Una guerra senza vincitori - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Una scena da "Un autre monde", 2021
Una scena da "Un autre monde", 2021

Una guerra senza vincitori

I film di Stepháne Brizé rappresentano il mondo del lavoro senza troppi giudizi e intellettualismi. Dialogo su un cinema molto politico che non lascia dubbi: la responsabilità è sempre di chi osserva.

Una scena da "Un autre monde", 2021
Intervista a Stéphane Brizé
di Davide Mazzocco
Stéphane Brizé

è regista, produttore, sceneggiatore e attore. Il suo nome si lega a una trilogia di film sul mondo del lavoro, La legge del mercato (2015), In guerra (2018) e Un autre monde (2021).

Davide Mazzocco

è giornalista, autore di documentari, si occupa da anni di ambiente, cultura e comunicazione per il web e per la carta stampata. Ha all’attivo una quindicina di pubblicazioni fra cui Giornalismo online (2014), Propaganda pop (2016), Cronofagia (2019), Novecento lusitano (2019), Geomanzia (2021) e La mente è un luogo appartato (2022).

Un gruppo di lavoratrici e lavoratori che escono da una fabbrica. Il film che, con la proiezione pubblica del 28 dicembre 1895, segna l’inizio della storia del cinema è il cortometraggio girato dai fratelli Lumière al di fuori della loro azienda lionese. È cinema documentario che mostra la vita così com’è: quaranta secondi, senza montaggio, senza inganni. Centoventisei anni dopo, quell’arte ancora giovane che è il cinema continua a mettere il lavoro al centro dello schermo e lo fa con opere che mostrano il lato oscuro della globalizzazione, l’impatto della crisi sulle persone e la difficile transizione dell’occidente a un’economia post-industriale. Connazionale degli inventori della Settima Arte è Stephane Brizé, recentemente ospite della seconda edizione dei Job Film Days.

Sin dai suoi primi lungometraggi, Brizé si è dimostrato interessato al tema dell’occupazione e al ruolo che essa gioca all’interno delle dinamiche relazionali, ma negli ultimi anni – eccezion fatta per la trasposizione cinematografica di Una vita di Guy de Maupassant – le sue opere hanno posto il mondo del lavoro al centro della narrazione. Con La legge del mercato (La loi du marché, 2015), In guerra (En guerre, 2018) e Un autre monde (2021), il duo composto da Stephane Brizé e Vincent Lindon ha costruito la più vivida indagine cinematografica della meccanica delle relazioni sul luogo di lavoro ai tempi della crisi economica.

Il disoccupato Thierry, il sindacalista Laurent e il dirigente Philippe sono al centro di tre conflitti che mettono a nudo le spietate leggi di un mercato in cui i forti sono invisibili e intoccabili e i deboli sono sorvegliati, ricattati e resi vulnerabili dalle divisioni provocate ad arte da chi sta ai posti di comando. “Anche loro non sono d’accordo su tutto, ma quando si parla di soldi non si dividono mai” dice Laurent constatando con amarezza che i lavoratori dei quali ha difeso strenuamente l’occupazione hanno ormai ceduto alla prospettiva di un assegno di licenziamento più consistente.

È un’amarezza simile a quella che Thierry, dopo un lungo periodo speso fra colloqui e corsi di formazione, approda a un impiego di sorvegliante che lo pone negli scomodi panni di braccio destro dei tagliatori di teste. Anche Philippe messo alla prova dal ricatto dei suoi superiori deciderà di chiamarsi fuori da un sistema spersonalizzante e immorale: “La mia libertà ha un costo, ma non ha prezzo” scriverà nella sua lettera di dimissioni.

Abbiamo partecipato alla masterclass tenuta da Brizé nei giorni dei Job Film Days e intervistato il regista francese sugli aspetti più profondi della sua poetica e del suo metodo di lavoro. Ecco il resoconto di questo doppio incontro.

Singola - Com’è iniziato il suo percorso nel mondo del cinema?

Stephane Brizé - Fino all’età di vent’anni non ho mai letto un libro al di fuori dei 4-5 imposti dalla scuola, non ho mai visto film, se non le commedie di Louis de Funes che venivano trasmesse la domenica in televisione e non sono mai stato a teatro. Mi sono diplomato come perito e ho iniziato a lavorare alla televisione locale come tecnico. Fra i benefit concessi dall’emittente vi era una tessera per andare gratis al cinema e a teatro e questa possibilità mi ha aperto un mondo. Mi sono iscritto a un corso di teatro e ho iniziato a fare qualche regia e qualche prova d’attore. In quel momento ho compreso che quella era la mia strada e ho lasciato tutto per andare a Parigi. Era il 1987 e mio padre mi intimò di non farlo, gli risposi: “Se per fare quello che voglio il prezzo è non parlare più con te, non ti parlerò più”. Il mio percorso è iniziato così. Nel 1993 ho fatto il mio primo corto. Quando ho organizzato la proiezione nel mio paese, mio padre, con il quale non avevo più parlato, era morto da poco e non ha potuto vedere neanche un mio fotogramma.

 

SNG - Come sono nati i tre film che parlano del mondo del lavoro?

SB - Ognuno di questi film ha generato riflessioni e incontri che hanno aperto delle porte, dando origine ai film successivi. Non è stata una scelta fatta a priori, ma i film sono nati l’uno dall’altro. La legge de mercato è stato il mio primo film politico e devo dire che, inizialmente, non mi sentivo legittimato a trattare questo argomento. Non avendo frequentato né il mondo della politica, né quello del sindacato, mi sentivo carente. In realtà è stata la mia libertà. Se fossi stato il figlio di un sindacalista, avrei portato nei miei film una “mitologia del sindacato”. Un discorso che vale ugualmente se la vediamo dal punto di vista dei dirigenti. Con La legge del mercato ho capito che potevo esaminare il mondo del lavoro e i modi in cui gli esseri umani si muovono all’interno di esso, questo è un tema che genera tante tensioni anche a livello narrativo. 

 

SNG - Nei primi due film del suo trittico, La legge del mercato e In guerra, l’approccio al personaggio di Vincent Lindon è quasi opposto: una recitazione fatta di sottrazione nel primo caso, una performance sanguigna e di grande temperamento nel secondo. In questi due film, come in Un autre monde, il risultato è più vero del vero, ci si dimentica che quella a cui si sta assistendo è una finzione. Qual è il metodo di lavoro di Lindon, come approccia i personaggi per raggiungere simili risultati?

SB - Non posso parlare del modo in cui Vincent Lindon si avvicina al suo lavoro, non ne so nulla. È una specie di intimità che riguarda solo l'attore. Ed è anche molto probabile che un attore - Vincent o un altro - sia del tutto incapace di spiegare chiaramente il suo modo di lavorare. So solo che quello che mi sta molto bene è che Vincent Lindon mette in discussione tutto ogni momento: ogni situazione, ogni parola, ogni momento. La verità della sceneggiatura è continuamente confrontata con la sua verità organica. Spesso passa. E a volte, semplicemente, non funziona. Si tratta allora di capire cosa c’è di mezzo. E poiché non ci sono prove prima delle riprese, è sul set che lo scopriamo.

Stéphane Brizé a Cannes, 2018.

Stéphane Brizé a Cannes, 2018. | Georges Biard / Wikimedia Commons

SNG - Come si conciliano attori professionisti e non professionisti per mettere sulla pellicola una storia che deve sembrare vera?

SB - Io concepisco ogni opera di finzione come un documentario sugli attori. C’è uno Stephane Brizé che è uno sceneggiatore e scrive una sceneggiatura nei minimi dettagli e c’è un regista che arriva sul set e si misura con uomini e donne, professionisti e non professionisti, che si calano in una situazione. Sono estremamente pragmatico, quindi la mia ricerca per quanto riguarda gli attori è trovare l’interprete più giusto per svolgere una determinata funzione sullo schermo. Può trattarsi di un attore professionista o di un non professionista, di una cosa però sono sicuro: quello che sa fare un attore professionista nessun attore non professionista riuscirà a farlo e, viceversa, un attore professionista non riuscirà mai a fare quello che riesce a un non professionista. So per certo che nessun attore non professionista avrebbe potuto interpretare i ruoli di Vincent Lindon. Se in La legge del mercato e in In guerra Vincent è circondato da attori non professionisti, per quanto riguarda Un autre monde sapevo che né il ruolo della moglie, né quello del figlio potevano essere interpretati da non professionisti.


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In un’intervista Lindon ha dichiarato come il suo cinema non sia manicheo, non affermi ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, rendendo così lo spettatore “responsabile, politico e adulto”. In una fase storica così divisiva, dove sembrano affermarsi solamente le prese di posizione più radicali, questo è un atto di grande fiducia verso il pubblico. Qual è l’obiettivo di questa scelta deontologica?

SB - Non mi sento legittimato a dire dove sono i buoni e dove sono i cattivi nel nostro mondo, ciò che è comunque la base drammaturgica di molti film. In realtà non è nemmeno che non mi senta legittimato a farlo, è che non mi interessa forzare delle porte aperte. Voglio solo provare a catturare il più accuratamente possibile come funziona un sistema. E così facendo, cercare prima di vedere e capire come le donne e gli uomini agiscono e reagiscono all'interno di questo sistema di costrizione. E, in seguito, dare la possibilità agli spettatori di osservare le disfunzioni del sistema esposto. Questa fiducia nello sguardo di tutti è ingenuità in un mondo, appunto, dove le divisioni (tutte le divisioni) sono fortissime.

SNG - Mentre la lotta di Laurent è tesa a salvaguardare l’occupazione dei lavoratori della Perrin, l’elemento comune nelle storie di Thierry e Philippe è una pressione che viene esercitata sul protagonista non soltanto nell’ambito professionale, ma anche nella sfera privata.

SB - Il mondo è pieno di persone molto competenti che vogliono fare bene. Sono così desiderose di fare bene che quando incontrano una difficoltà professionale, nella stragrande maggioranza pensano che la difficoltà o l'incapacità di risolvere un problema venga da loro e non sia dovuta alla richiesta stessa. Questo è il problema con il personaggio interpretato da Vincent Lindon in Un autre monde: la sua incapacità di mettere in discussione le ingiunzioni che riceve. E finché un individuo non si permette di mettere in discussione il suo ambiente, è prigioniero di se stesso. E poiché il mondo aziendale è strutturalmente pieno di ingiunzioni ingestibili, i dipendenti portano inevitabilmente a casa i loro dubbi e le loro ansie, una dinamica che porta all’esplosione del nucleo familiare. Le ingiunzioni del mercato sono regolarmente deliranti, ma sono la conseguenza di una regola del gioco che è essa stessa delirante. Una regola del gioco economico consentita, organizzata e strutturata da leggi varate da politici che hanno deciso che l'Essere Umano è al servizio dell'economia e non viceversa. Basterebbe non farglielo fare.


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Ne La legge del mercato e Un autre monde il ruolo della famiglia è centrale.

SB - Se avessi fatto questi film 15 anni fa, l’immagine della famiglia non sarebbe stata così dolce. Dopo c’è stato un momento nel quale ho visto la virtù di questo spazio privato. Specialmente ne La legge del mercato, la famiglia rappresenta un pilastro, un luogo sicuro che resiste e protegge nelle tormente e negli scossoni della vita. In Un autre monde è Anne, la moglie del protagonista, a dire per prima che non vuole più vivere uno spazio vitale divenuto insopportabile. Pur amando ancora il marito, si accorge del fallimento del loro progetto di vita. È lei a fare il primo passo e ad avviare il processo di cambiamento di Philippe.

Una scena da

Una scena da "In guerra", 2018

SNG - L’episodio di Caroline e Philippe in Entre adultes, il lavoro di sorvegliante di Thierry strumentale all’impietoso taglio delle cassiere, la fermezza di Laurent nell’opporsi all’assegno di licenziamento proposto dal gruppo tedesco agli operai della Perrin e la proposta “da buon samaritano” respinta da Cooper, sono quattro punti critici nei quali i personaggi vengono posti di fronte a una questione morale. Quanto c’è di ricattatorio nel sistema capitalistico di oggi? E come è possibile sottrarsi alle spietate leggi imposte dal mercato?

SB - Ciò che è tragico in tutte queste situazioni è che salvare la propria umanità è una decisione personale. Non è mai una decisione di gruppo. E ogni volta, questa decisione viene presa a scapito di chi la prende. Come dice il personaggio interpretato da Vincent Lindon in Un autre monde, “la mia libertà ha senza dubbio un costo, ma non ha prezzo”. Che coraggio ci vuole per affermare e assumere questo! Rivela una domanda che permea tutti questi film: la questione del coraggio. Il coraggio è fare un atto che non abbiamo profondamente voglia di fare o il coraggio è fuggire da una situazione che ci porta ad abissi di ignominia e allo stesso tempo ci toglie una parte della nostra stessa umanità?


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Fra i molti punti di forza dei suoi film, vi è senza dubbio il linguaggio. In che modo il processo creativo riesce a raggiungere un simile livello di verosimiglianza?

SB - Quando immagino un nuovo film la prima scintilla è un’intuizione su un personaggio che si muove all’interno di un determinato universo. A quel punto inizio a incontrare persone che appartengono a quel mondo, comportandomi come se stessi facendo un lavoro giornalistico. Quando, dopo decine di colloqui, una serie di ricorrenze tematiche mi consente di iniziare a pensare alla sceneggiatura, io ho ormai assorbito come una spugna la dialettica dei singoli contesti. So che può sembrare paradossale, ma nella rappresentazione cinematografica delle riunioni degli alti vertici aziendali ho dovuto ridurre la violenza e la brutalità del linguaggio perché sarebbero state incredibili e caricaturali per gli spettatori. Ne La legge del mercato il solo attore professionista è Vincent Lindon, mentre in Un autre monde è affiancato da Sandrine Kiberlain e Anthony Bajon, tutti gli altri sono attori non professionisti che apportano il proprio slang. All’interno di una sceneggiatura dove tutto quello che viene detto è scritto, ho lasciato agli attori non professionisti la possibilità di riformulare il dialogo con un linguaggio da loro ritenuto più aderente alla realtà. 

 


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Anche i silenzi hanno un grande peso nei suoi film.

SB - Confesso di non essere un intellettuale. Penso di non essere stupido, ma non ho una capacità di elaborazione intellettuale così precisa. Forse da parte mia c’è la paura di porre delle parole su qualcosa che poggia sistematicamente su di un’emozione. Molto semplicemente si può ridurre al mio desiderio che ciò che rappresento deve sembrare vero. Finché quello che metto in scena non sembra vero, non compie la funzione per la quale io ho deciso di essere un cineasta. Dall’inizio della mia carriera la frase che io dico sistematicamente ai miei attori, professionisti o non professionisti che siano, è: “Ascoltatevi!”. Solo così si può arrivare a un grado di autenticità come quello che voglio raggiungere. A volte ci sono dei silenzi prolungati, altre volte voci che si sovrappongono e accavallano, come avviene nella vita reale. Tutto questo segue l’invito ad ascoltarsi, per poter ricreare qualcosa che sembri vero.


SNG -
Come funziona la scrittura del film?

SB - Per la preparazione di In guerra ho ascoltato 600 persone in colloqui di circa un’ora. Mettermi in ascolto di persone che hanno vissuto le esperienze che voglio narrare nel mio film, mi permette di raffinare la sceneggiatura. Eliminando ogni tipo di pregiudizio cerco di cogliere nelle parole degli intervistati echi delle storie che voglio raccontare. Al termine delle riunioni, quando devo iniziare la fase di scrittura, mi chiedo come io possa rendere appetibile il tema, creando una struttura narrativa in grado di mantenere alta la tensione del racconto. Tutto viene scritto e non c’è spazio per l’improvvisazione, se non, come dicevo in precedenza, nell’impiego delle parole portate dagli attori non professionisti. Incontrando tanto gli operai che i dirigenti riesco ad avere la situazione più organica possibile per poter scrivere dialoghi nei quali le emozioni possano coabitare con un pensiero strutturato. Nella creazione della struttura drammaturgica e dell’ordine delle sequenze sono solitamente affiancato da un co-sceneggiatore, ma quando arriva il momento della stesura del testo sono io a scrivere scene e dialoghi.

Una scena da

Una scena da "La legge del mercato", 2015

SNG - Quali sono i sentimenti prevalenti fra le persone che ha ascoltato?

SB - Così come avviene per il protagonista di Un autre monde, anche i quadri che ho ascoltato mi hanno manifestato un senso di solitudine immenso. Il sindacalista in conflitto che ho intervistato per preparare In guerra mi ha espresso un senso di abbandono e la voglia di fuggire e sparire. Durante il percorso fatto per preparare i tre film, ho compreso che ci sono quattro diversi modi di uscire da un sistema che ci costringe a operare contro la nostra volontà: il licenziamento, le dimissioni, la sindrome da burnout e il suicidio. Si tratta di soluzioni estreme che riguardano tutti. Con i miei film voglio spezzare la retorica del bravo operaio e del cattivo padrone, uscire dalla logica del conflitto di classe e spostarlo su un problema che è sistemico. Allo stesso tempo mostro quanto possano essere spietate le ristrutturazioni aziendali, perché i quadri che ho intervistato mi hanno raccontato di come vi siano strategie di linguaggio e atteggiamenti posturali molto precisi. I dirigenti sanno come gestire situazioni degenerate o come farle degenerare loro stessi, sanno come trattare con un operaio fuori di testa. Un responsabile del personale mi ha detto che conoscendo le situazioni familiari ed economiche degli operai, si può fare leva sulle persone più in difficoltà per far fallire le trattative sindacali. Riassumendo è come se ci fosse una ‘sceneggiatura’ molto ben definita prima che la trattativa vada in scena, un canovaccio nel quale, quasi sempre, ogni fazione ha la tendenza a sottovalutare la controparte.   


SNG -
L’ultima questione riguarda il sacrificio di Laurent al termine di En guerre. Come spettatore mi ha molto colpito e preso in contropiede. Mi ha fatto riflettere sulla potenza dell’immagine nel muovere le coscienze, ma anche sulla vigente legge del mercato nel settore giornalistico: finché la lotta si mantiene all’interno di regole e di rapporti di forza consolidati, pur in un contesto mediatizzato, gli operai della Perrin risultano sconfitti, solamente quando il leader del sindacato si immola per la sua causa, la “bolla mediatica” in cui vive la diatriba azienda-sindacato viene bucata e rende possibile il cambiamento. In un'epoca di polarizzazioni ed estremizzazioni sempre più radicali è questo l’unico modo per riuscire a farsi ascoltare dai mass media e per portare una problematica nel mainstream?

SB - Il sacrificio finale del personaggio in In guerra non è probabilmente motivato dal desiderio di salvare la sua battaglia. Senza dubbio è più il sacrificio di un uomo per suo nipote, un atto folle nel tentativo di risvegliare le coscienze e permettere a questo bambino di vivere in un mondo meno pazzo. Alla fine, ovviamente, il suo gesto non cambierà nulla per nessuno. Permetterà solo all'azienda di affermare sui media, con assoluto cinismo, di essere molto colpita dal gesto del proprio dipendente mentre, nella sua grande generosità, annullerà alcune sanzioni riprendendo il dialogo con i sindacati dei dipendenti. E quando il tempo della mediatizzazione di questo gesto sarà finito, non vi è alcun dubbio che la violenza sociale riprenderà là dove era stata interrotta.

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Questo articolo è parte della serie:  Visioni
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Stéphane Brizé

è regista, produttore, sceneggiatore e attore. Il suo nome si lega a una trilogia di film sul mondo del lavoro, La legge del mercato (2015), In guerra (2018) e Un autre monde (2021).

Davide Mazzocco

è giornalista, autore di documentari, si occupa da anni di ambiente, cultura e comunicazione per il web e per la carta stampata. Ha all’attivo una quindicina di pubblicazioni fra cui Giornalismo online (2014), Propaganda pop (2016), Cronofagia (2019), Novecento lusitano (2019), Geomanzia (2021) e La mente è un luogo appartato (2022).

Pubblicato:
08-10-2021
Ultima modifica:
08-10-2021
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