Body check - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Eating a cake
Eating a cake | Copyright: Photo and Share CC / Flickr

Body check

Tra obesità, gender gap e impatto sociale

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Alessandro Isidoro Re

scrive di tecnologia e filosofia per varie riviste tra cui L’indiscreto e Linkiesta. È tra i curatori di Milano Digital Week e fondatore di Social Innovators, associazione impegnata nella divulgazione di temi e progetti legati all'innovazione sociale.

Francesca Monica Colombo

è psicologa clinica ed esperta di disturbi alimentari. Si occupa del trattamento di coppie in situazioni ad elevata conflittualità attraverso l’uso della mediazione famigliare e coordinazione genitoriale. È inoltre tutor per ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento come dislessia e discalculia. Vive a Milano.

È risaputo che l’obesità sia un fenomeno sempre più dilagante sia nel nostro paese che nel mondo e che affligga in modi diversi ragazzi e adulti. Quello che è meno risaputo o scarsamente preso in considerazione, è la complessità del fenomeno e dei fattori implicati. Quindi, che cos’è l’obesità? Tutti ne parlano, tutti si riempiono la bocca con termini di cui spesso non conoscono neanche il significato e li applicano a casaccio senza pensare alle conseguenze che un determinato commento possa provocare (“quell’obes*”; “sei obes*?”), cerchiamo di capire un po’ di che cosa parliamo allora.


Un po’ di teoria… 

Occorre partire da una questione molto tecnica, ma necessaria per parlare di obesità: il BMI (Body Mass Index) cioè l’espressione numerica del rapporto tra peso ed altezza, quest’ultima elevato al quadrato. Per essere definiti “normo-peso” il BMI non dovrebbe superare il punteggio di 24, la condizione di “sovrappeso” va da 25 a 30 e il punteggio può ulteriormente salire fino ad incontrare l’obesità (da 30 fino a 40). 

Bene, ora numericamente parlando sappiamo che cosa sia l’obesità…abbiamo finito? Direi che abbiamo appena cominciato. L’obesità è una condizione multi fattoriale che non può essere ridotta al solo valore numerico del BMI, essa infatti è determinata da una concomitanza di cause: si parla non solo di inadeguata attività fisica combinata con una sovra alimentazione, ma anche di fattori genetici (quali obesità dei genitori), fattori ambientali (livello socio economico basso che porta ad acquistare cibi calorici a basso costo e livello socio culturale medio-basso in cui vi è una scarsa conoscenza circa le componenti nutritive di cui gli alimenti sono dotati) e fattori psicologici (ansia, depressione e disturbi della condotta alimentare). Vorrei porre particolare attenzione proprio sui fattori psicologici che possono provocare o esacerbare la condizione di obesità. 

Cosa accade alle donne?

Non è chiaro se insorga prima l’obesità o prima i disturbi depressivi/ansiosi, quello che però emerge è che solitamente nelle donne la condizione di obesità può precedere il disturbo depressivo [1].

Come si può spiegare ciò? In teoria, se ci troviamo in una condizione di obesità, dovremmo in un secondo momento sviluppare un disturbo depressivo a causa della nostra condizione - e a volte succede così, ma più spesso accade ben altro: l’investimento di una donna sul proprio corpo (e le aspettative che la società ripone sullo stesso) è solitamente maggiore rispetto ad un uomo.

Una donna, quando si vede ingrassata sente addosso un carico di stress estremamente elevato: la società condanna il corpo “grasso”. Non è questo lo standard di bellezza che viene promosso, non è questo che appare sulle riviste di moda e non è di certo questo che viene pubblicizzato sui social network, in particolare su Instagram. L’era della digitalizzazione ci ha avvicinati sempre più, ci ha consentito di rimanere vicini anche se distanti e connessi continuamente con persone anche da parti opposte del mondo. Ma con quale immagine? Che messaggio si passa a chi è distante da noi? Sempre e comunque l’idea di essere migliori in qualcosa, che sia il posto in cui ci troviamo, le cose che stiamo facendo e anche (soprattutto) la nostra stessa forma fisica. Su Instagram non viene “postata” l’immagine di una donna dimessa con qualche chilo in più che nella sua piccola casa di periferia veste i bambini per andare a scuola; piuttosto, verrà pubblicata l’immagine di una madre giovane, curata nell’aspetto che nel suo spazioso appartamento prepara una sana merenda ai figli che stanno per andare a scuola.

L’autostima della gente viene innalzata a suon di like e di follower che aumentano, gli apprezzamenti si possono manifestare solo attraverso un cuore rosso e le persone si conoscono tramite social network che mostrano prevalentemente solo una parte della realtà, per di più distorta. Non è difficile capire come sia indispensabile passare un’immagine di sé perfetta in tutti i sensi. I social trasmettono in continuazione due messaggi principali: felicità e perfezione, due ideali utopici che quasi sempre non è possibile raggiungere (o perlomeno non al 100%) ma che è fondamentale mostrare agli altri per trarre il proprio valore dal numero di notifiche che vediamo apparire sulla schermata del cellulare. Dove si colloca un disturbo alimentare in tutto questo? Che posto può trovare un’imperfezione, un disagio… una debolezza?

In un panorama di questo tipo il controllo ossessivo del cibo non può che insinuarsi nella mente, farsi largo tra i pensieri e diventare ogni giorno più invadente perché il peso delle aspettative comincia ad essere insopportabile. L’idea di dover raggiungere a tutti i costi quell’ideale di perfezione, che viene propinato in continuazione e in tutti i modi possibili, diventa l’obiettivo di vita di moltissime donne ed è proprio così che la depressione comincia piano piano a comparire.

Lentamente la donna sente di deludere non solo gli altri, ma anche sé stessa, sente di non essere all’altezza delle altre, di non essere abbastanza bella, di non avere il medesimo valore e pensa che qualsiasi sforzo farà per potersi migliorare sarà inutile perché tanto non porterà a nulla. La depressione insidiosamente inizia a farsi largo tra i pensieri quotidiani e giorno dopo giorno prende il sopravvento: la donna con obesità comincia ad auto colpevolizzarsi, a non avere più una motivazione per cambiare e per migliorarsi.

Clinicamente, la depressione viene definita come una condizione che può alterare il normale funzionamento del soggetto andando ad interessare le azioni quotidiane quali, prima di tutto, mangiare e dormire. Le modalità con cui le persone reagiscono alla depressione sono diverse e più confacenti alle peculiarità di ciascuno, chi dorme eccessivamente o chi non dorme affatto, chi mangia di più e chi non mangia per niente.

Tornando al nostro focus, una donna che soffre di obesità si sente diversa dalle altre, sente di non avere lo stesso valore, di non poter competere con loro, comincia a vergognarsi e a voler colmare questa differenza in diversi modi: diete estreme, esercizio fisico incessante, tentativi di espulsione di cibi eccessivamente calorici che provocano sensi di colpa e anche sperimentazioni di nuove tecniche per ritrovare il piacere del “mangiare consapevole” come il cosiddetto mindful-eating. Tutto ciò, senza volerlo fare per stare effettivamente meglio con sé stesse, bensì solamente per essere “uguali” a tutte le altre.

Ma perché la differenza fa così tanta paura? Perché la società ci vuole omologate ad un unico stereotipo con lo stesso peso, le stesse misure, le stesse forme e dimensioni, perché noi stesse vogliamo aderire a questi canoni e non possiamo accettarci uniche con le nostre peculiarità e con qualche chilo in più? Perché siamo nate e cresciute in una società che non ci ha insegnato questo, che non ha promosso questo tipo di bellezza e di conseguenza la donna che non corrisponde a questi standard di magrezza, finirà con il credere di non avere alcun controllo sulla propria vita, alcun valore e di non poter essere felice.

Il buco nero della depressione può inghiottire queste persone e non far vedere alcuna via d’uscita: spesso accade che l’unica modalità per fronteggiare una frustrazione tanto grande, sia proprio riempiere il proprio vuoto attraverso il cibo. Sembra paradossale ma la donna che vuole con tutta sé stessa dimagrire ed “essere come le altre”, si appiglierà proprio al cibo come prima consolazione. Questo accade perché dimagrire significa cambiarsi, modificarsi e in alcuni casi migliorarsi: se si desidera perdere peso per sentirsi meglio con sé stessi ciò implica volersi bene. La donna che sente di doverlo fare solo per essere accettata e solo per sentirsi uguale alle altre, non si vuole affatto bene, non lo fa per sé stessa e quindi spesso avrà come unico desiderio inconscio quello di auto distruggersi mangiando ancora di più perché tanto sa che non raggiungerà mai il suo obiettivo e allora “tanto vale abbuffarsi”. In tutto ciò, naturalmente, il peso non potrà far altro che aumentare provocando un circolo vizioso obesità-depressione da cui non sarà semplice uscire.

Tokyo, 2015.

Tokyo, 2015. | Ken Walton / Flickr


Il ruolo del cibo

Ritornando al discorso precedente - il cibo come riempimento del proprio vuoto”, quasi una reificazione dell’horror vacui - è importante tenere presente che latto di mangiare è una delle prime cose che impariamo a fare e che ci viene insegnata da piccoli. La prima cosa che una madre fa per prendersi cura del proprio figlio è nutrirlo: in questo modo può garantirgli la vita e la sopravvivenza. Ma c’è dellaltro.

Spesso un genitore tende a nutrire il proprio figlio non solo perché questultimo ne ha la reale necessità, ma anche per il piacere di farlo e soddisfare qualche sua voglia nobilmente egoistica (come direbbe l’Aristotele dell’Etica Nicomachea) o semplicemente per coccolarlo. Un cioccolatino dopo una giornata difficile passata a scuola viene vissuto come un premio, un gelato dopo un brutto voto come una consolazione ed è così che il cibo perde il proprio ruolo prettamente nutritivo”, diventando un mediatore relazionale, un mezzo attraverso il quale comunicare.

Così facendo il bambino, diventato ormai adulto, crescerà e vivrà con lidea che un dolce potrà fungere da ricompensa o da consolazione; e non mangerà più solo quando il suo corpo lo richiederà, ma lo farà anche in assenza di tale stimolo, per coccolarsi o farsi compagnia nei momenti difficili.


Corpo non riconosciuto, corpo odiato

Di conseguenza, investite di tutte queste aspettative sociali e di questi pensieri ingombranti, le donne si trovano a dover combattere un nemico, anzi il nemico: il proprio corpo. Corpo che si trasforma negli anni, corpo che cambia, corpo che può essere così odiato per non vere la forma desiderata, da volerlo distruggere a tutti i costi. Esso viene talmente tanto caricato di richieste e obblighi da parte del sociale da non lasciare spazio per altro, da occupare completamente la mente e tutto ciò viene esacerbato dal fatto che le donne sono maggiormente discriminare per la propria forma fisica rispetto agli uomini, facendole sentire ancora più sole in questa lotta infernale immotivata verso sé stesse.

Questo accade in quasi tutti i contesti della vita, da quello scolastico (esclusione sociale) a quello lavorativo (minor possibilità di assunzione) a quello relazionale (elevata difficoltà ad avere legami significativi di natura amicale e/o amorosa). 

Grab.

Grab. | Christy Mckenna / Flickr


Interiorizzare lo stigma: definizione e conseguenze

Non è difficile credere che la discriminazione verso le persone con obesità sia elevata e che comprometta significativamente la qualità di vita delle stesse. In particolare, a livello psicologico molte sono le implicazioni che questo tipo di discriminazione porta con sè, prima fra tutte l’interiorizzazione dello stigma.
Interiorizzare lo stigma significa applicare a sè stessi un auto disprezzo, un’auto svalutazione, sentire propri i commenti e le attribuzioni negativi ricevute dal sociale e credere di meritarli [2].

Numerosi autori [3] hanno studiato come l’aver interiorizzato lo stigma provochi numerose conseguenze negative dal punto di vista sia fisico che psicologico. I principali costrutti che sono risultati correlati al costrutto di interesse sono: depressione, diminuzione dell’autostima e comparsa di Binge Eating Disorder. Per quanto riguarda la depressione Pearl, While & Grilo (2014) evidenziano che più il soggetto sente propri gli attributi negativi ricevuti, più sarà propenso a sviluppare depressione e vi sarà una conseguente diminuzione dell’autostima.

Invece, relativamente alla comparsa di Binge Eating Disorder (BED) è bene definire questo disturbo della condotta alimentare come caratterizzato prima di tutto dall’assunzione di una quantità notevole di cibo in un lasso di tempo relativamente breve, e poi dalla sensazione di perdere il controllo durante l’episodio.

Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) definisce così il BED e si può quindi parlare di una vera e propria “grande abbuffata” tale per cui il soggetto, a seguito di emozioni negative, riempie i propri vuoti e la propria insoddisfazione con il cibo oltre la sua soglia di sazietà, perdendo il controllo delle sue azioni [4]. Da ciò ne consegue che il suo peso corporeo possa aumentare in relazione ad episodi di questo tipo ed una ricerca ha inoltre riportato che l’introiezione dello stigma corporeo potrebbe essere associata a un aumento del comportamento di “abbuffata” e alla successiva diagnosi di BED [5], portando così ad una relazione circolare fra interiorizzazione dello stigma e Binge Eating.

Si può quindi affermare che aver interiorizzato lo stigma vada ad accompagnare tutte le variabili in oggetto: quanto più la discriminazione è stata interiorizzata dal soggetto, tanto maggiore è la presenza di depressione, riduzione dell’autostima e comparsa di Binge Eating Disorder.

Poste queste condizioni e tratte queste conclusioni, diventa chiaro comprendere l’obesità come un fenomeno multifattoriale e che non può essere definito unicamente da variabili numeriche: esso, infatti, merita di essere studiato e compreso nella sua globalità. I soggetti che sono stati lungamente discriminati per la loro conformazione fisica, hanno interiorizzato tali discriminazioni e questo ha avuto delle ripercussioni importanti sia dal punto di vista fisico che psichico.

 
Il ruolo della società

Attualmente una delle cause maggiori che provoca la comparsa o l’esacerbazione dei disturbi alimentari, è proprio la società odierna.
A livello culturale, in occidente, un corpo magro e aderente a determinati standard di bellezza risulta più apprezzabile e desiderabile di un altro più “in carne” - ma la domanda è: “perché tutto questo?”. Una ricerca del ’94 (Crespi) sottolinea in modo puntuale e preciso come la donna nel corso della storia abbia combattuto per raggiungere l’indipendenza, la parità di genere, il riconoscimento dei propri diritti e lottato per non essere più ridotta al ruolo di “massaia”.

Questo è stato certamente un grande passo avanti per la figura femminile e numerose rivoluzioni femministe ne sono la dimostrazione, ma sembra che per essere una donna indipendente, attiva dal punto di vista lavorativo e soprattutto con diritti pari a quelli di un uomo, quest’ultima debba “meritarselo” in tutti i sensi. Debba dare prova cioè del proprio valore, della propria intelligenza, della propria impeccabilità e del proprio controllo; quest’ultimo ha la sua manifestazione più eclatante proprio nella forma fisica.

Già nel 1990 si evidenziò [6] come, durante un processo di assunzione, venissero privilegiate le candidate più attraenti dal punto di vista fisico e come le persone con obesità non solo non rientrassero affatto in tale categoria, ma venissero anche etichettate come incompetenti, lassiste e con minor voglia di fare rispetto alle altre. In una parola, perdenti.

Il “sociale” modella il modo che abbiamo di percepire il nostro corpo: più una donna sente che determinati appellativi e attributi le vengono conferiti e più viene giudicata in base alla forma e al peso del proprio corpo, più a sua volta lo farà su di sé e il suo valore la determinerà in base al numero che appare sulla bilancia o alla taglia che indossa; ecco che così nasce il rischio di sviluppare un disturbo alimentare.


Prospettive future

Che cosa fare in merito? Guardando il fenomeno secondo un’ottica prospettica, sarebbe estremamente utile cominciare ad attuare delle campagne preventive per arginare il fenomeno, partendo prima di tutto dalle scuole.

Già nel 1998 Cramer e Steinwert documentarono che la nascita del pregiudizio basato sul peso si manifestasse molto precocemente in bambini di 3/5 anni e che questi ultimi giudicassero un bambino sovrappeso come compagno di giochi meno desiderabile degli altri. I pregiudizi che nascono nell’infanzia si consolidano nell’età adulta e possono così influenzare il comportamento relazionale del soggetto per tutta la vita: un contesto familiare e amicale che incoraggiano la messa in atto di discriminazioni, pregiudizi e stereotipi, determinano il medesimo atteggiamento futuro.

Pertanto, è necessario agire precocemente sensibilizzando i più giovani sulla tematica, informandoli delle conseguenze negative che la discriminazione porta con sé. Questa potrebbe essere un’ottima modalità per far comprendere fin da subito la gravità di azioni di questo tipo e le ricadute negative sia dal punto di vista fisico che psichico, cominciando così a entrare in un’ottica diversa per quanto riguarda la considerazione dell’immagine corporea.

Proprio all’interno delle scuole si potrebbero inoltre organizzare delle attività teatrali che abbiano come scopo il riconoscimento del proprio corpo, l’apprezzamento e la valorizzazione di quest’ultimo, attività molto importanti soprattutto tra gli adolescenti che attraversano una fase di vita delicata - che interessa proprio il cambiamento e la trasformazione corporea.

Il futuro potrebbe peggiorare dal punto di vista dei disturbi alimentari se non si fa nulla in merito, se si continua a pubblicizzare un unico ideale estetico, se il messaggio che passa è che magrezza e successo siano l’uno il sinonimo dell’altro; le campagne di sensibilizzazione non vanno fatte solo nelle scuole, ma anche in città. manifestazioni, mostre d’arte, spettacoli teatrali, presentazione di libri, racconti di esperienze comuni dovrebbero tutte essere attività da cominciare a promuovere nelle grandi città e nei social network, per far nascere movimenti che si basino sulla “Body Positivity e Body Acceptance”.

Solo dando voce a chi crede in questa trasformazione e alla generazione futura si può cominciare a pensare di “scardinare” l’immagine stereotipata di bellezza attuale che elimina le peculiarità irriducibili di ciascun soggetto, omologa tutti i corpi a un unico ideale e riduce le persone a oggetti il cui unico valore sembra derivare dalla forma e dal peso corporeo - lasciando in secondo piano tutti gli altri fattori fondamentali che concorrono a definire il soggetto non per quello che appare ma per quello che è: unico.



Note

[1] Jhonson e al. 2004.

[2] Durso e Latner, 2008.

[3] Puhl e Brownell, 2001; Durso e Latner, 2008; Carles e colleghi, 2010.

[4] Reas & Grilo, 2007.

[5] Friedman, Ashmore & Applegate, 2008.

[6] Rothblum e colleghi.

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Alessandro Isidoro Re

scrive di tecnologia e filosofia per varie riviste tra cui L’indiscreto e Linkiesta. È tra i curatori di Milano Digital Week e fondatore di Social Innovators, associazione impegnata nella divulgazione di temi e progetti legati all'innovazione sociale.

Francesca Monica Colombo

è psicologa clinica ed esperta di disturbi alimentari. Si occupa del trattamento di coppie in situazioni ad elevata conflittualità attraverso l’uso della mediazione famigliare e coordinazione genitoriale. È inoltre tutor per ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento come dislessia e discalculia. Vive a Milano.

Pubblicato:
28-12-2020
Ultima modifica:
28-12-2020
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