, ahimè, non lo sono), tipo che privatizzare significa sempre privare. Poi, una volta che la cosa viene acquisita a livello di retorica e di immaginario, e si è riusciti a intaccare l’ideologia proprietaria, si arriva necessariamente a doversi (pre-)occupare del livello concreto delle politiche pubbliche, e nella pragmatica della politica io credo siano possibili soluzioni diverse che stiano in equilibrio tra pubblico e privato.
Silvia Gola - Mi sembra di capire bene quello che intendi: solo a partire da una ricostruzione genealogica, e dunque radicale in senso etimologico, si hanno occhi nuovi per guardare a cose vecchie.
Sarah Gainsforth - Ripeto: secondo me l’idea che la proprietà privata sia un diritto va messa in discussione; semmai, infatti, è una concessione. È il pubblico che concede, ovvero noi come collettività e non lo Stato-Moloch astratto che non mi riguarda, ovvero un concetto di ‘pubblico’ che dovremmo recuperare e di cui parlavamo poco fa.
Sulla falsariga di questo, c’è l’enorme questione della rendita, poi, ovvero che la rendita è una costruzione collettiva di cui però si avvantaggia il privato.
Il valore dell’immobile che affaccia sul Colosseo deriva dal Colosseo stesso, che è un bene collettivo di interesse storico-culturale: dovrebbe essere ragionevole che il vantaggio economico di cui gode il proprietario che fruisce di questo vantaggio economico subisca una forma di redistribuzione di un beneficio accordatogli collettivamente. La casa è diventata un investimento, ma il valore di quell’investimento deriva dal contesto, che è collettivo – il fatto che una casa abbia un certo valore al Colosseo e un altro valore altrove, dove non c’è nessun Colosseo, deriva da questo. A questo proposito, ci vorrebbero politiche e misure fiscali differenziate territorialmente, ma in Italia siamo ancora lontani dal metterle in atto, anche perché non si riesce a parlare in maniera razionale di rendita e di tassazione.
A livello storico, ciò che mi ha colpito maggiormente rispetto ai dati che ho utilizzato (ed è un discorso che vale soprattutto per l’Italia), è che sembra che siamo alla chiusura di un cerchio rispetto all’egemonia culturale della proprietà, che è un fenomeno di fine Ottocento.
È come se tutto il ciclo di politiche pubbliche abitative si fosse consumato e fosse tornata l’ideologia proprietaria, un ritorno rinvigorito dalle diseguaglianze. Ma sbaglieremmo se pensassimo che è sempre stato così, e in questo senso sconvolge pensare al punto in cui siamo adesso, ovvero immersi nella restaurazione di questa ideologia che promuove l’interesse di pochissimi e che fa aumentare i divari tra le fasce sociali, presentando lo status quo come dato naturale.
Silvia Gola - Per questo secondo cerchio, vorrei partire dal capitolo 11 (“Uno strumento per rompere la classe”), ovvero dall’analisi della casa di proprietà utilizzata dai governi, tra gli anni Settanta e Ottanta, a mo’ di dispositivo individualizzante per sedare le tensioni sociali: «[…] se hai una proprietà da difendere, a cui badare, per cui ti sei indebitata, sarà molto più difficile andare a protestare».
“Abitare stanca” ma non dimentichiamoci che anche “Lavorare stanca”: così come, a partire dagli anni Ottanta, la proprietà privata ha indebolito la possibilità delle rivendicazioni legate all’abitare e non solo, la precarietà (lavorativa, abitativa, esistenziale) di oggi, quel sentirsi mancare la terra sotto i piedi che è una fatica continua, non sembra avvicinarci però alla rivoluzione, ma anzi ci toglie le energie per ripensare il modo di stare insieme nella collettività.
In secondo luogo, anche se sembra una domanda un po’ provocatoria, ti vorrei chiedere cosa ne pensi del contemporaneo comunitarismo abitativo: xenofamiglie, social housing, convivenza con coinquilini, etc.
La mia idea è che, a volte, la retorica che accompagna queste realtà sia mistificatoria: si parla del “bello della convivenza” e delle meraviglie della “famiglia scelta”, ma si fanno meno i conti con le condizioni materiali sottostanti.
In un Paese in cui la casa costa troppo e il lavoro quando c’è è povero, mi viene da dire che nel racconto di questi paradigmi l’elemento di mancata emancipazione economica andrebbe perlomeno messo a tema. Vorrei sapere cosa ne pensi tu.
Sarah Gainsforth - Vado per punti. Rispetto alla precarietà e al mondo del lavoro disastrato, noi stiamo vivendo oggi esattamente la conseguenza della frammentazione della società. I due momenti storici sono collegati: le politiche à la Thatcher hanno funzionato – anche se non ce ne rendiamo conto –, perché hanno rotto le lotte e ci hanno individualizzati, hanno atomizzato la società; ecco, io credo che la situazione attuale abbia le proprie radici anche in quelle politiche.
Ad oggi, in molti casi, non esiste neanche più un luogo fisico di lavoro dove incontrarsi e organizzare le proteste, e quello che ci propongono le politiche, orientate dal mercato, è un “ognuno per sé”. Viviamo le macerie di quello che è successo nel mondo negli ultimi 40-50 anni.
Esistono dei termini tabù che, però, vanno risignificati per continuare a far capire come mai siamo arrivati a questa situazione (che quindi è un fatto storico, con delle cause precise, e non un dato naturale), e uno di questi, il più fondamentale, è ‘neoliberismo’.
Sul tema delle relazioni, permettimi prima di tutto una battuta: ogni volta che sento termini come “co-housing”, “co-working”, etc. mi pare sempre una fregatura.
Parlando seriamente: anche la narrazione di Airbnb si è, fin dai primordi, imperniata sulla bellezza della condivisione di appartamenti, quando la verità è che siamo costretti a condividere perché così costa meno, e raccontare il contrario getta fumo negli occhi.
Personalmente, io vivo da sola per un colpo di fortuna, ma conosco miei coetanei, o anche persone più grandi di 50-60 anni, costrette dalle circostanze a condividere appartamenti o abitazioni. Dovremmo chiederci se è normale questo modo di abitare, se è ‘normale’ essere obbligati vivere così.
Rimango convinta del fatto che lo spazio delle relazioni sia lo spazio pubblico; ci siamo un po’ troppo abituati all’idea che tutto debba succedere dentro casa – dal cinema che diventa Netflix al mangiare al ristorante che diventa Deliveroo –, mentre un tempo la vita si svolgeva molto più fuori dal perimetro domestico.
Il problema è che lo spazio pubblico facilita sempre meno questa “pubblicità” dei rapporti e sembra che la soluzione sia rifugiarsi in casa, quasi un parallelismo con quell’“ognuno per sé” che investe spesso la condizione lavorativa contemporanea.
Dove dovremmo stare, incontrarci, far succedere le cose, se non nello spazio pubblico? Tutte cose che sembrano sempre più difficili, forse perché non c’è più l’idea che la società – lo Stato – debba interessarsi di che cosa ci spinge fuori casa, nello spazio pubblico.
Per come la vedo io, si dovrebbe parlare molto di più di abitare, senza dimenticarsi però di tutto quello che c’è fuori dalle nostre case, e della dimensione di esse, perché le case non stanno quasi mai in piedi da sole. Per tornare alla tua domanda, la casa può essere sì il nido delle relazioni, che sono un tassello fondamentale del benessere umano, ma il vero spazio delle relazioni è quello pubblico. Per questo sono sempre un po’ perplessa quando si insiste così tanto sulla virtù del vivere in regime di coinquilinaggio quando la verità è che dovremmo avere l’indipendenza economica a garanzia della libertà di scegliere una cosa piuttosto che un’altra.
Silvia Gola - Il terzo nucleo delle domande, come annunciato, è quasi un punto di fuga rispetto al tuo testo, o meglio, riguarda un non detto che rimane ai margini dell’analisi: parlo della provincia e, quindi, immancabilmente, della diade “città-provincia”.
Le città sono lo spazio del conflitto e dell’imprevedibile, ma tutto sommato parliamo di una manciata di comuni, mentre tutto il resto di Italia è uno sterminato paesaggio di provincia. Il numero di città medie e piccole è più alto che nel resto d’Europa, e in percentuale la provincia rappresenta più del 50% della popolazione italiana.
Ho letto questo articolo, che è poi l’estratto di un libro, Riabitare l’Italia, nel quale si parla del processo di trasformazione dei paesi in borghi, nel senso che il turismo, alla fin fine, investe e ricopre tutte le dimensioni.
A questo proposito, in quale modo possono stare in relazioni i centri urbani con le aree periferiche, guardando la cornice nel suo insieme, e dismettendo una visione puntiforme?
Sarah Gainsforth - C’è, ormai da diversi anni, da parte delle piccole città e delle aree interne, questo forte processo di imitazione dei centri urbani per godere del flusso turistico in transito. È un processo imposto dall’alto, che è forse dovuto anche all’egemonia di narrazioni che nascono e crescono lontano, nelle città. I piccoli centri cercano di rincorrere in modo forsennato la visibilità di cui godono le città più grandi, e si offrono dal punto di vista turistico come vetrine decentrate e “spontanee”, come luoghi di autenticità da opporsi al modello urbano – ma la verità è che sono schiacciate allo stesso modo dalle logiche del turismo di massa.
Il libro che citavi (Riabitare l’Italia, curato da F. Barbera, A. De Rossi e D. Cersosimo, editore Donzelli) inizia proprio con l’invito a una nuova rappresentazione del territorio, una rappresentazione che non sia urbano-centrica (e quindi neanche l’opposto, ovvero ‘borgo-centrica’), ma semplicemente più realistica.
Ad oggi, rispetto a questi temi, si parla di policentrismo, perché i legami tra la dimensione urbana e quella periferica sono innegabili: guardare solo la città e concentrarsi su un pezzetto per volta, senza tenere in conto le specifiche del territorio intorno, è una grossa stupidaggine.
Direi che il tema che accomuna tutti gli insediamenti, dal piccolo al grande – con tutto quello che c’è in mezzo e che non viene mai visto mai come i “paesi brutti” – è la domanda fondante: “Cosa ci vuole per abitare?”, che si declina in modi diversi a seconda del posto di cui (e da cui) si sta parlando.
Certo, la città dall’area interna può reimparare il valore della prossimità, come abbiamo avuto modo di vedere durante i mesi più duri della pandemia da Covid-19, momento in cui è tornato di moda il borgo in contrapposizione alla città, e con esso uno stile di vita legato al maggiore accesso al verde, a case più grandi, a tempi più rilassati e rapporti più umani. Così la città, a differenza delle aree interne, offre i servizi pubblici necessari all’abitare. Ma non ha senso opporre città e ‘borghi’, perché non ha più senso una visione limitata, puntiforme, isolata, del territorio. Bisogna guardare a cosa sta nel mezzo, ai rapporti e all’interdipendenza dei processi territoriali, a diverse scale. Quella di Riabitare l’Italia, in questo senso, è una visione ecologista.
Gran parte dello sforzo profuso nel mio libro, alla fine, è per ribadire che il tema dell’abitare non si può ridurre all’oggetto-casa, cioè al manufatto edilizio; i luoghi, per essere abitati e abitabili, hanno bisogno di tutta una serie di condizioni oggettive e sociali che travalicano il perimetro domestico, sia che si parli del centro storico cittadino spopolato dal turismo sia che si tratti invece di luoghi che si vedono impoverire in risorse e infrastrutture per il solo fatto di essere più periferici.
La turistificazione riguarda tutti, a tutti i livelli: le città sono sempre più uguali le une alle altre, spadroneggiano le stesse grandi catene da Palermo a Milano, e i piccoli centri rincorrono quel tipo di turismo modi-e-fuggi che può portare ricchezza a pochi, non a molti.
In questo senso, dal circuito mortifero di un turismo solo predatorio, sembrano salvarsi i paesi brutti (la “Bruttitalia”), dove sembrerebbe esserci maggiore spontaneità proprio perché vengono a mancare i flussi massivi turistici in cerca dell’experience su misura.
In definitiva, quindi, direi che c’è una domanda urgente, fondante, che riguarda tutti e tutte, dalla città alla provincia: “Cosa serve per abitare?”. Che, poi, non è altro che domandarsi in modo collettivo e politico: “Cosa ci serve per abitare bene?”.
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Merce domestica