Lamento per il Po - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Lamento per il Po

Sconvolgimenti climatici che portano siccità ed esondazioni. Un'intera economia alle corde. Ritratto di un fiume e dei suoi mali presenti.

Paolo Morelli

è un giornalista. Ha scritto per La Stampa e collabora attualmente con il Corriere della Sera. Si occupa di tematiche culturali, politica e cronaca. 

«GGli affluenti del Po sono ai minimi storici, così l’agricoltura soffre». Così titolava La Gazzetta di Modena il 10 settembre, dando voce all’allarme dei coltivatori. L’Agenzia Dire, pochi giorni dopo, ha scritto che i mesi estivi del 2021 sono stati i più aridi dal 1961 e che il Po, in media, porta il 30% di acqua in meno rispetto alle medie stagionali. Un problema che riguarda tutta la Pianura Padana, con percentuali variabili a seconda dell’area geografica. Ci sono, tuttavia, dei casi eclatanti. Andando più a monte, a Torino, dove il Po riveste un’importanza storica e culturale non da poco, si può addirittura «camminare» nel letto del fiume, come ha documentato La Stampa il 24 settembre. I servizi giornalistici sono parecchi e addirittura Repubblica, con una ricca testimonianza fotografica, ha scritto il 22 settembre che «la siccità si è portata via il Po». Anche la montagna non è rimasta immune da questi problemi, perché il 10 settembre ha chiuso in anticipo il rifugio Monviso, come riporta Ansa, a poca distanza dalle sorgenti del Po, in Piemonte, per mancanza di acqua: non ce n’era a sufficienza per alimentare i generatori di corrente. Poco dopo altri rifugi piemontesi hanno seguito lo stesso destino.

Ogni anno, del resto, arrivano reportage giornalistici sul Po che «sparisce» letteralmente, soprattutto a monte di Torino, nel tratto cuneese, e anche a valle, fra il Piemonte e la Lombardia. Ma tutto il corso del Po, che sulle mappe appare come una lunga linea azzurra e continua, sembra essere nella realtà una linea tratteggiata. Nella prima metà di settembre, sempre a Torino, i cittadini hanno assistito a una moria di pesci nei pressi della Diga del Pascolo, una struttura situata a nord della città, dove il fiume entra nella vicina San Mauro per poi dirigersi verso la provincia di Vercelli. In un comunicato, Arpa Piemonte, l’agenzia regionale per la protezione ambientale, ha affermato che l’evento è «un effetto della siccità, che ha interrotto i corridoi d’acqua necessari ai pesci per seguire i flussi, contringendoli in piccole pozze le cui dimensioni si sono via via ridotte». L’aspetto più preoccupante è che nelle aree del Basso Piemonte, sempre secondo Arpa, il deficit medio di acqua è stato, ad agosto, superiore all’80%. È il terzo agosto più secco degli ultimi sessant’anni per l’intero Piemonte. Un dato che somiglia molto a quello dell’Emilia Romagna. Anche la Lombardia non è messa meglio e già a marzo, come riportava Fanpage, Coldiretti lanciava un «allarme siccità».

Insomma, dove è finito il Po? La questione ambientale si intreccia a tematiche culturali. Il fiume più lungo d’Italia, oltre ad aver letteralmente costruito la Pianura Padana ha anche sostenuto lo sviluppo industriale – e di conseguenza l’inquinamento – dell’area più industrializzata d’Italia. Il Po ispirava i Greci nella loro mitologia – la pianura è uno dei teatri delle Fatiche di Eracle – mentre esiste una leggenda che lega la fondazione di Torino alla mitologia egizia, assimiliando il Po al fiume Eridano (Eschilo, tuttavia, lo identificò con il Rodano). L’agricoltura, del resto, si è sviluppata lungo i corsi d’acqua e il fiume padano ha assorbito su di sé, e sui suoi affluenti, il peso delle coltivazioni. Fra le infrastrutture promosse da Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri dell’allora Regno di Sardegna, spiccano ad esempio i canali, che sono serviti a distribuire le acque in territori normalmente non bagnati – o non a sufficienza – dai fiumi. È noto il celebre «Canale Cavour», terminato nel 1866 dopo la morte dello statista, che da Chivasso (10 km a nord-est di Torino) raccoglie l’acqua del Po per trasportarla fino a Galliate, piccolo comune della Provincia di Novara, ben 83km più a nord. Un intervento che contribuì allo sviluppo delle risaie nel Vercellese e nel Novarese, dove la produzione di riso è ancora oggi fra i principali interessi commerciali.

Se da un lato le cronache, oggi, informano regolarmente sulla siccità, ogni anno sempre più preoccupante, dall’altro si riempiono anche degli sconvoglimenti climatici nelle stagioni più piovose. Il Basso Piemonte, che ora patisce per i fiumi in secca, solo lo scorso anno è stato sconvolto dalle inondazioni. Garessio, cittadina del Cuneese a pochi passi dalla Liguria, è stata letteralmente attraversata dalla violenza dell’acqua. Era il 2 ottobre 2020 e la città, come ha documentato Local Team, era praticamente ricoperta di fango. Negli stessi giorni anche la Val Roja, che da Limone Piemonte (Cn) scende verso Ventimiglia (Im) attraversando la Francia, è stata stravolta dall’alluvione. Il tunnel del Col di Tenda è tuttora chiuso e lo sarà per un paio d’anni, tanto ci vorrà perché torni tutto alla «normalità». Proprio mentre scriviamo, Arpa Piemonte lancia una «allerta gialla» per avvisare dell’arrivo di perturbazioni e del conseguente rischio idrogeologico. Quindi l’acqua c’è o non c’è?

Negli ultimi anni, questi scompensi nelle precipitazioni si sono verificati sempre più spesso. A periodi in cui l’acqua scarseggia – senza considerare lo scioglimento dei ghiacciai – sono seguiti fenomeni violenti in cui di acqua ne è arrivata fin troppa e tutta insieme. È evidente che, in attesa di poter in qualche modo rallentare il cambiamento climatico, sia necessario cambiare il rapporto con l’acqua. Da tempo, Coldiretti, ma non solo, chiede la realizzazione di invasi per trattenere le precipitazioni in eccesso e utilizzare le riserve nei mesi più caldi. Se ne parla, però, soltanto quando l’acqua manca. Servono dighe, serbatoi, acquedotti. Per questo Smat, la società delle acque di Torino, progetta un maxi intervento da 120 milioni di euro per fare arrivare l’acqua dalle dighe di Ceresole Reale e Locana (a nord della provincia torinese, verso la Valle d’Aosta) alle città più a sud, come Ivrea. «L’Italia – ha avvisato Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti Piemonte, in un’intervista al Corriere Torino – riesce a stoccare solo l’11% dell’acqua piovana». Inoltre i bacini sarebbero dei potenziali giacimenti di energia idroelettrica, tema d’interesse per le compagnie energetiche.

Lo scorso 22 marzo, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, Legambiente ha presentato un report sulla gestione della risorsa idrica in Italia. L’associazione ha ripreso i dati dell’Oms, secondo i quali il nostro paese utilizza il 30-35% delle risorse idriche rinnovabili con un incremento del 6% ogni 10 anni. Questo dato, unito alla siccità, mette a dura prova l’approvvigionamento. Quando si parla di gestione dell’acqua non si intende soltanto ciò che esce dal rubinetto di casa, ma soprattutto coltivazioni, allevamenti e industrie, settori che di risorsa idrica ne utilizzano moltissima. Il problema è estremamente complesso perché riguarda interi comparti produttivi, ma è soprattutto di difficile comprensione perché l’acqua, in un Paese come l’Italia, è spesso data per scontata. Questa percezione aumenta nelle zone più ricche di questo «tesoro», come la Pianura Padana, dove la siccità sembra una chimera, un qualcosa da relegare nel Mezzogiorno o nelle aree desertiche del mondo. Invece è estremamente presente fra le città in cui viviamo.

Le immagini di Torino hanno per la prima volta colpito la cittadinanza perché il Po, in effetti, a tratti non si vedeva più. I primi ad accorgersene, naturalmente, sono stati canottieri dei club remieri che abitualmente solcano il corso d’acqua per allenarsi. Eppure, come dicevamo, già in passato il Po «spariva», ma lo faceva fuori città, fuori dall’attenzione della collettività e dei media. Di fatto, ciò che arriva a Torino o nelle altre città della pianura, non è più, idealmente, l’acqua che sgorga dal Monviso, ma ciò che arriva da qualche affluente ancora abbastanza forte. Cambiare il rapporto con l’acqua significa prima di tutto capire che è un bene finito, anche se prima o poi – come potrebbe accadere in questi giorni – pioverà. È un segno inequivocabile del cambiamento climatico già avvenuto e in via di peggioramento.

Nel 2019, a Parma, è stato firmato un Protocollo d’Intesa tra l’Autorità di Bacino Distrettuale del Fiume Po, 17 Università del Distretto Idrografico e due centri di ricerca per arrivare, fra le altre cose, «al miglioramento delle conoscenze e della qualità di vita della comunità e dei cittadini». Nel comunicato si legge anche un dato importante: il bacino del Po coinvolge otto regioni, per un territorio che ospita quasi 20 milioni di abitanti, il 37% della produzione industriale nazionale, il 55% dell’industria zootecnica, il 35% dell’industria agricola e il 55% della produzione idroelettrica. Di fatto, un terzo degli italiani «dipende», in qualche modo, dal Po e dai suoi affluenti, per non parlare – ma sarebbe troppo complesso quantificarlo – di quante persone beneficino della produzione industriale ed energetica della Pianura Padana. Del resto c’è un motivo se questa è l’area più inquinata d’Italia e fra le più mal messe, dal punto di vista della qualità dell’aria, in tutta Europa.

Proprio l’Autorità di Bacino Distrettuale del Po fa ora parte di un progetto guidato dal Politecnico di Milano, chiamato «Movida», che intende valutare un diverso approccio ai fenomeni alluvionali. Nell’operazione ci sono anche 20 università e il Cnr. Come ha spiegato al Corriere della Sera il professor Francesco Ballio del Politecnico di Milano, «la società deve ormai adattarsi all’ambiente in continuo mutamento passando da un’opera tecnica (come l’utilizzo di argini per incanalare i fiumi, ndr) a una condivisione ampia dei problemi, identificando una varietà di soluzioni per mitigare gli impatti sulla comunità». Si tratta del primo progetto di questo genere a livello europeo e nasce, a ben vedere, proprio nella Pianura Padana. È un cambiamento di atteggiamento. In effetti ricercatori e agricoltori invocano da tempo, a titolo diverso, una concezione più attuale del nostro rapporto con l’acqua. Il Po è sparito, quello che vediamo non è più il «Grande fiume», ma qualcosa di incomprensibile, di difficile interpretazione, che va governato con mezzi differenti rispetto al passato, perché il passaggio dalla siccità alle inondazioni nel giro di pochi mesi è qualcosa di nuovo anche per noi.

Hai letto:  Lamento per il Po
Questo articolo è parte della serie:  Nuovo paesaggio europeo
Italia - 2021
Societá
Paolo Morelli

è un giornalista. Ha scritto per La Stampa e collabora attualmente con il Corriere della Sera. Si occupa di tematiche culturali, politica e cronaca. 

Pubblicato:
06-10-2021
Ultima modifica:
08-10-2021
;