E ora lancia il dado - Singola | Storie di scenari e orizzonti
I dadi
I dadi | Copyright: Alex Chambers / Unsplash

E ora lancia il dado

Dai manuali cartacei alla recente esplosione del fenomeno mainstream: la rinascita dei giochi di ruolo apre a nuove possibilità di raccontare il contemporaneo in modo collaborativo.

I dadi | Copyright: Alex Chambers / Unsplash
Lorenzo Vargas

(1991) ha pubblicato i romanzi Pierre non Esiste (Bompiani, 2015), Una più del DiavoloLa Bambina da un milione di anni (Las Vegas). È co-sviluppatore del gioco di ruolo UNIT. 

È il 1974.
A Lake Geneva, negli USA, Gary Gygax e Dave Arneson rilasciano per la vanity label TSR “Dungeons & Dragons” (D&D), la prima incarnazione di una nuova tipologia di media, riunita in seguito sotto l’etichetta di “Gioco di Ruolo Carta e Penna” (Table top role play game, TTRPG).
Lungi dall’essere partoriti in un vuoto, i TTRPG si rifanno alla consolidata tradizione del wargame (da i quali ereditano la struttura tattica dei combattimenti) a cui sono aggiunte fasi di gioco vicine all’improvvisazione teatrale. In D&D, nello specifico, le partite seguono la storia di un gruppo di avventurieri in un’ambientazione fantasy.

Il vero elemento rivoluzionario è la struttura aperta del gioco: gli archi narrativi prodotti si dipanano in più sessioni, andando a creare le cosiddette campagne, che possono protrarsi anche per anni nel mondo reale. La libertà di azione dei personaggi, inoltre, è pressoché infinita: l’ambiente e le sue reazioni non vengono gestite da un’unità informatica, come per esempio con i prodotti di interactive fiction dell’epoca, necessariamente legati ai vincoli di programmazione della macchina, ma da un soggetto facilitatore (nel caso di D&D il Dungeon Master) con l’aiuto di un apparato più o meno stringente di regole. Si tratta, in breve sostanza, dei giochi di finzione a cui abbiamo partecipato nell’infanzia, con l’aggiunta di un arbitro dotato degli strumenti per dirimere l’annosa quaestio su chi sia più forte tra Hulk e Superman.

Di recente, i TTRPG sono entrati a gamba tesa nel mainstream, emancipandosi dall’immagine stereotipata di conventicole di disadattati sudaticci intenti a tirare dadi in qualche sottoscala. Da dichiarazioni della Wizard of the Coast (la controllata Hasbro che detiene la licenza per l’attuale edizione di D&D) il 2019 ha potuto vantare il più alto flusso di vendite da quando ha preso in gestione il marchio, a coronamento di sei anni di continua ascesa. I TTRPG appaiono in un modo o nell’altro nella stragrande maggioranza dei prodotti di fiction di successo, tanto da aver fatto tornare in auge la pratica commerciale di creare (e addirittura far arrivare in Italia!) giochi di ruolo dedicati a proprietà intellettuali terze: un esempio, The Witcher (Talsorian, 2019 e Need Games da noi), in risposta del successo sconfinato del videogioco, tratto a sua volta dal Wiedźmin di Andrzej Sapkowski (che al mercato mio padre comprò).

Non è intenzione di questo testo offrire una storia del genere, tanto più che si rivela anche abbastanza banale: iniziale successo di nicchia, crescita in popolarità, monetizzazione, proliferazione del media, fobia del grande pubblico per il “nuovo”, normalizzazione e via dicendo. Per chi avesse interesse, la versione inglese di Wikipedia o questo articolo sono abbastanza esaustivi.

Come spesso accade, appena la macchina economica si è accorta di poter ricavare del denaro dai TTRPG, si è subito messa in moto quella accademica, dedicando finalmente al media l’attenzione e lo studio che si meritava (ancora troppo poco, ma almeno ci si è allontanati dal macchiettistico Satanic Panic degli anni ‘80). Qualcuno si è addirittura arrischiato a parlarne come una forma d’arte, elogiando il modo in cui i singoli prodotti conducano facilitatore (dove presente) e giocatori (ove plurali) verso i più estremi lidi della sospensione d’incredulità. Altri, armati di buone intenzioni, ma meno originali, lodano i manuali (unico vero e proprio supporto indispensabile al gioco) limitandosi ad apprezzarne la componente materiale: edizioni di lusso, piene di testo e illustrazioni di pregio che chiunque può divertirsi a consultare.

Legittimare la diversità attraverso la similitudine è una premiata usanza umana e non denota granché oltre alla pigrizia intellettuale, se non fosse che in questo caso si tratta di un errore: valutare un gioco di ruolo solo attraverso i manuali sarebbe come stimare la funzionalità di un elettrodomestico dal libretto di istruzioni.

La verità è che probabilmente i TTRPG incarnano davvero una forma di letteratura, ma appena fuori dal vincolo materiale del supporto. La forza del media non scaturisce da 300 pagine patinate, ma dalla narrazione collettiva che si sviluppa intorno al tavolo da gioco dove, se tutto va come dovrebbe, un gruppo di individui produce una storia in cui la totalità dei personaggi principali manifesta una genuina individualità.

L’idea di letteratura a cui siamo abituati è paragonabile a un teatro dei burattini dove l’autore parla da solo, scimmiottando le voci di scena dei propri pupazzi: i personaggi non sono unità, ma frazioni del narratore le cui mancanze vengono riempite da un esercizio speculativo. In una sessione di gioco di ruolo, invece, il personaggio/mondo del facilitatore interagisce con soggettività diverse da sé, obiettivi e processi mentali indipendenti su cui può esercitare solo il controllo concessogli dall’impianto regolistico. Nessuno sa davvero dove andrà a parare la storia di una sessione, nemmeno chi l’ha scritta: le vicende accomoderanno le scelte (tradizionalmente dissennate) dei giocatori, con gli esiti spesso esilaranti di cui sono pieni subreddit come r/dndstories, r/dnd e r/dndgreentext.

Un discorso del genere ha ovviamente delle eccezioni: il mercato è sconfinato e polimorfo.

Dal paradigma offerto da Dungeons & Dragons, che nel tempo ha preso la direzione di un gigantesco ecosistema sandbox in cui ambientare praticamente qualsiasi cosa in campagne che possono durare anche anni (un’impostazione a cui dobbiamo il concetto stesso di videogioco open world), l’offerta del media si è frammentata al punto di esplorare anche lo straordinariamente specifico (Big Gay Orcs, di Grant Hewitt) e l’incommensurabilmente grande (Microscope di Ben Robbins). Un’analisi onnicomprensiva del fenomeno sarebbe come fermare il vento a schiaffi e mi si perdonerà il focus su quello che credo sia il nucleo centrale: la costruzione collettiva di una narrazione nell’alveo di setting e regole, con un occhio su come quest’ultimo vincolo convenzionale gestisca le individualità artificiali dei personaggi.

Oltre a generare mitologie personali che verranno ricordate quasi come eventi della propria vita quotidiana (nel mio caso, meglio), i TTRPG si sono rivelati negli anni degli splendidi strumenti di autodeterminazione. Internet straborda di articoli su come il medium si sia rivelato fondamentale per esplorare parti di sé che nella vita quotidiana sarebbero (a torto o ragione) socialmente inaccettabili, o ad accedere a rappresentazioni altrimenti assenti nella fiction: si va da campagne LGBTQ+ friendly, miniature di personaggi portatori di disabilità (qui la boutade di assoluta irrilevanza) a esempi meno nobili, come la tragica favola morale di F.A.T.A.L., un gioco passato alla storia per la propria weltanschauung al limite della passibilità penale (il perché largamente sviscerato qui).

Quando un gioco ti mette a disposizione gli strumenti per essere chiunque tu voglia, è importante analizzare come venga definita questa identità in termini meccanici. Per quanto sia possibile dedicare giorni interi alla minuziosa costruzione della propria dramatis persona, gli unici aspetti a contare, ai fini del gioco, saranno quelli riportati sulla scheda del personaggio, il documento più o meno complesso, che idealmente riporta tutto ciò che riguarda la propria creazione.

Tornando indietro al ’74, la prima scheda di D&D è uno specchio di tempi più semplici. All’epoca le avventure erano meno libere e più legate all’esplorazione di ambienti pericolosi (la dimensione character driven sarebbe stata introdotta successivamente). I personaggi erano quindi riassunti dall’insieme delle proprie capacità e averi. L’unico accenno a un’interiorità era dato dal cosiddetto allineamento, una bussola morale talmente fumosa da essere tutt’oggi il casus belli per interminabili faide di graziosa erudizione tra gli appassionati. A più di trent’anni di distanza, il vuoto “psicologico” della scheda di D&D non è stato riempito, perché al netto delle varie scuole di pensiero, l’interiorità degli avventurieri non è davvero importante, se non per un paio di meccaniche legate agli incantesimi. Ciò che conta per i personaggi di D&D è l’esplorazione, il pericolo e il massacro pressoché sistematico di qualunque cosa ti sia ostile o non voglia concederti uno sconto sulla spesa. È un sistema che pretende di regolare il tutto rimanendo comunque abbastanza agile: gestire i sentimenti con un tiro di dado necessiterebbe un manuale a parte.

Spostandosi verso giochi che si premurano di esplorare ambiti più settoriali si nota subito come la preoccupazione di chi ha redatto le regole sia diversa.

Call of Cthulhu è un altro dei pilastri del TTRPG, basato sul mito lovecraftiano. Gli investigatori di CoC sono fragili e dalla psiche perennemente in bilico di fronte all’incommensurabilità dell’orrore cosmico. La loro scheda aggiunge un semplicistico quanto efficace indicatore di stress psicologico: la discesa nella follia è centrale nel tipo di storia esplorata. Diverso, invece, il concetto di trauma che troviamo nel più recente Blades in the Dark, dove il tirare un po’ troppo la corda con le emozioni comporta svantaggi permanenti (e meccanici). In entrambi i casi, troppo trauma comporta la fine del personaggio proprio come quando si viene feriti a morte.  

CoC e BitD non sono gli unici ad introdurre indicatori del genere.  Due pietre miliari degli anni ’90, Vampire: the Masquerade e Cyberpunk 2020 si sono spinti ancora più avanti nell’esplorazione dell’individuo, aggiungendo alla scheda un punteggio di Umanità. I due titoli condividevano il concetto centrale di cedere a un qualcosa altro da sé. In VtM si trattava della Bestia, la propria natura vampirica che prendeva lentamente il sopravvento sulla coscienza fino a ridurre il personaggio alla feralità; in C2020 misurava quanto del proprio corpo fosse stato sostituito da miglioramenti elettromeccanici, responsabili di indurre lentamente negli individui una psicosi omicida verso la carne. Il punteggio di umanità costringeva i giocatori a una condotta più cauta e dagli esiti paradossali, come quando i vincoli per l’umanità dei vampiri (crudeli mostri senz’anima) li rendevano ben più morali dell’individuo medio.

Anche i personaggi di D&D sono sottoposti a un continuo stress, affrontano minacce incommensurabili (agli alti livelli si può letteralmente prendere a pugni dio) e in teoria sarebbero posti costantemente di fronte al dilemma di compiere o meno atti che ne macchierebbero la coscienza, ma senza un appiglio meccanico (e una necessità narrativa) che responsabilizzi i giocatori, questa dimensione interpretativa tende ad andare perduta. Ne è un esempio la figura del murderhobo (altrove caotic stupid), un tipo di giocatore che agisce senza motivo in maniera assolutamente immorale, dimentico del fatto che ciò che muove nel mondo di gioco è un individuo e non un orso idrofobo. Il fenomeno in realtà va a intersecarsi con le fantasie di potere messe in atto da i giocatori da cui nessun titolo è salvo, ma includere nelle regole limitazioni di questo genere aiutano a mantenere la sessione sui binari. 

Per fare un confronto con produzioni ben più modeste, nel TTRPG che ho sviluppato col collega Valerio Massimo D’Ascanio, UNIT, la definizione dei personaggi passa attraverso una serie di indicatori che esulano l’impostazione competenze/possedimenti. I personaggi sono connotati da pregi e difetti, che donano piccoli vantaggi meccanici situazionali; un indicatore di stress che tiene traccia del logoramento psichico; da una “bussola karmica” che ne definisce l’orientamento morale in base alla condotta di gioco e non a priori come l’allineamento. Gli indicatori, inoltre, non sono riportati sulla scheda dei personaggi, ma quella del narratore: nella realtà nessuno è a conoscenza di quanto sia stressato da 1 a 10, o di quanti “punti vita” gli siano rimasti. L’ignoranza delle meccaniche metatestuali costringe i partecipanti alla cautela, che a sua volta porta con sé la necessità di una maggiore immedesimazione.

Potrei continuare all’infinito con esempi del genere e finirei per pubblicare (o meglio, farmi rigettare dalla redazione) un lungo sproloquio sul perché ci siano centinaia di TTRPG migliori di Dungeons & Dragons, ma sfuggirebbe il punto. Forse con la stessa pigrizia mentale rimproverata a coloro che riescono ad apprezzare il medium solo analizzandolo dal punto di vista di una qualsiasi edizione di pregio, possiamo già, con i pochi elementi menzionati, cementare la nostra definizione della sessione di gioco di ruolo come una letteratura orale collettiva (semi) spontanea.

Abbiamo infatti una storia, nella sua definizione più basilare di fabula/intreccio, focus specifici sull’interiorità dei personaggi, nonché gli infiniti reami e generi letterari esplorabili, alcuni dei quali sottorappresentati anche nella narrativa di genere, come per esempio l’elvenpunk di prodotti come Shadowrun che mescolano gli il fantasy classico con la fantascienza.

C’è però un dettaglio che rende l’esplorazione letteraria dei TTRPG molto più attuale di altri media maggiormente carenati ed è appunto il menzionato elemento di genuina coralità.

Nell’ultimo decennio si fa un parlare quasi ossessivo di diversità nella fiction. Mentre in precedenza un qualunque autore (spesso un uomo bianco) si sarebbe sentito autorizzato a narrare le vicende di tipi umani profondamente diversi da sé, con risultati alle volte deprimenti, oggi si chiede a gran voce l’apporto di punti di vista più genuini. Si pretende che una serie televisiva che segue le vicende di una donna di colore sia scritta da una donna di colore, che personaggi LGBTQ+ siano interpretati da attori LGBTQ+, che i disabili siano interpretati da disabili e così via. Al netto di discorsi molto più vasti che questa non è la sede per discutere, si riscontra il fallimento del concetto di immedesimazione autoriale proprio nel momento in cui più ce n’è bisogno: la nostra contemporaneità è caratterizzata da un proliferare di punti di vista lasciati da tempo immemore ai margini della narrazione, che la voce finora falsamente standard (bianca maschile ed etero) si è dimostrata incapace di incarnare per ignoranza o semplice pressappochismo.

Cadere nell’illusione di poter vestire i panni di chiunque, come narratore, è un attimo, anche con le migliori intenzioni. Nell’ultimo romanzo che ho scritto, buona parte dei protagonisti sono donne nere americane, la cui ricostruzione è avvenuta nella speranza che una solida documentazione sia abbastanza. Sarà la prova del tempo a decidere quanta parte delle mie ossa verrà spezzata da chi quegli scenari li vive dall’interno.

Che questo discorso di identità tra rappresentante e rappresentato abbia senso o meno (ne ha, almeno nella contingenza odierna), dobbiamo essere almeno consapevoli che non si può più realisticamente parlare di un’esperienza di vita base da usare come fondamento per rappresentare le altre. Il soliloquio autoriale si rivela inadatto alla rappresentazione della realtà, presente e passata, visto e considerato che i problemi venuti alla luce nel discorso odierno sono sempre esistiti.

In quest’ottica, la fruizione del gioco di ruolo come strumento di lavoro per la creazione di fiction può rivelarsi se non la soluzione, una via da esplorare. Durante le sessioni, volenti o nolenti, i giocatori tendono a scegliere un tipo di personaggio che in qualche modo ne rispecchia le pulsioni, quella maschera di wildeiana memoria che rivela il nostro vero Io, anche se non in proporzione 1:1. In anni di onorata carriera nel campo di rado ho incontrato qualcuno che non interpretasse transfert diretti o fantasie di potere (o le due cose insieme).

Ciò non vuol dire che ogni sessione di ruolo sia un capolavoro letterario, almeno quanto non lo è tutto ciò che viene messo per iscritto. Rimane però il fatto che se messo in scena da autori consapevoli, verrebbero quasi immediatamente affrontati tutti i nodi problematici dello scrivere una storia. Per dirne una, l’ambiente, incarnato dal facilitatore della sessione, non potrebbe, per forza di cose, essere solo un fondale dipinto, ma sarebbe costretto a rappresentare quel personaggio-mondo che tanto ammiriamo nella grande letteratura. Ogni personaggio principale agirebbe in base all’individualità autentica del quasi-io dei giocatori, fedele a sé stesso e irrazionale nel momento di crisi più stringente, potenzialmente il primo trionfale ingresso del panico nella letteratura d’invenzione. Il supporto del sistema regolistico, come abbiamo visto, oltre a definire come si gioca, fornirebbe una vera e propria visione del mondo, che va dal margine d’azione concesso ai personaggi alle singole parti della propria individualità importanti ai fini della narrazione. La facile obiezione per cui si tratterebbe di un normalissimo esercizio di collaborative fiction non prende in considerazione la differenza principale tra l’opzione proposta e, per esempio, Will Grayson, Will Grayson (Green/Levithan) o Caverns (collettivo O.U. Levon): l’immediatezza.

Gli scenari messi in atto durante una sessione permettono un limitatissimo tempo di ponderazione, largamente presente in esercizi di scrittura collettiva dove si parla comunque di testi riuniti a posteriori. La narrazione del TTRPG viene costruita in tempo reale, senza che ci si possa mettere d’accordo, coi risultati a volte incoerenti e assurdi che dopo un attimo di imbarazzo possiamo riconoscere unicamente alla realtà.

Come quella di Dungeons & Dragons nel ’74, anche quest’idea non nasce in un vuoto. Con una veloce ricerca su internet è facile trovare streamer e creatori di contenuti che trasmettono sessioni di ruolo coinvolgendo attori, doppiatori o professionisti più o meno ferrati nell’arte di portare alla vita un personaggio. Negli Stati Uniti spicca il nome di Matt Mercer, la cui fama è cresciuta a tal punto da spingere Wizard of the Coast a proporgli una partnership, mentre gente come InnTale fa lo stesso in Italia con mezzi nettamente inferiori (confermando così che la spettacolarizzazione dei TTRPG è tutto fuorché una novità).
Senza contare la marea di romanzi riciclati dalle ambientazioni personali dei facilitatori, sia nei più putridi anfratti della rete che in vendita in libreria per mano di nomi più o meno illustri.

Salvi insospettabili indomiti, mi rendo conto, si tratterà sempre e comunque di una pia illusione, almeno in Italia, dove scrivere un romanzo rimane un’operazione in perdita anche percorrendo le vie più convenzionali. Ciò comunque non mi libererà dalla pace di addormentarmi sorridente con l’immagine di Walter Siti, Aldo Busi, Melissa Panarello, Giovanni Bitetto e Christian Raimo seduti a un tavolo che ruolano goffamente una campagna di Cuori di Mostro (Avery Alder) per scrivere il prossimo grande romanzo sulla giovinezza.

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Globale - 2021
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Lorenzo Vargas

(1991) ha pubblicato i romanzi Pierre non Esiste (Bompiani, 2015), Una più del DiavoloLa Bambina da un milione di anni (Las Vegas). È co-sviluppatore del gioco di ruolo UNIT. 

Pubblicato:
22-02-2021
Ultima modifica:
21-02-2021
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