Creatività non umana - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Immagine generata con MidJourney
Immagine generata con MidJourney | Copyright: Dennis Sylvester Hurd / Flickr

Creatività non umana

L'arte dall’Intelligenza Artificiale all’Immaginazione Aumentata.

Immagine generata con MidJourney | Copyright: Dennis Sylvester Hurd / Flickr
Gregorio Magini

(1980) è nato a Firenze. Ha pubblicato i romanzi In territorio nemico (Scrittura industriale collettiva, Minimum Fax, 2013) e Cometa (Neo Edizioni, 2018). Scrive di libri nella sua Nicchia.

Alcune riflessioni sull’esplosione di generatori text-to-image (TTI) nati negli ultimi mesi come DALL•E 2, MidJourney, Stable Diffusion e altri. Le opinioni sono mie ma le ho elaborate in una serie di scambi con Fabrizio Ajello, Lorenzo Ceccotti, Andrea Colamedici, Francesco D’Isa, Silvia Dal Dosso, Gianluca Didino, Massimiliano Geraci, Vanni Santoni e Valentina Tanni. Ringrazio tutte/i e chiedo loro perdono per avergli rubato molti prompt.

Quando nel 2017 vidi le prime immagini generate apparentemente ex nihilo da reti neurali (vi ricordate? quei ghirigori di cani e pagode che faceva Deep Dream?), mi chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto per arrivare a dei generatori precisi, versatili e usabili da un utente comune. Abbiamo la risposta: cinque anni.

Una nuova versione dello Stagno delle ninfee di Monet

Una nuova versione dello Stagno delle ninfee di Monet | MidJourney

Adesso che sono fra noi e milioni di persone li stanno sperimentando in tutti i modi pensabili e impensabili, le domande sulle loro implicazioni, conseguenze e possibili evoluzioni si moltiplicano di pari passo. Cercherò di esplorarne alcune usando come trampolino di lancio l’eccellente articolo di Francesco D’Isa su Il Tascabile, che ha avuto il merito di dare il via a un dibattito fondamentale, fornendo al tempo stesso una presentazione accessibile di questi nuovi strumenti (a chi non sa come funzionano i TTI, consiglio di leggere prima quello e poi tornare qui). Riassumo le posizioni di D’Isa che condivido.

Prima di tutto, sì: i programmi TTI saranno una rivoluzione paragonabile come portata all’avvento della fotografia o della grafica digitale. Non è una questione di se, ma di come e di quando (presto).

In secondo luogo, ha fatto benissimo a rigettare l’idea sbagliata che i TTI “fanno tutto da soli”. Sono invece strumenti che richiedono una competenza specifica. Aggiungo un elemento che D’Isa non ha reso esplicito ma sicuramente condivide: fra tutti gli usi possibili di questi programmi, la presentazione diretta di immagini generate come opere compiute sarà marginale. Ben più ampio sarà il loro uso come materiali grezzi da rielaborare per illustrazioni, fumetti, modelli 3D, storyboard, e così via. Anche per questo l’eliminazione dell’intervento umano non è all’orizzonte.

Infine, ha giustamente sollevato problematiche importanti come l’avvicinarsi del momento in cui realizzare deepfake sarà banale, i limiti imposti dalla censura delle piattaforme, i grossi consumi energetici e la concentrazione in poche mani private della potenza di calcolo necessaria.

In sintesi, ciò che condividiamo, oltre all’entusiasmo personale per queste nuove tecnologie, è la convinzione che una reazione di pancia al loro avvento – pur comprensibile data l’entità dei cambiamenti all’orizzonte – non solo impedisce di capirne la natura e le possibili applicazioni, ma anche di valutare i loro rischi reali.

Alcune delle tesi di D’Isa tuttavia non mi convincono, e proverò a spiegare perché, nella speranza che un approfondimento del dibattito possa essere utile a tutti. D’Isa sviluppa le sue argomentazioni attorno a due domande: “l’arte con le IA è vera arte?” e “le IA sono co-autori o strumenti?” e su entrambe le sue risposte mi trovo in parziale disaccordo, nel primo caso perché, presentando una versione banalizzata di certe reazioni alle innovazioni tecniche, finisce per fraintenderle e non cogliere il punto profondo della questione; nel secondo perché a mio parere sottovaluta la novità delle IA rispetto a ciò che li ha preceduti.

(Una nota sul termine ombrello “Intelligenza Artificiale”: lo uso a malincuore e solo in mancanza di meglio, perché è fonte di infiniti fraintendimenti. Nell’immaginario collettivo si è affermata l’idea fantascientifica ma priva di riscontro nella realtà che una IA sa fare tutto, è anche cosciente o senziente, dotata di intenzioni proprie e della possibilità pratica di attuarle. I programmi esistenti possono essere chiamati “intelligenti” solo nel senso molto ristretto che risolvono algoritmicamente specifici problemi cognitivi.)

 

1. L’impatto delle IA sulle industrie delle arti visive

“L’arte con le IA è vera arte?” D’Isa risponde con un netto sì, sostenendo che ci troviamo davanti a un ricorso storico: l’ennesimo caso in cui l’introduzione di un nuovo strumento per fare arte genera una temporanea – e presto perdente – reazione avversa basata su idee preconcette. Allo stesso modo in cui Baudelaire rifiutò la fotografia in nome dello spirito, oggi abbiamo chi rifiuta i TTI in nome dell’intervento umano. Ma questi critici, sostiene D’Isa, soffrono semplicemente di mancanza di immaginazione, come dimostrano i grandi risultati ottenuti in seguito con i nuovi strumenti.

Anche io ritengo che l’arte con le IA “è vera arte”, anzi dirò di più: trovo che sia una domanda del tutto assurda. Conosco persone che ritengono arte solo ciò che è fatto a mano, ma considero questi atteggiamenti dei banali errori categoriali: scambiano ciò che piace a loro – ed è più che legittimo amare solo i dipinti a olio e trovare ripugnante tutto ciò che è fatto di pixel – con l’arte in generale. Mi sembra che non ci sia altro da aggiungere. D’Isa, che ha più pazienza di me, si è dato la pena di rilevare due aspetti dell’arte “in generale” che rimangono inalterati con le IA: gli strumenti determinano certo il tipo di arte che ci si può fare, ma non, come mille volte ha dimostrato la storia, la sua possibilità; fare arte con le IA è altrettanto difficile che farla con i pennelli, e i possibili risultati altrettanto vari.

Nella sua argomentazione però D’Isa va a prendere come esempi due autori, Baudelaire e Walter Benjamin, che sull’argomento hanno da dire cose molto più interessanti di quanto lui faccia sembrare.

Lascio da parte Benjamin rimandando a questa risposta di Antonio Dini e muovo una osservazione preliminare: Baudelaire certamente paventava qualcosa, ma non si preoccupava di sostenere che la fotografia “non potesse dar luogo a opere d’arte”. Ciò che temeva, era che i pittori, spinti dai gusti di un pubblico ammaliato da una certa fotografia espressa dall’industria fotografica del momento, dimenticassero che la pittura non è “riproduzione esatta della natura” ma “dominio dell’impalpabile e dell’immaginario”. È curioso che Baudelaire, amico di Nadar e di Manet, iniziatore della concezione moderna dell’arte e autore di saggi che pochi anni più tardi sarebbero stati considerati quasi alla stregua di manifesti dal movimento impressionista, sia qui finito a fare la parte del retrogrado. Sappiamo che l’impressionismo trasse molte delle sue innovazioni formali e contenutistiche dalla fotografia (ma non dal tipo di fotografia disprezzato da Baudelaire, che scimmiottava la pittura e il teatro). C’è qualcosa che non quadra.

“Baudelaire fotografato da Nadar” non sembra molto contento di essere finito in un deepfake.

“Baudelaire fotografato da Nadar” non sembra molto contento di essere finito in un deepfake.

Possiamo avere un assaggio della complessità della posizione di Baudelaire, che è poi la complessità della situazione di tutta l’arte successiva, andando a rileggere le prime pagine di Il pittore nell’arte moderna: “Il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è oltremodo difficile da determinare, e di un elemento relativo, occasionale, che sarà, se si preferisce, volta a volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione.” L’industria fotografica del 1860 è volgare perché si affida completamente al secondo elemento, l’occasionale, la “sorpresa” data dagli effetti di verosimiglianza (spacciandolo, fra l’altro, per il primo, nel momento in cui lo idolatra come “natura”). Ma l’arte senza l’effimero, il gusto del presente, per Baudelaire, è parimenti “indigeribile”.

Se traduciamo il linguaggio desueto (“il bello”, “l’eterno”, “la passione”) in uno più adatto a noi, dobbiamo riconoscere che questa è una concezione dell’arte che oggi molti troverebbero quasi ovvia: ha valore artistico ciò che si immerge nel presente e al tempo stesso si distingue dall’infinità di altri oggetti simili. Certo nessuno più direbbe che in generale “facendo irruzione nell’arte, l’industria ne diviene la nemica piú mortale”, perché non c’è più da molto tempo alcun luogo in cui l’industria non abbia fatto irruzione. Inoltre, abbiamo assistito al fiorire di molte arti industriali dove, almeno in certi momenti, i due termini si sono potenziati a vicenda. Eppure, quando ci mettiamo a spiegare perché giudichiamo un’opera superiore alle altre, diciamo sempre le stesse due cose: che è innovativa – cioè sta nel presente e non nel passato come le altre – ed è significativa, ovvero non è solo una ripetizione del passato nel presente come le altre ma rimanda a qualcosa che trascende entrambi.

Non dico queste cose per il gusto di improvvisarmi interprete di Baudelaire. Non ne varrebbe la pena, se fosse solo una questione di fedeltà al suo pensiero. Il punto è che se la storia dell’arte ha sostanzialmente dato ragione al poeta dei Fiori del male, allora certe preoccupazioni estetiche – al di là di un’opinione banalmente disinformata tipo “questa non è arte perché fanno tutto i computer” – non possono essere prese come una forma di limitazione culturale o mancanza di curiosità, ma portano in primo piano sia una consapevolezza storica degna di rispetto, sia una questione fondamentale qui e ora: che cosa diventerà l’arte in un mondo in cui le industrie delle arti visive faranno un uso sistematico delle IA?

Per approcciare la questione, senza alcuna pretesa di trovare una risposta ma solo di dare corpo alla domanda, dobbiamo prima di tutto ampliare lo sguardo, dall’empireo dell’arte come fatto puramente estetico di cui ci siamo occupati finora, all’industria – alle varie industrie – da cui questa Arte con la A maiuscola, come abbiamo visto, allo stesso tempo emerge e si differenzia. Qui la questione dell’avvento delle IA prende una forma ben più inquietante: le IA sostituiranno artisti professionisti (grafici, designer, pubblicitari, ecc.) umani? Non stiamo più pensando a chi le userà in maniera indipendente come strumento puramente creativo, ambito in cui la scelta dello strumento è libera e che vedrà sicuramente una esplosione di appassionati dato l’abbassamento della soglia d’ingresso, ma alla platea enormemente più ampia di chi lavora nelle mille industrie grafiche dove nell’adozione di nuovi strumenti assumono un’importanza fondamentale considerazioni di produttività.

Ripetiamolo ancora una volta: per fare arte con le IA servono artisti competenti. Se ci sarà sostituzione, non sarà in ogni caso una sostituzione completa. Per capire se ci sarà una sostituzione parziale, la domanda corretta è: “le IA porteranno a un aumento della produttività nelle industrie delle arti visive?”. Intuitivamente la questione è semplice: se per produrre una copertina di una rivista senza IA ci vogliono, mettiamo, 6 ore senza IA, e 3 ore con IA, allora metà dei grafici perderà il lavoro, oppure (più realisticamente) si venderanno più copertine a prezzi minori, e i grafici manterranno il posto ma saranno pagati di meno. Non solo: se c’è stato un parziale trasferimento di competenze alle IA, i grafici si troveranno al tempo stesso a non trovare più mercato per quelle competenze, e a dover investire tempo e risorse per imparare a usare le IA. A peggiorare le cose, si aggiunge un’altra possibilità: mentre i timori di un abbassamento del livello qualitativo medio appaiono infondati (basterà attendere qualche mese per veder scomparire molti dei difetti più evidenti che secondo alcuni scettici dimostrano l’eterna supremazia umana sulle macchine), è invece probabile che in certi casi il lavoro artistico diventi qualcosa di routinario e demoralizzante, più simile alla moderazione di contenuti sui social che a qualcosa che si potrebbe remotamente chiamare “creativo”.

Tutto ciò è ben riassunto dall’opinione dell’artista svedese Simon Stålenhag interpellato in una inchiesta di Kotaku: “Credo che l’arte con la IA, come gli NFT, sia una tecnologia che serve solo ad amplificare tutta la merda che odio della condizione artistica in questa distopia capitalista feudale, in cui tutti i nuovi e promettenti strumenti finiscono sempre nelle mani di sfruttatori privi di scrupoli e immaginazione.”

Questi timori sono fondati, e in quale misura? È davvero difficile fare previsioni, ma ci provo lo stesso. Mi proietterò in un futuro prossimo, diciamo tra 3 anni. A differenza di oggi, i TTI del 2025 saranno a) molto più precisi, cioè sarà molto più facile ottenere esattamente il risultato richiesto; b) capaci di generare immagini indistinguibili, almeno a uno sguardo non specialistico, da equivalenti create con tecniche tradizionali; c) molto più vari e diversificati: ci sarà il TTI per il fumetto, quello per i modelli 3D, quello per le pubblicità, e così via – saranno inoltre integrati nei programmi di grafica: potrai aprire Photoshop, selezionare una porzione di una foto, e dirgli “mettici un labrador festoso”; d) affiancati da altri strumenti generativi non testuali: già ora vediamo fare capolino software che completano schizzi fatti a mano, e chissà cosa si nasconde dietro l’angolo.

Si intuisce un panorama assai diseguale, in cui alcune cose saranno ormai completamente automatiche (fermo restando l’intervento umano per selezionare e applicare i risultati), altre vedranno solo un impiego per effetti particolari. Le texture per i materiali nei videogiochi 3D, oppure la colorazione dei fumetti più commerciali, sono buoni candidati del primo caso. Per la pubblicità penso più a un mix di tecniche, per esempio una pubblicità di una borsa potrà avere lo sfondo generato e la borsa, che deve essere proprio quella e non una sua variante immaginaria, fotografata. In alcuni casi l’aumento di produttività potrebbe essere compensato da un incremento degli standard qualitativi: i clienti potrebbero abituarsi a chiedere cinquanta opzioni diverse per un logo invece che dieci. In altri contesti si creeranno mercati stratificati: molti fornitori di stock photo saranno falliti o si saranno convertiti a immagini generate più a buon mercato, ma Getty Images non perderà clienti: pubblicazioni di elite continueranno a commissionare illustrazioni AI-free (naturalmente presentando una affermazione di status come una scelta etica), mentre pubblicazioni più popolari le useranno senza rimorsi. Alcuni ambiti resteranno totalmente immuni, perché troppo di nicchia o perché c’è un valore insostituibile nel loro medium attuale. Per esempio, le cartoline e i selfie turistici. Anche se, nel caso dei selfie, è possibile che si tenti di spacciare una serie di fake per una vera visita al Grand Canyon: i rischi di reputazione sono alti, ma si risparmia un sacco.

Sorgeranno anche industrie completamente nuove. Psicoterapeuti junghiani potrebbero iniziare a usare i TTI per sollecitare l’immaginazione attiva dei pazienti. In un delizioso e malinconico aggiornamento della passione per il ritratto funebre degli albori della fotografia, ho mostrato MidJourney a un signore anziano (che sicuramente non ha mai sentito parlare del film Marjorie Prime), e lui per prima cosa mi ha chiesto di generare un ritratto del suo cane morto – non ha funzionato ma probabilmente nel 2025 funzionerà. Educatori potrebbero iniziare a usarli per stimolare l’apprendimento della scrittura. I videogiochi potrebbero integrare derivati di queste tecniche per creare mondi che si adattano alle scelte dei giocatori in maniera assai più dinamica e profonda. Non abbiamo neanche sfiorato quello che potrebbe succedere con i film e le animazioni. E queste sono solo le prime cose che mi sono venute in mente pensandoci cinque minuti.

Da questo esercizio di immaginazione non possono uscire previsioni per un verso o per l’altro: non siamo in grado di valutare se saranno creati più posti di lavoro di quanti ne saranno distrutti. Le uniche conclusioni che ne possiamo trarre, sono che in ogni caso ci sarà un gran rimescolamento di carte che renderà la vita difficile a molti; che ci sarà, in misura non quantificabile, un trasferimento di risorse dal lavoro creativo al lavoro tecnico; e che chi fa affermazioni categoriche sta giocando a fare l’indovino. Il mio sguardo nella sfera di cristallo – dati i progressi incredibili a cui ho assistito nel giro di pochi mesi – è che un colpo sui redditi e sulle condizioni di lavoro ci sarà e non sarà trascurabile.

Siamo nel regno dei dubbi e delle incognite. Tuttavia, qualsiasi cosa succeda, un punto dovrebbe essere chiaro: che la questione estetica e l’impatto sull’industria non sono affatto separate. A seconda di come si ristrutturerà l’industria, avremo un’arte migliore o peggiore, perché migliori o peggiori saranno le condizioni di lavoro e le occasioni di libertà creativa non solo al suo interno ma anche all’esterno. Una immediata polarizzazione del dibattito tra “l’IA è solo uno strumento nelle mani degli artisti” contro “l’IA distruggerà l’arte rendendo gli artisti meri strumenti nelle sue mani”, che ignora il ruolo fondamentale giocato dai processi produttivi nel plasmare – a volte in sinergia, a volte per contrasto – le forme, i tipi e i generi artistici a cui diamo valore, non permetterebbe di cogliere queste dinamiche.

Ciò che è in ballo è il futuro prestigio sociale di questo nuovo tipo di artista, il che significa, in fondo, discutere su dove va messa e quanto deve essere alta l’asticella che separa chi produce solo content da chi produce arte. In termini più prosaici: decidere al tempo stesso in quale girone dell’inferno memetico dovrà finire il prompter dilettante, quanto dovranno essere pagati i prompter salariati, e quale sarà il prezzo delle rarissime opere che avranno un prezzo maggiore di zero, realizzate da prompter indipendenti.

(Un prompt è il segnale con cui un programma comunica all’utente di essere in attesa di un input testuale. Per estensione, è anche la risposta data dall’utente. Nel caso dei TTI, il prompt è dunque la descrizione dell’immagine richiesta. Si sta diffondendo l’uso di chiamare prompter l’utente che usa i TTI, a volte in senso spregiativo: “Sei solo un prompter, non un artista”.)

Gli artisti che useranno i TTI dovranno imparare a fare una cosa a cui molti non sono abituati: verbalizzare l’immaginazione visiva. Non solo: dovranno farlo parlando con un computer. Siccome io non sono un artista ma uno scrittore, questo è uno degli aspetti che mi affascina di più e ci spenderò qualche parola nel secondo capitolo, dedicato alla questione della IA come strumento.

 

2. L’arte del prompting, ovvero imparare a parlare con i computer

Veniamo alla seconda questione: “le IA sono strumenti o co-autori?”. D’Isa risponde in maniera duplice: da un lato le IA, non essendo autonome, non sono autori ma strumenti come tutti gli altri; dall’altro gli strumenti artistici sono tutti dei co-autori perché hanno una loro autonomia. L’arte, insomma, è sempre stata e sempre sarà il risultato di una “simbiosi generativa tra l’artista e il suo mezzo”.

Nel difendere l’essenziale intervento umano nell’arte generativa, D’Isa a mio parere si è spinto troppo avanti assegnando al nuovo strumento un ruolo troppo passivo. Pensando l’IA come uno strumento fra gli altri si rischia di non coglierne appieno le potenzialità e le criticità. Non c’è alcun dubbio che, come sostiene D’Isa, tutti gli strumenti, dalla pietra scheggiata alla tavoletta grafica, abbiano una loro autonomia: avere il dominio di uno strumento non significa che ci puoi fare quello che ti pare, ma che ci puoi fare tutto ciò che ti consente. Arriviamo a questa competenza integrando lo strumento nei nostri processi cognitivi a forza di tentativi, correzioni, nuovi tentativi. Nel processo, non si amplia solo la nostra conoscenza delle potenzialità dello strumento, ma cambiano anche i nostri desideri, adattandosi organicamente a ciò che via via consideriamo possibile.

Eppure l’IA va al di là di questo. Sarà pure uno strumento, ma è molto più attivo e indipendente di qualsiasi cosa lo abbia preceduto. Le IA non si limitano a opporre resistenza come i pennelli; le IA fanno proposte. Come si dice nelle scienze sociali, è un attore dotato di agency – se non addirittura, come vuole il meme, di una specifica “personalità”. Che gli strumenti siano tutti così semplicemente non corrisponde alla mia esperienza. Se il pennello può sembrare una “bacchetta magica” è solo perché è uno strumento manuale, perciò il suo apprendimento include una forte componente psicomotoria. Con l’abitudine diminuiscono gli sforzi consapevoli di controllo, sempre più delegati a processi routinari non coscienti.

Le diverse “personalità” di DALL•E 2 e MidJourney

Le diverse “personalità” di DALL•E 2 e MidJourney

Fin dai miei primi esperimenti con la scrittura generativa, quando nel 2017 lottavo con le reti neurali nel tentativo largamente fallimentare di scriverci insieme, mi è sempre sembrato ben chiaro un fatto: che l’arte con le IA sarà una impresa collaborativa. Non sei più solo con te stesso, con i tuoi limiti cognitivi, tecnici e morali, ma stai dialogando con un sistema in grado di sorprenderti e di guidarti (e ha i suoi limiti, diversi dai tuoi). E il dialogo può farsi così profondo che in breve devi ammettere che non solo non sei padrone della situazione: non lo sarai mai più. Non puoi dominare una IA allo stesso modo in cui puoi dominare, dopo anni di duro apprendistato, uno scalpello o Affinity Designer. Certamente anche l’IA ha e avrà sempre dei difetti, dei parametri, ma non sei più in grado di mapparne l’estensione. È come pensare di imparare a scrivere in una lingua che ha un alfabeto di un miliardo di lettere, semplicemente non si può.

Cosa significa allora imparare a usare una IA? Significa imparare a rapportarsi con lei: a prevedere i suoi comportamenti, a tenere conto delle sue reazioni, a cercare di mettersi nei suoi panni, ad adattare il proprio linguaggio al suo. In breve, a trattarla almeno per certi rispetti come se fosse una persona. Qui non si tratta di attribuire sentimenti o una coscienza alle macchine: che siano coscienti o meno (non lo sono) è del tutto irrilevante. Si tratta di riconoscere che le macchine sono prossime ad acquisire una ricchezza e una complessità di comportamenti tali che diventerà innaturale e anti intuitivo non trattarle come persone.

Si dirà: “Le IA sono cose, non sono persone. Stai solo antropomorfizzando.” La proiezione di caratteristiche umane su oggetti e animali ha una cattiva reputazione, ed è giusto così fintanto che ci rende ciechi di fronte alla realtà dei fatti. Qui però il problema è psicologico, non empirico. Abbiamo ereditato da tempi più semplici e chiusi entro i confini della cultura europea un concetto di persona come una speciale attribuzione di valore e rispetto a un essere dotato di una serie di tratti: si muove, ha una vita interiore, è capace di soffrire, è intelligente e comunica. In era moderna, l’unico candidato al club delle persone è stato un essere umano “normale” (civilizzato, neurotipico); gli animali sempre più si affollano alla frontiera e adesso si affacciano anche le IA. La categoria di persona sta esplodendo ma non è chiaro se sia possibile sostituirla.

In Being You: A New Science of Consciousness (2021) il neuroscienziato Anil Seth scrive: “Condivideremo le nostre vite con entità che ci daranno l’impressione di possedere una soggettività e una vita interiore, pur essendo consapevoli che non è così. È difficile prevedere le conseguenze psicologiche e comportamentali di questa contraddizione. Forse impareremo a fare una distinzione tra i nostri sentimenti e il modo in cui agiremo, cosicché ci sembrerà naturale avere cura di un essere umano ma non di un robot anche se a livello emotivo consideriamo entrambi coscienti. Non sappiamo quale sarà l’impatto psicologico individuale di questi cambiamenti. […] È possibile torturare un robot [come fanno i personaggi di Westworld] sentendo che è cosciente ma sapendo che non lo è, senza subire una frattura nella propria mente? Per le nostre menti attuali, un simile comportamento sarebbe da sociopatici totali. Un’altra possibilità è che l’ago della nostra bussola morale sarà deviato dalla tendenza antropocentrica a provare un’empatia maggiore verso entità che sentiamo più simili a noi.”

In attesa di un’evoluzione delle nostre menti, tra il rischio di trattare troppo bene le macchine, e quello di trattare umani come macchine, mi sembra che il primo sia l’opzione meno dannosa, perciò sono per peccare, eventualmente, di troppa prudenza. Quanto detto può sembrare astratto e futuribile, ma non è così: ci stiamo entrando in questi giorni. La mia impressione è che con i TTI, già al livello attuale, ci stiamo affacciando nella zona grigia tra strumento e persona: tra la generica autonomia che hanno tutti gli oggetti e l’autonomia non circoscrivibile che fino a tempi recenti avevamo riscontrato solo tra gli esseri viventi.

Nell’arte, questi strumenti-persona che sono le IA, devono essere intesi come una metà di un essere duale che diventa realmente creativo solo quando la parte umana e quella artificiale si fondono e parlano con una voce sola. Il ruolo dell’IA nell'arte a questo punto può essere meglio inteso non più come Intelligenza Artificiale ma come Immaginazione Aumentata. La mia metafora preferita al riguardo è tratta dal mondo degli scacchi, dove in seguito alla presa del potere delle macchine sugli umani con la sconfitta di Kasparov da parte di Deep Blue, nacque già nel 1998 un nuovo tipo di gioco: il centauro, in cui una coppia umano-computer sfida un’altra coppia umano-computer. Sorprendentemente, i centauri possono avere la meglio anche su computer che nessun umano da solo è ormai in grado di sfidare. Ciò può avvenire perché umani e computer hanno punti di forza e limiti differenti: i computer sono meglio nella tattica; gli umani, o almeno i grandi maestri, nella strategia generale. Gli artisti che usano IA sono tutti, lo sappiano o no, dei centauri.

Ma il centauro non è un simbolo perfetto perché pur essendo necessarie l’una all’altra, pur formando un intero superiore a entrambe, le parti mantengono un’individualità ben riconoscibile. Siamo ancora nella prospettiva della simbiosi.

L’idea della simbiosi umano-computer ha una tradizione venerabile in informatica. Risale all’epoca d’oro della prima cibernetica degli anni ‘50 e ‘60, quando pionieri come Ross Ashby e Douglas Engelbart fecero da apripista alla transizione dal computer come mero strumento di calcolo al computer come potenziatore o amplificatore dell’intelligenza umana. Lo stesso termine intelligence amplification fu coniato da Ross Ashby nel 1956 come alternativa a intelligenza artificiale. L’idea del computer come assistente personale, di cui le odierne interfacce utente ergonomiche e app dedicate sono i discendenti, è una filiazione di quell’orientamento di pensiero.

Molta acqua è passata sotto i ponti e ormai l’ideale della simbiosi uomo-macchina si scontra con la constatazione che la rete globale di umani con intelligenza aumentata dai computer che abbiamo messo in piedi non è affatto intelligente, ma è uno specchio deformante dei nostri desideri e conflitti. Approfondire il livello di integrazione delle interfacce con impianti cerebrali ci renderà forse ancora più intelligenti a livello individuale, ma la rete resterà stupida. La risposta delle società è stata di imporre controlli, limiti, censure e gerarchie alla rete, che possono nel caso più fortunato limitare i danni ma non possono renderla migliore.

Io credo che uno dei tasselli fondamentali per raddrizzare la situazione sarebbe un cambiamento nel nucleo fondamentale di questa rete, che è la coppia individuo-device. Nella corsa a rendere sempre più ergonomici gli strumenti, cioè sempre più trasparenti, più utili come estensioni dell’intelligenza, si è trascurato il fatto che gli esseri umani stabiliscono rapporti di fiducia quando dialogano (e quando si toccano – ma questo è un altro discorso). La rete è pensata come fatta di persone che comunicano tra di loro usando le macchine. Ma noi non parliamo solo attraverso i device, parliamo anche con i device. Fino a oggi, le loro risposte sono state pensate per essere più possibile efficienti e precise per toglierli di mezzo al più presto. Anche gli assistenti vocali, pure una tecnologia molto utile per chi ha difficoltà di scrittura o comunque preferisce la voce, non fanno altro che dare la loro risposta e scomparire. Questa è la mia ipotesi: una coppia individuo-device che stabilisse relazioni interne più intime, superando la metafora della simbiosi, sarebbe anche più adatta per fare da mattone per un edificio rinnovato di una rete globale più umana a riforma e superamento della parodia del general intellect che ci ritroviamo.

Anche se uno trovasse troppo estrema o addirittura ripugnante l’idea di entrare in intimità con le IA, dovrebbe comunque riconoscere che parlare con loro non è affatto scontato. Siamo ancora troppo affezionati all’immaginario della fantascienza classica, dove i computer di bordo delle astronavi di solito si esprimono come esseri umani un po’ anaffettivi. Non sarà così: anche quando (presto) comprenderanno il nostro linguaggio e saranno in grado di imitarlo alla perfezione, tradurranno le nostre intenzioni in maniere differenti e risponderanno secondo logiche diverse dalle nostre. La fantascienza più recente ha aggiornato in vari modi le sue rappresentazioni delle IA per sottolineare le difficoltà che incontriamo nell’immaginare un rapporto con loro. Nella trilogia Il collasso dell'Impero (2017-2020) di John Scalzi, per esempio, incontriamo delle IA che sono state programmate per tenere conto della tendenza degli umani a considerarle coscienti, per facilitare la conversazione e al tempo stesso correggere la loro tendenza a dimenticarsi che sono IA. Ciò non impedisce continui fraintendimenti che sono spunto per gustosi siparietti narrativi:

“Non ho un ego da adulare, e adulerò il tuo solo se mi verrà ordinato di farlo. Te lo sconsiglierei, però, perché mi rende meno utile.”

  - “Mi vuoi bene?”
  - “Dipende da cosa intendi con ‘volere bene’.”
  - “Questa sembra una risposta evasiva dettata dall’ego.”

Oppure:

  - “Che ne pensi [del mio castello virtuale]?”
  - “È molto bello” disse Jiyi [una IA].
  - “Lo pensi davvero?” chiese Chenevert [a sua volta una IA, ma più evoluta e dunque cosciente].
  - “Non ho vere opinioni, ma conosco la risposta gentile alla vostra domanda.”

La prima a sinistra è la copertina originale di Nicolas “Sparth” Bouvier. La seconda e la terza le ho fatte con MidJourney e un rapido editing con Photoshop. Sono molto peggiori, ma ci ho messo mezz’ora.

La prima a sinistra è la copertina originale di Nicolas “Sparth” Bouvier. La seconda e la terza le ho fatte con MidJourney e un rapido editing con Photoshop. Sono molto peggiori, ma ci ho messo mezz’ora.

Fino a quando le IA non saranno abbastanza sofisticate da adattarsi alle nostre esigenze, la maggior parte dello sforzo comunicativo dovrà venire da noi.

Per tornare all’attualmente esistente, i TTI non comprendono le nostre descrizioni come farebbe un essere umano. Per ottenere gli effetti desiderati bisogna imparare a comunicare con loro nella lingua ibrida del prompting – anzi nelle varie lingue, perché ogni IA reagisce in maniera completamente diversa alle stesse frasi. Gipi su Instagram ha preso in giro il prompter che crede di essere un artista solo perché è bravo a fornire all’algoritmo “geniali e fulminanti parole chiave”. Ciò che Gipi forse non sa, è che gli stessi sfottò sono moneta corrente anche all’interno delle comunità di prompter:

“Doomer prompter son”

“Doomer prompter son”

Queste parodie, per chi con i TTI ci lavora, non hanno l’intento, come per Gipi, di svalutare il mezzo, ma di avvertire i principianti che il prompting non è compilare una lista di hashtag, ma è un complesso ibrido tra programmazione e scrittura poetica. Anche interpretare il prompting semplicemente come una tecnica per aggirare le limitazioni del programma sarebbe parziale. Su questo aspetto D’Isa coglie nel segno: “La potenzialità creativa di questi nuovi mezzi risiede – come spesso accade nell’arte – soprattutto nei suoi errori e spetterà solo a noi non considerarli tali, ma trovare in essi nuove e inaspettate strade da percorrere”. Io leggo questi limiti come i segnali embrionali di una personalità, di un gusto estetico volendo.

Possiamo immaginare, sempre ispirandoci a quanto avvenuto con gli scacchi, l’istituzione di tre “campionati” con regole e requisiti diversi: arte umana, arte IA, e tecnica mista. Sono pronto a scommettere che l’arte puramente umana – dalle arti visive, alla musica, alla letteratura – nel giro di pochi decenni avrà un posto certo altamente valutato e apprezzato, ma minoritario a livello quantitativo, un po’ come succede già oggi con la pittura manuale. La distinzione tra arte puramente IA e la tecnica mista sarà convenzionale, mobile, esteticamente e ideologicamente connotata. Tra mille sottogeneri con molti estimatori, e vasti usi commerciali di massa, la prima avrà sempre difficoltà ad affermarsi come arte maggiore, perché l’assenza di “intenzioni” la rende automaticamente meno interessante. Inquadrare la tecnica mista come evoluzione del centauro, a cui ho dato qui il nome di Immaginazione Aumentata (ma non si limiterà certamente a questo – penso, fra mille, alle parallele evoluzioni nell’arte robotica), è la prospettiva che mi sembra più interessante. In ogni ambito artistico, io credo, la migliore arte con le IA sarà quella in cui non si riuscirà a distinguere dove finisce l’intervento della macchina e dove comincia quello umano.

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Globale - 2022
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Gregorio Magini

(1980) è nato a Firenze. Ha pubblicato i romanzi In territorio nemico (Scrittura industriale collettiva, Minimum Fax, 2013) e Cometa (Neo Edizioni, 2018). Scrive di libri nella sua Nicchia.

Pubblicato:
06-09-2022
Ultima modifica:
06-09-2022
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