Oscar, ritorno sulla Terra
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Il 2021 degli Academy offre la rosa di opere più variegata di sempre. Analisi di un'inclusività che non è più solamente professata.
L’ultimo film di François Ozon, "È andato tutto bene", rilancia con forza la questione dell’eutanasia: non disprezzo della vita, ma rifiuto di viverla nella prigione del corpo. Cinema e morte, una relazione.
Morire. Prima o poi tocca a tutti: “La morte è democratica”, diceva J.G. Posada costruendo le sue calaveras, le note incisioni dei teschi. E ci sono diversi modi per farlo, ma spesso manca un elemento fondamentale per accompagnare il trapasso: la dignità. In altre parole, non viene rispettato il diritto di “morire bene”, di andarsene attraverso una scelta consapevole che come ogni atto autonomo chiede rispetto. È costruito attorno a questa idea l’ultimo film di François Ozon, È andato tutto bene, nelle sale italiane dal 13 gennaio. Il titolo arriva nei nostri cinema dopo il passaggio in concorso al Festival di Cannes 2021, finalmente svolto in presenza: è tratto dal romanzo autobiografico di Emmanuèle Bernheim, Tout s’est bien passé (2013) che è anche il titolo originale. La scrittrice racconta la storia di suo padre: André Bernheim, industriale e collezionista d’arte, che a ottantacinque anni viene colpito da un ictus. Si risveglia in ospedale, parzialmente paralizzato e bisognoso di assistenza perenne, ma con la mente ancora sveglia e vigile. In grado cioè di prendere una decisione forte: quella di morire. André chiede alle due figlie, tra cui Emmanuèle, di organizzare il suicidio assistito, che non si potrà fare in Francia - la legge non lo permette - ma dovrà avvenire in Svizzera.
Perché André vuole farla finita? È uno dei punti fondamentali del libro e quindi della messinscena di Ozon. Bernheim tutto sommato non è in condizioni disperate, infatti, potrebbe continuare a vivere: nella gabbia della sua disabilità, certo, e rinunciando a tutti i piaceri che aveva coltivato in vita vita, come le mostre d’arte e i concerti, proprio lui amante della musica classica, appassionato di Brahms. Ecco: senza più bellezza, costretto nella prigione del corpo, André decide di morire. All’inizio Emmanuèle resta profondamente inquietata dalla richiesta, non la capisce, la intende come uno sfogo dettato dalla disperazione, la lascia cadere nel vuoto. Ma André insiste, perché non si tratta di una volontà composta dal dolore della sua condizione, seppure profondo, ma di altro: è la scelta consapevole di un uomo che ha vissuto pienamente e non vuole svilire l’esistenza con una fine logorante, è la decisione ponderata di andare verso una “bella morte”.
Gradualmente, quindi, entrambe le figlie contrarie si aprono e iniziano ad assistere il padre nell'intento, coltivando la segreta speranza che cambi idea fino alla fine: solo all’ultima battuta, all’ultimo fotogramma, affiora l’ipotesi di una possibile pacificazione, l’idea di una scomparsa serena. Il turning point si trova probabilmente in un dialogo che sostiene Emmanuèle: “Aiutalo come un’amica”, le viene detto, e così lei riesce lentamente ad assumere questo punto di vista. Si innesca allora un doppio scontro, sia interno che esterno: da una parte c’è la lotta intima, la contesa interiore fra tenersi stretto un proprio caro e assisterlo verso il suicidio; dall’altra la battaglia pubblica, ovvero il percorso verso l’autodeterminazione, il diritto di morire che lo Stato impedisce e va consumato all’estero. Su tale sfondo si staglia la figura determinante di Hanna Schygulla, attrice che è un legame vivente tra Ozon e Fassbinder (Ozon sta chiudendo Peter von Kant, riscrittura proprio di Fassbinder): Schygulla veste i panni della presidente dell’associazione per il fine vita, è colei che attua le regole per arrivare alla morte dolce rispettando sia la legge che la coscienza, spiegando che il paziente deve bere la pozione da solo, proprio fisicamente, portando il bicchiere alle labbra con un gesto di sua volontà.
Il racconto è ulteriormente impreziosito dal mirabile tratteggio del carattere di André: pessimo padre, è stato un genitore difficile che in realtà è gay e ha anche uno storico amante. Qui Ozon, da sempre regista queer, realizza una sottile contrapposizione che lega in maniera implicita due temi: non è un caso, sembra dire, che la dignità della fine sia richiesta proprio da un omosessuale occulto, un uomo che ha indossato una maschera costruendo una famiglia con una donna. Come prima si nascose nella vita, ora non vuole nascondersi nella morte. Quasi come risarcimento per il lato più celato della sua esistenza, adesso arrivato all’ultimo metro reclama un diritto.
Il regista francese stavolta esce dal mondo a parte che ha creato negli anni con i suoi film, un universo ozoniano che risponde a regole proprie, e torna con forza sulla questione sociale, già frequentata in Grazie a Dio (2019) dedicato allo scandalo dei preti pedofili. Ma attenzione: anche questo resta un film di Ozon, segnato dalla profonda cinefilia dell’autore, dai movimenti di macchina che pescano nella storia del cinema (francese e non solo), dalla squisita ironia in grado di stemperare lo scenario più estremo, qui affidata al personaggio di André che resta caustico, lapidario e perfino malizioso sino all’imponderabile. Magistrale è poi la prova di tutto il parco attoriale, a partire dal protagonista interpretato da un gigantesco André Dussolier, emanazione vivente del cinema del maestro Alain Resnais, il quale è in grado di recitare come se avesse davvero subito un ictus, restituendo i miglioramenti e le ricadute attraverso sfumature finissime. Non di meno le figlie coi loro rovelli, un altro volto e corpo centrale del cinema francofono come Sophie Marceau insieme alla degna spalla Géraldine Pailhas, e la madre che è il negativo del padre, una fisicità gelida e in via di degradazione incarnata dall’attrice ozoniana Charlotte Rampling. Il film di Ozon che più somiglia a questo è in realtà Una nuova amica (2014), storia di un’amicizia femminile che nel suo sviluppo (e nel suo “avviluppo”) suggeriva una possibile genitorialità diversa, un padre che si traveste da madre che è un messaggio politico, una posizione sui diritti civili lanciata per interposta narrativa. Così il diritto di morire in questo film, che contiene già nel titolo la sua sostanza: “è andato tutto bene”, non solo perché André ha raggiunto l’obiettivo definitivo, ma soprattutto perché è stato reso esigibile un diritto.
Cinema e morte, dunque. Un intreccio complesso che viene da lontano. Ingmar Bergman la sfidava a scacchi ne Il settimo sigillo (1957), Woody Allen ci danzava in Amore e guerra (1975), i Monty Phyton mettevano in parodia il suo arrivo ne Il senso della vita (1983): “Il signor Morte è venuto per la mietitura!”. Ma soprattutto cinema sull'eutanasia. Inevitabile che le macchina da presa oggi si applichi a una delle questioni più spinose del contemporaneo, tra le più discusse e irrisolte, tra le più polarizzanti tra pro e contro. In Italia lo ha fatto coraggiosamente Valeria Golino da regista con Miele (2013), un film che è una lezione soprattutto nel nostro Paese. Miele è il nome in codice di Irene, raffigurata in Jasmine Trinca, una studentessa di medicina che aiuta i malati terminali a farla finita, concedendo loro l'opzione proibita dell’eutanasia. Partendo dal suo lavoro meccanico, glaciale come un ninja, Irene incontra un paziente particolare e passa attraverso l’elaborazione della questione etica intorno alla fine della vita, ottenendo un’epifania, lanciandosi metaforicamente nel fuoco del dibattito odierno. E l’ingegnere Grimaldi col volto di Carlo Checchi è un aspirante morente perché affetto da depressione, convinto che la sua vita non sia abbastanza degna di essere vissuta.
Un altro grande “aspirante” è stato Ramón Sampedro, nel film più premiato di Alejandro Amenábar: Mare dentro (2005), che arrivò perfino all’Oscar come migliore film straniero. Sampedro era un pescatore spagnolo che rimase paralizzato dopo il tuffo da uno scoglio finito male: per venticinque anni condusse una crociata per il diritto all’eutanasia, anche mediatica, non accontentandosi di farla finita in privato ma ponendo una questione pubblica per vedersi accordata la possibilità della fine. Nervo scoperto anche in Spagna, naturalmente, che Amenábar racconta affidandosi a Javier Bardem: tra impossibili sublimazioni visionarie, come Ramon che torna a tuffarsi nella sua mente, e la lotta tangibile e concreta l’“eroe” raggiunge il suo scopo creando una dura contrapposizione, una spaccatura di opinioni difficilmente ricomponibile. Resta famoso l’appello finale che Sampedro lancia prima di morire: rivendica il diritto all’eutanasia, per tutti quelli come lui che lo rivendicano contro la sofferenza.
Tanti film e autori hanno trattato l’eutanasia, non ispirandosi sempre a storie vere, ma mimetizzandola nei tessuti dei rispettivi racconti. Fu un piccolo fenomeno Le invasioni barbariche di Denys Arcand (2003), anche sopravvalutato, in cui un cinquantenne malato di tumore riunisce parenti, amici e amanti prima di organizzare una “morte buona” con un’overdose di eroina. Anche un regista come Clint Eastwood, ancora oggi per equivoco indicato come “conservatore”, ha affrontato il dilemma in modo duro, frontale e struggente: in Million Dollar Baby (2004), quattro Oscar per l’allenatore di boxe Frankie Dunn che letteralmente stacca la spina alla sua protetta, la pugile Maggie rimasta paralizzata. Il dolente umanesimo di Clint prevale sulla vita a tutti i costi, quando si è costretti a letto, quando essa viene spogliata da ogni sacralità perché esistere non è vivere. Schegge di eutanasia si trovano sparse in tutto il cinema europeo: per esempio in Euthanizer di Temmu Nikki (2017), nuovo talento del cinema finlandese che inscena la parabola di un “eutanatizzatore” di piccoli animali, cani e gatti, arrivando con film di genere a riflettere sul fine vita e il suo significato.
Il nostro Ramón Sampedro, invece, è stato Piergiorgio Welby. Tutti conoscono la storia dell’attivista, poeta e pittore, che morì nel dicembre 2006 dopo una lunga lotta per il diritto all’eutanasia. Due film lo raccontano: il primo è Love is All (2015) di Livia Giunti e Francesco Andreotti, che reca il sottotitolo emblematico Piergiorgio Welby, autoritratto. È infatti lui stesso a parlare attraverso scritti, dipinti, fotografie e poesie, raccontando cos’era la sua vita e perché con la distrofia muscolare progressiva negare la fine è stata solo una violenza. Anche lui, come il personaggio finzionale di Bernheim, a sorpresa lo fa servendosi dello scetticismo destruens dell’ironia, evidente nei passaggi immaginifici come Piergiorgio amante della pesca che si accoppia con una carpa gigante. L’altro film è un’opera di Giovanni Coda, tra i più preziosi e misconosciuti registi dello sperimentale italiano: La storia di una lacrima (2021), liberamente tratto proprio dal libro di Welby intitolato Ocean Terminal (edizioni Castelvecchi). Coda compone l’affresco di Welby ibridando i linguaggi, impastando il cinema con musica, teatro e danza. Quello che emerge non è un ritratto realistico bensì un’evocazione, un umore, una sensazione di ciò che è stato Welby e la sua storia, dalla sfida a una legge sbagliata (“Voglio essere processato in tribunale”) sino alla lucida spiegazione della scelta: “Ciò che mi è rimasto non è vita, è un testardo accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche ”. E poi come sempre gli affetti, gli amici e gli attivisti: tutti coloro che circondano il morituro e lo assistono nel mettere in atto il suo proposito, in barba alla norma, al pensiero corrente politicamente corretto. Tante storie diverse, in molti scenari e Paesi, quelle raccontate dal cinema, con una costante: non c’è mai il disprezzo della vita ma sempre il rifiuto di viverla prigionieri nello scafandro del corpo. E c'è l’aiuto dei propri cari: perché la morte è anche un atto d’amore.