Laboratorio trasformazione
Italia | Pensiero
Vi raccontiamo Tamu, libreria indipendente di Napoli, e ora anche editore, con le parole di uno dei suoi ideatori.
Intervista a Carmine Conelli
Riflessioni a partire da “La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini” (Einaudi 2021).
Alcuni scrittori contemporanei rifuggono tanto dalla rappresentazione compiaciuta del male quanto dal moralismo ricattatorio, provando piuttosto a coniugare impegno civile e ricerca formale, tensione etica e cura dello stile. Le differenze sono molte, le voci varie, ma se ne dovessimo indicare alcuni i primi che ci vengono in mente sono Giorgio Falco, Alessandro Leogrande, Luca Rastello - e senz’altro Antonio Pascale (Napoli 1966), che si è prestato a rispondere alle nostre domande sul suo ultimo libro finalista al Premio Campiello, La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini (Einaudi 2021).
Già nel suo primo libro La città distratta (l’ancora del mediterraneo 1999, poi Einaudi 2001 e 2009), in un Intermezzo floreale di tre pagine Pascale descriveva alcuni fiori «che crescono attorno alle case dei senegalesi» della sua città, Caserta. Quasi come in un apologo georgico, si concentrava su erbe considerate anonime per le piccole dimensioni, i colori opachi, la chiusura dei rapporti con l’esterno tramite l’autoimpollinazione: «sembrano proprio comportarsi come volessero disordinatamente disperdere quanto di buono posseggono». Possono pure sembrare «malerbe» che provocano «disgusto», ma così conclude il narratore: «I botanici sanno bene che dopo un cataclisma questa e le altre piante sopra citate, a differenza di molte altre specie, possono, sole fra tante, trovare una via di scampo».
Vent’anni e una quindicina di libri dopo, nella Foglia di fico da intermezzo le piante sono diventate cornice di una raccolta di racconti. Grazie a questa struttura narrativa, il libro tiene insieme la tendenza di Pascale alla dispersione come antidoto alle consolatorie trame lineari, e quel bisogno di ordine che permette di dare un senso, pur relativo, all’esistenza; una sorta di album, nei tanti sensi della parola: per i «racconti in fiore», al tempo stesso frammenti a sé stanti e parti di un organismo più grande; per le illustrazioni di Stefano Faravelli, fra l’iperrealismo quasi fotografico delle piante ritratte e un contorno di simboli in rilievo su una pagina scritta; per i tanti brani musicali citati nel testo, che si rivelano sempre più collegati agli alberi e alla narrazione.
Come degli emblemi medievali o rinascimentali, il cactus, il pino, il fico, il grano e le altre piante prefigurano ciascuna sezione in cui il narratore racconta della vita propria e altrui: ricordi d’infanzia, amicizie, amori, turbamenti e riflessioni che provengono non tanto dalla speculazione dell’individuo isolato, quanto dal suo confronto, fra conflittuale e affettuoso, con chi ne sa di più o è in disaccordo con lui; oppure, ancora, dalla meditazione su alcune caratteristiche poco conosciute delle piante più comuni.
Tra spunti comici, accensioni liriche e meditazioni titubanti (sull’insensatezza dell’esistenza, sul dolore, sulle difficili possibilità della democrazia), La foglia di fico è un libro che cerca non tanto di raccontare una vita umana nella sua interezza, quanto di distillare dall’esperienza una serie di dubbi e di consapevolezze irriducibili, mobilitando saperi e codici diversi (botanica, antropologia, sociologia, statistica…) nel segno di un razionalismo complesso ma sempre comunicativo, «via di scampo» ai cataclismi (veri o presunti) della contemporaneità.
Antonio Galetta / Elia Faso - La foglia di fico è un libro diverso dai precedenti. Come l’hai scritto?
Antonio Pascale - Forse è meglio che spiego come è nato il libro: dunque, fino a 4 anni non ho parlato, mi esprimevo per suoni onomatopeici, non so, lo zucchero era ding ding. Poi ho balbettano fino a 15 anni circa – ricordo tra l’altro che non riuscivo a comprare «Repubblica», perché mi incagliavo sulla r, e quindi compravo «Il mattino»… poi una volta nemmeno «Il Mattino» sono riuscito a dire e sono passato al «Manifesto», come dire: è il caos che decide chi siamo, anche in politica. In compenso stravedevo, antropomorfizzavo tutto, quindi un palazzo era un volto, le finestre occhi e così via. Accadeva lo stesso per le piante: la quercia era un uomo a braccia aperte che mi aspettava in un campo per abbracciarmi, il ciliegio un clown col naso rosso (erano le ciliegie appunto) che mi faceva ridere, il grano un mare che ondeggiava. Quando ho ricominciato a parlare ho perso le visioni, ma durante il primo lockdown, una mattina, era prestissimo, sono sceso e mi sono trovato davanti a un ciliegio fiorito: incredibile, il giorno prima era spoglio (si era alzata la temperatura quel tanto che bastava per avviare la fioritura, una caratteristica del ciliegio). Sono successe due cose: ho ricominciato a balbettare per una settimana (e dagli con «Repubblica», «Il Mattino» e «il manifesto») e ho avuto delle visioni, o meglio mi sono venuti alla mente alcuni ricordi legati alle piante. Erano tutti ricordi che riguardavano la prima volta che ho sentito qualcosa.
La prima volta che ho sentito la felicità? Da bambino sdraiato su un covone di grano che mio padre aveva costruito. La prima volta che ho provato una fitta d’amore e di gelosia? Sotto un ciliegio fiorito, scosso dalla pioggia, cadevano i fiori e mi sentivo un’ombra che calava dentro di me, e così via. Erano – li ho contati – dieci ricordi, associati a dieci piante e ho pensato, vista la situazione, che questi dieci ricordi erano quelli elementari, essenziali, completi, quelli che probabilmente avrei ricordato prima di morire. Ho scoperto poi, indagando un po’ e chiedendo in giro, che non erano solo i miei ricordi, ma inquadravano un immaginario, erano ricordi collettivi. Così ho cominciato a scrivere alcuni racconti sulle piante sul sito della Bayer che celebrava l’anno internazionale delle piante, la mia editor l’ha visto e mi ha spinto a pensarci su e a farne un libro. Ci ho pensato su ed è venuta fuori La foglia di fico: dieci piante, dieci simboli, dieci racconti che ragionano attorno al tema dei primi ed elementari conflitti, quelli che poi costruiranno identità, storie, culture e così via.
G/F - Un altro tratto caratteristico della Foglia di fico è il tono didascalico, nel senso etimologico di “scritto per la divulgazione, per l’insegnamento”: teorie complesse e tecnicismi, nel tuo libro, diventano comprensibili grazie agli esempi tratti da aneddoti quotidiani e da digressioni esplicative ben integrate con le storie dei personaggi. Hai seguito dei modelli, letterari e scientifici?
AP - No, davvero, nessun modello sperimentale. Il modello è quello classico, dialoghi platonici, non ho inventato niente. Modello fantastico quello, perché ragiona sulla vita di tutti i giorni. Mica ci facciamo caso, ma ci capita spesso di chiacchierare con uno che sa qualcosa che noi ignoriamo o che intendiamo diversamente e piano piano ci incuriosiamo, e capita al bar, a un convegno, sul treno, per caso. Basta mantenere il linguaggio orale e ancora una volta cercare di rispondere alle domande elementari, quelle che fanno i bambini. Dove va il sole di notte? Perché l’acqua bagna? Provate a rispondere. Per fornire un’ottima spiegazione è necessario aver capito bene i meccanismi tecnici e poi restituirli senza meccanismi tecnici. Quindi devi imparare bene per incuriosire poi dopo gli altri.
G/F - In alcuni dei tuoi primi interventi manifestavi sospetto nei confronti del narcisismo e, talvolta, della fiction in senso lato. Ora il narratore della Foglia di fico scrive che fa «autofiction polifonica», e ci sembra una definizione adeguata: tanto più la rappresentazione dell’io è in sordina, quanto più la parola dei personaggi inventati prende in contropiede e complica il quadro. Come sei arrivato a questo rapporto fra autobiografia e invenzione?
AP - Nel modello polifonico che ho in mente e ho provato a tracciare, il protagonista è sempre uno scrittore, cioè colui che poi organizza le storie, è lui l’inventore della fiction. Solo che a differenza del tradizionale, autorevole scrittore ottocentesco che sembrava calarsi nei panni altrui con molta facilità, descrivendo gesti, pensieri, sensazioni e in più elaborando trame, questo scrittore ha perso questa capacità. Non ne ha neppure voglia, dico di calarsi nei panni altrui: e poi che ne sa? Non siamo nemmeno coscienti di quello che siamo e proviamo, perché questo scrittore dovrebbe elaborare chissà quali inferenze per provare a raccontare gli altri? Quando qualche innamorato parla di telepatia per incentivare il lato romantico mi fa impressione, stanno dicendo che sono l’anima gemella l’un per l’altro. Un vero dramma: per l’amore, intendo. Essere perfettamente sferici, fino al punto di comprendersi sempre, abbassa il necessario conflitto che rende viva una coppia: la sfera, come diceva Aristofane nel Simposio, è senza desideri, gli amanti che si ritrovano e si fondono non hanno alcun desiderio. Sono completi. Tutto finito. A parte questo, se oggi mio nonno fosse in vita, sarebbe più istruito e più desideroso di parlare lui e non di farsi rappresentare dal Balzac di turno. Certo, potete dire: Balzac è sopraffino, ma questo non vuol dire che mio nonno non debba tentare, mettendoci la faccia, di dire qualcosa a suo modo: mio nonno deve solo imparare a farlo bene, e per questo dire «io» non basta, siamo d’accordo, però è una condizione necessaria per accedere alla modernità e quindi tener conto della mutate condizioni economiche, di classe e della fine del maledetto latifondo e dell’aristocrazia che davano a pochi privilegiati e alfabetizzati la possibilità di parlare, scrivere e leggere (ragione per combattere queste dimensioni ovunque si presentino in forma diversa).
Mi sembra insomma che il grande sforzo ottocentesco, quello di mettersi nei panni altrui, sforzo proficuo visto i capolavori che ha prodotto, si sia tuttavia esaurito per ragioni legate al contesto, alla rivoluzione economica del secondo Novecento. Al suo posto c’è un simulacro, il simulacro della terza persona onnipotente: lui disse, lui fece, ecc. In questo caso, a differenza dei primi riusciti tentativi (che sono però ottocenteschi), ci stiamo basando su formule letterarie, escamotage narrativi, stereotipi. Questi ultimi, nemmeno li vogliamo abbattere, anzi li gonfiamo di aggettivi e belle frasi, così sembra letteratura. Nel mio caso, lo scrittore protagonista non sa più orientarsi, dunque per trovare dei punti cardinali deve chiedere, assorbire, vagliare, analizzare, selezionare. Insomma, la trama (che poi altro non è che un insieme di fili) non la crea la regoletta narrativa tanto cara alle scuole di scrittura, ma la vita stessa, cioè il caos e il tempo: sono loro che stendono i fili, lo scrittore osserva il loro dipanarsi senza soluzione di continuità, cercando al massimo di evitare nodi che strangolano. Poi c’è di più, lo scrittore che ho in mente deve lavorare sulle emozioni, cioè sulle prime volte, ma deve essere abbastanza coraggioso, direi abbastanza ironico, da mostrare il trucco: lo scrittore crea la trama non perché è illuminato da una luce, ma perché è influenzato da variabili. Il gioco delle influenze (come sono i miei umori stamattina, cosa ho passato, cosa ho subito, cosa ho causato agli altri, ho sensi di colpa, ambizioni, desideri?) crea la trama. Per fare un esempio: quand’era ancora bambino portai mio figlio a vedere il circo (rigorosamente senza animali, non mi fa simpatia chi addomestica gli animali per usarli nel circo). A un certo punto una trapezista, vestita con un tulle argentato, prese a girare attorno alla pista e poi si sollevò grazie a un filo invisibile. Effetto scenico bellissimo, sembrava volasse davvero. Però mio figlio e gli altri suoi amichetti stavano guardando l’uomo che, da dietro le quinte, al buio, muoveva i fili, cioè si dava da fare con ruote e carrucole per far sollevare la ragazza. Pensai: che mondo! Dove andremo a finire. Era l’epoca in cui scrivevo cose moraliste contro l’io. Invece di guardare l’effetto – pensavo – guardano il manovratore, invece di emozionarsi vogliono scoprire il trucco. Poi col tempo capii che casualmente mio figlio mi aveva offerto una possibilità. Costruire un personaggio che racconta sia la magia sia il trucco, insomma che recuperi quanto di meglio ha prodotto Bertolt Brecht, riuscire dunque a creare e poi nutrire un lettore riflessivo, che sappia riflettere sulla qualità delle sue emozioni e non esserne solo incantato, quindi preda e vittima: per farlo è necessario mostrare il trucco. E poi è un fenomeno moderno: mostrare quel che si nasconde dietro le quinte.
G/F - In Questo è il paese che non amo. Trent’anni nell’Italia senza stile (Minimum fax 2010) ti ponevi, tra gli altri, un problema che ci pare centrale anche nella Foglia di fico: quello di come uno scrittore possa rappresentare il dolore degli altri. Quali sono le tue idee in merito? Come sono cambiate negli anni?
AP - Non sono cambiate, semmai si sono rafforzate, e la cosa si lega al discorso di cui sopra. Ci vuole un certo pudore nel rappresentare l’io. Le risposte sono identiche, sta a noi; e poi l’esplicito sta diventando di massa, dunque non offre nessun mistero, nessuna scossa, semmai una veloce indignazione che serve solo a farsi accettare nel proprio circolo e impostare la tua carriera di polemista. Poi in genere, a questo discorso si lega la questione dell’esperienza: quando tentiamo di raccontare traumi di cui non abbiamo esperienza eccediamo, quando invece il trauma l’abbiamo subito siamo pudichi. A ognuno il suo sguardo, basta che sia rispondente a qualcosa che vibra cupo nel sottofondo.
G/F - Dal tuo primo libro La città distratta (1999) fino a quest’ultimo ci sembra che fra le tue preoccupazioni principali ci siano i modi in cui viene rappresentata la società e la cultura meridionale. Ti vuoi soffermare su questo aspetto del tuo lavoro?
AP - È un problema di democrazia. Mi spiego. Ci sono quegli aspetti legati al folklore partenopeo, oppure a quell’effetto “povero è bello,” “lento è meraviglioso” che il Sud cerca di offrire ai turisti per ritagliarsi una fetta di splendore, perché si tratta di immagini più potenti rispetto a quelle delle altre regioni, una questione culturale insomma: abbiamo selezionato quel mood e ce lo teniamo. Ma sono aspetti buoni per le brochure illustrative, fanno bella mostra sui tavoli degli Assessorati al turismo. L’analisi di una situazione, di una regione, di un territorio deve essere diversa, bisogna affiancare gli strumenti dello scrittore (una certa capacità di suggestionare e di smuovere ricordi, insomma di avviare una narrazione) a strumenti analitici e tecnici, metodologici. Alla fine torniamo al modello democrazia. Il quale, lo sappiamo, presuppone l’esistenza di cittadini razionali e informati, motivati a fare buone scelte (ne va del proprio benessere o, in casi ambiziosi nonché ansiogeni, della propria felicità) e messi (dalle istituzioni preposte) nella condizione di esprimere le suddette scelte. Tuttavia, la democrazia è un sistema di governo molto giovane (tranne alcune prove tecniche ad Atene nel IV secolo, è nato l’altro ieri) e noi cittadini, dal punto di vista evolutivo, siamo troppo vecchi: portiamo il carico del passato, ovvero di un sistema decisionale (e morale) formatosi millenni orsono (prima della rivoluzione agricola). Dunque, siamo capaci di legiferare su noi stessi (a fatica) solo in particolari semplici situazioni. Mentre, al contrario, subiamo blocchi nel processo decisionale (con vari falli e imperdonabili errori), quando siamo esposti alla complessità. Per questo cerchiamo ciò che è familiare, e lo stereotipo lo è perché ci impressiona di meno. Cerchiamo quel Sud stereotipato anche nella vita di ogni giorno, per questo il Sud diventa metafora della difficoltà della democrazia. Allora la domanda è: vista la complessità e la difficoltà di analisi che nutriamo, la tendenza a cercare ciò che è riconoscibile e una certa pubblicistica che vede il Sud come luogo privilegiato perché anacronistico, dunque più facile da rievocare, visto e considerato tutto questo, che fine farà la democrazia? E noi? Diventeremo cittadini più attenti e propositivi o finiremo per incanaglirci contro il prossimo?
G/F - Talvolta il narratore della Foglia di fico ironizza su chi scrive metafore ad effetto per farsi chiamare ai festival letterari e su quanti parlano senza avere le prove. Come scrittore, invece, ti senti in dialogo con qualche autore italiano contemporaneo letterario o scientifico?
AP - Sì, molti, ho colleghi con i quali sono cresciuto e con cui nutro delle affinità, in genere quelli che hanno una formazione non letteraria, ma ovvio, ci sono casi e casi. L’importante non è quelli a cui mi sento affine, l’importante è se riesco a imparare qualcosa da quelli dissimili o viceversa riesco a comunicare altro a quelli non proprio affini a me, per gusti, cultura, stato civile, sociale e così via. Per esempio tra i dissimili, tra gli scrittori di noir, c’è Massimo Carlotto (il mio preferito, da sempre). Da lui vorrei imparare alcuni meccanismi che dovrebbero mettere un freno alla mia tendenza alla digressione e con essa alla precisione dei sentimenti o dei fatti da raccontare. Tra i simili, a parte degli amici storici come Francesco Piccolo, Diego De Silva, Valeria Parrella, Domenico Starnone (un punto di riferimento) ed Elena Stancanelli, con cui ho cominciato e con i quali condivido molte ossessioni provinciali e non, e modi e forme per raccontarle, sono da sempre colpito dall’intelligenza di Mauro Covacich e dalla superba ironia e dalla penna raffinata di Daniela Ranieri e mi piace quella pazzia ingestibile di Massimiliano Parente e la profonda malinconia e ironia di Gipi. Poi ancora, tra i non letterati puri, c’è il mio amico astrofisico Amedeo Balbi (che è coltissimo e legge più di me e mi passa un sacco di libri che altrimenti non leggerei), grazie al quale ho potuto capire qualcosa della fisica e ho avuto la certezza che la fisica sia uno strumento fantastico per osservare non solo l’universo che va bene, è ovvio, ma uno dei prodotti casuali dell’universo, cioè noi: una fluttuazione. L’artista Mauro Gioia che di tanto in tanto mi porta nella mia dimensione preferita che purtroppo non so vivere appieno, e cioè la musica. La biologa Anna Meldolesi, che ha insegnato un po’ a tutti cosa significa fare un reportage scientifico, con Organismi Geneticamente Modificati. Storia di un dibattito truccato (Einaudi 2001), e anche Roberto Defez che tratta argomenti scientifici come andrebbero trattati, cioè con serietà filologica, e infine Sergio Saia che insegna agronomia a Pisa e si sgola per far capire alcune cose. Inoltre Valeria Cecilia con le sue recensioni mi sta facendo conoscere scrittrici femminili che trattano in modo nuovo tematiche ostiche e moderne. Poi ancora Alfonso Berardinelli che per me resta un maestro intoccabile e tanti filosofi, cito solo Mario De Caro e Simone Pollo (che mi spinge a interessarmi a tematiche come la sensibilità animali) e naturalmente uno dei nostri (perché serio) migliori polemisti Gilberto Corbellini e un avvocato saggista, anche lui molto serio (e polemista: si dichiara troll professionista) che è Luca Simonetti. Ancora, vanno annoverati degli autori televisivi con cui ho fatto esperienza, Massimo Martelli e Pietro Galeotti. Alla fine, la letteratura altro non è che un po’ di curiosità per ciò che ti gira intorno.
(1966) ha pubblicato numerosi libri. I più recenti sono "La foglia di fico" (2021), "Le aggravanti sentimentali" (2016), "Le attenuanti sentimentali" (2013), tutti pubblicati per Einaudi. Ha curato l'antologia "Best Off" (Minimum Fax, 2005).