Un'altra autobiografia del dolore - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Corsia
Corsia | Copyright: Cory Mogk / Unsplash

Un'altra autobiografia del dolore

Chi dice che del cancro non si parla né scrive abbastanza mente. E lo fa per una ragione. Recensione di "Non morire", di Anne Boyer.

Corsia | Copyright: Cory Mogk / Unsplash
Silvia Gola

lavora nell'ambito della comunicazione. Fa parte di Acta, per cui svolge una ricerca su audiovisivo ed editoria in merito al mercato del lavoro.

Il cancro è la battuta di arresto della vita come la si conosceva e taglia il nastro inaugurale del resto dell’esistenza: uno “strappo vitale, svolta minacciosa che apre un’altra via, inattesa, imprevista e buia”, al contrario di come sembra accadere altrove: “Nella maggior parte dei casi le vite seguono il loro corso come i fiumi”, nelle parole di Catherine Malabou – Ontologia dell’accidente (Meltemi, 2019).

Come vale anche per altre patologie caratterizzate da un alto gradiente simbolico, ci sono modi diversi di affrontare il cancro, e ognuno di questi risponde a una diversa cognizione del rapporto io-mondo-malattia.

Schematizzando molto – ma con la speranza che ciò non sia in modo indebito –, il cancro si può avere e basta, informandosi secondo le proprie volontà e i propri strumenti; o può succedere di viverlo e descriverlo come la propria “battaglia”, e affidare così il proprio pensiero alla retorica bellica ancora largamente imperante in questo campo – un nascondimento semantico che ha cominciato a decostruire Susan Sontag nel saggio fondamentale Malattia come metafora.

O ancora, il cancro può avviare una “detonazione della denotazione” che, calembour a parte, significa dissodare il linguaggio implicito e falsamente neutro della malattia, azione possibile solo da parte di chi ha le chiavi del privilegio epistemologico di vivere appieno la vita della mente.

E tuttavia chi dice che del cancro non si parla né scrive abbastanza mente. E mente per una ragione: perché vuole raccontare la sua di malattia, forse per lasciare traccia di sé oltre l’assillo della mortalità o per la credenza che il proprio vissuto sia in ogni caso unico e irripetibile.   

Forse è sulla scia di entrambe queste pulsioni che Anne Boyer scrive il suo The Undying, memoir autobiografico che le è valso il Premio Pulitzer 2020 nella categoria General nonfiction (Non morire nella traduzione italiana di Viola Di Grado per “La Nave di Teseo”).

È il 2014 quando Boyer, poetessa e saggista 41enne che si guadagna da vivere insegnando, madre single che vive con sua figlia nella periferia di Kansas City in un piccolo appartamento, scopre di avere dentro di sé un carcinoma mammario triplo-negativo che cresce quattro volte più velocemente della soglia solitamente considerata come “altamente aggressivo”.

Boyer passerà attraverso un trattamento di chemioterapia a “dose-dense”, poi cambierà medico e si sottoporrà a un controverso trattamento chemio che dovrebbe attaccare il suo particolare sottotipo di cancro, e finirà il percorso con una doppia mastectomia, operazione che in America è considerata al pari di una procedura di routine.
Il giorno dopo, infatti, appena sveglia dall’anestesia, un’infermiera la inviterà a lasciare il posto letto:

“Dopo l’operazione, le dimissioni mi parvero premature e violente […]. Ma nessuno ti chiede mai come farai non appena ti dimettono forzatamente dal centro chirurgico – chi hai, se hai qualcuno, che si prenda cura di te, […]” (p. 141).
Lei farà sì con la testa e se ne andrà, con ancora quattro drenaggi che le pendono dal busto.

Tra padiglioni del cancro, contenuti di vlogger che dispensano conforto, cure dalla dubbia efficacia, il mondo patinato ma marcio delle raccolte di beneficenza, gli amici amorevoli, la brandizzazione dietro il fiocco rosa, le dubbie azioni della Susan G. Komen Breast Cancer Foundation che capitalizza il chiacchiericcio pubblico sul cancro, il punto di vista di Boyer sulla malattia non si arresta mai alla desolazione psichica e alla tristezza per la propria condizione, ma analizza minuziosamente il dipanarsi linguistico e ontologico del cancro nella società di oggi.

“Immobilizzata a letto, decido di dedicare la mia vita a far sì che la risposta socialmente accettabile alla notizia della diagnosi di tumore mammario non sia il correttivo “Sii positiva” […]” (p. 120).

La saggista si inserisce in quel filone americano culturalista di riflessione sul cancro, e le autrici che ricoprono il ruolo di “trittico di consolidamento” vengono esibite nero su bianco nelle prime pagine di Non morire: sono Susan Sontag con il già citato Malattia come metafora (1978), Audre Lorde con The Cancer Journals (1980), autobiografia che ha rimodulato il modo di vivere il cancro al seno – in un passo Lorde si domanda: “I have cancer, I am a black feminist poet. How am I going to do this now?” (Ho il cancro, sono una poetessa femminista nera. Come farò ora?); e anche Kathy Acker, autrice di The Gift of Disease (1996), articolo uscito sul Guardian in cui la donna lamentava la perdita di fiducia nelle cure convenzionali per il cancro.

Rispetto a questa ultima, Boyer riporta come il modo “peculiarmente diretto” di Acker nell’aver fronteggiato la malattia le sia servito a organizzare il suo pensiero davanti alla stessa condizione.

Per fronteggiare il cancro al seno, Acker si era messa in testa di cercare cosa l’avesse causato: voleva afferrare il significato, esercitare un controllo almeno linguistico su questo corpo impazzito che si stava procurando da solo i mezzi per distruggersi. Come scrive Chris Kraus, la biografa ufficiale di Acker: “Meaning, to Acker, had always meant power. It was a protection against chaos and failure.”

Lo stesso vale per Boyer: il saper-dire, il saper-individuare con chirurgica precisione i contorni della vicenda è il viatico per non perdersi anzitempo dentro la malattia e la sua narrazione dominante.

Forte, quindi, di questa vicinanza sororale, il memoir lirico e arrabbiato di Boyer scende fino al punto di massima vulnerabilità e autenticità, ovvero nel momento in cui si confronta con la sua “possibilità più propria” secondo la lingua heideggeriana, la morte: “Scrivere solo di se stessi magari è scrivere di morte, ma scrivere di morte è scrivere di tutti” (p. 17).

Lo fa con un linguaggio scientemente denotativo atto a operare un distacco netto ed esibito rispetto a chi sceglie di far fruttare la malattia in termini di piccola epica personale, o chi intraprende la scelta di impreziosire la casualità della malattia rendendola teleologia, destino.

Ma il linguaggio che voglia fare fronte al dolore temibile e paradossale del cancro – “Volevo raccontare il dolore senza filosofia. Volevo descrivere un’educazione al dolore e il suo utilizzo politico. Ma in letteratura il dolore per lo più esclude la letteratura” (p. 192) – rende il testo anche un luogo in cui la parola si invola verso il lirismo e necessariamente si spezza.

Un luogo dove l’aforisma, o frase breve, passa dalla sua funzione di padroneggiare una saggezza fatta di poche sillabe all’essere sintomo della sincope che affligge una mente stanca che si trascina dietro una mano sfibrata dalla chemio.

È l’esperienza stessa del cancro a spezzare e ridisegnare i tempi verbali: passato, presente e futuro non valgono più come tali, perché la malattia potrebbe affondare le radici in un passato remoto, e potrebbe non solo esserci in futuro, ma essere il concetto stesso di futuro. I fili della cronologia di noi stessi non più lineari vengono sempre e di continuo sfrangiati da un’Atropo sempre all’erta.

Ma si continua a scrivere nonostante tutto perché questo Evento: “[…] che taglia il filo di una vita in due o in più segmenti che non troveranno più riconciliazione, possiede quindi una propria fenomenologia che reclama di essere scritta” (C. Malabou, 2019).

Quello di Boyer è il punto di vista di chi ha superato la malattia e ha potuto ristabilire un orizzonte di senso libero da essa, sebbene la stesura degli appunti inizi quando ancora Boyer non ha la consapevolezza di farcela.

In questo senso il libro quasi speculare di Non morire è Morire di Cory Taylor (il Saggiatore, 2019), scrittrice australiana che, quando inizia a scrivere, è a conoscenza dello stadio terminale del suo cancro al cervello: sa che nel giro di poco tempo morirà e per questo si è procurata un farmaco cinese per praticare l’eutanasia prima che sia troppo tardi per morire come vuole lei. Taylor vuole sì lasciare una testimonianza ma la forza narrativa non risiede nella disamina della morte che sta per sopraggiungere quanto della vita che è sul punto di lasciare il suo corpo sempre più martoriato.

Boyer sopravvive al suo cancro, sebbene ‘sopravvissuta’ sia un sostantivo che nel testo compare in modo avversativo, perché per Boyer esso è sia uno dei molti escamotage linguistici per coprire la realtà del cancro e continuare a vivere dentro la metafora, sia perché: “Solo una tipologia di pazienti è ammessa al paesaggio rosato della consapevolezza: i sopravvissuti. Ai vincitori va il bottino narrativo. […]” (p. 16).

Più in generale, continuare con l’universo semantico fatto di “sopravvissuti”, “eroine”, “combattenti”, “guerra”, “nemico” non fa altro che aumentare il senso di responsabilità individuale per evadere le colpe strutturali del governo, dell’establishment medico, dell’industria farmaceutica, dell’inquinamento prodotto dalle corporation globali.

“Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti” (p. 182).

A “sopravvissuta” l’autrice preferisce il più discreto “undying” (“La non morente” sarebbe la traduzione letterale del titolo inglese), che dà la misura del “mondo com’è” al netto di retorica: lo stesso mondo dove solo in America di cancro al seno muoiono ogni anno 40mila donne.

E se queste sono le condizioni di realtà, è per questo motivo che il monopolio del paradigma intimista-monadico deve estinguersi e accettare altri linguaggi: se il cancro è politico nella dimensione di descrizione del mondo – in quanto patologia dalla diffusione amplissima –, allora, in senso prescrittivo, esso deve essere anche vissuto e analizzato come tale, dal momento che “Chi muore e chi no del complesso di patologie chiamato “cancro al seno” lo determina lo stipendio, l’istruzione, il sesso, lo stato familiare, l’accesso alle cure, la razza, l’età” (p. 174).

 Al contrario, nella forma dell’autobiografia del dolore, dove è permessa “la massima possibilità epistemologica”, la narrazione preponderante intorno al cancro sembra essere sempre stata quella della persona malata e sola in modo donchisciottesco davanti al mostro da combattere, o delle eroine solitarie che devono vincere la battaglia contro il nemico insidiato nel proprio corpo.

Nell’ipotetico rapporto io-mondo-malattia, il secondo viene eliminato in virtù di una maggiore aderenza tra “io” e “cancro”.

Anne Boyer invece trae la sua forza dal non sapersi sola e, anzi, la sua più grande paura – la paura per la quale il libro esiste – sembra essere quella di non saper dire la malattia in modo comunitario; la paura di arrendersi a un’identità monodimensionale e rinchiudersi nel proprio piccolo orticello; la paura di dire ‘io’ invece che ‘noi’ perché il potere individuante della malattia è fortissimo, una forza irresistibile che risiede nel suo potere auto-deittico: io so chi sono attraverso il mio essere malato.

“L’eziologia industriale del cancro al seno, la storia e la pratica misogina e razzista della medicina, l’incredibile macchina del profitto del capitalismo, la distribuzione iniqua di sofferenza e morte secondo classi sociali sono omesse dalla forma letteraria standard di questa malattia” (p. 17).

Non per assecondare una generica postura marxista – ovvero sostenere che il modo di produzione della vita materiale condiziona e determina la sovrastruttura («il processo sociale, politico e spirituale della vita») – ma mi ritrovo tra le mani un quesito, forse ozioso per i più e che mi conduce verso la fine delle mie considerazioni.

Ciò che mi chiedo è se la dimensione politica di “Non morire” sia resa possibile dalle condizioni di ineguale accesso alla sanità americana, ovvero se il “sentimento del politico” intorno al cancro possa essere il grimaldello cognitivo di chi esperisce la disuguaglianza sulla propria pelle e nella sua vita.

Per poter dire questo dovremmo essere d’accordo, in via preliminare, sul concepire il “sentimento del politico” come la possibilità che si dà attraverso frattura tra il reale dell’ingiustizia e l’ideale della giustizia, l’intercapedine che fa da tramite tra il “mondo com’è” e la sua variante prescrittiva. Un senso di rivolta continua contro lo status quo.

Il libro di Boyer è possibile attraverso la convinzione che il cancro riguardi la società e non l’individuo: “Il cancro è visto come una sofferenza speciale, ma non c’è niente di audace nel patire l’inevitabilità del nostro comune incidente” (p. 120).

Come pure il testo è attraversato dalla volontà di sottrarre alla malattia il suo subdolo potere simbolico e “sradicante”: il potere di far sentire il malato unico, speciale, isolato, disinnescato come individuo e concepibile, da sé e dagli altri, unicamente come malato.

Boyer racconta infatti che durante il periodo della malattia le venivano spesso recapitati libri da parte di amici e amiche “[…] in cui la madre che muore di cancro, molto magra e pallida, è paragonata a una lunga lista di bellezze magre e pallide. Nessuno di questi componimenti è di scarsa qualità, ma sono tutti imperdonabili” (p. 109), mentre era molto più raro trovare “un libro in cui una donna con il cancro è se stessa, una persona completa e complessa e parlante” (p. 115).

La malattia non è sempre utile, ma dentro quello che sembra un destino ci si può trovare quella che sembra una verità buona per sé: “[…] nonostante tutte queste perdite avevo scoperto di essere ancora me stessa, spinta un danno dopo l’altro nella versione intensificata di me. Come se la perdita fosse, nell’essenza umana, ciò che infine ci rende reali” (p. 255); che sia anche sempre una verità dallo sguardo lungo gettato in avanti fino a quegli “Altri” che continuano a esistere e a costituire l’essenziale interstizio tra l’“io” e la “malattia”:

“Che sollievo non essere stati protetti, scoprivo, e non essere una persona sottile o delicata la cui esperienza interiore è fatta solo di gusto e sentimento garbato, che sollievo non collezionare microscopiche ferite come fossero ingiurie fatali mentre il resto del mondo non fa che sanguinare per davvero” (p 262).

Hai letto:  Un'altra autobiografia del dolore
Questo articolo è parte della serie:  Recensioni
USA - 2021
Societá
Silvia Gola

lavora nell'ambito della comunicazione. Fa parte di Acta, per cui svolge una ricerca su audiovisivo ed editoria in merito al mercato del lavoro.

Pubblicato:
22-07-2021
Ultima modifica:
21-07-2021
;