Il termine "naturale" è terreno di scontro in numerosi settori dell'industria contemporenea, a colpi marketing, inesattezze e le bugie di chi cerca di ridefinirne il significato. Una breve indagine.
di Dario De Marco
(1975) è stato redattore del mensile Giudizio Universale e editor di Esquire. Scrive di letteratura e cibo per CheFare, Dissapore, Esquire, L’Indiscreto, L'Integrale, La Ricerca. Ha pubblicato il romanzo Non siamo mai abbastanza (66thand2nd) e la non fiction Mia figlia spiegata a mia figlia (LiberAria). Nel 2021 è uscito il libro di racconti Storie che si biforcano (Wojtek).
Da un certo punto di vista, tutto è natura. Anche la cosiddetta cultura, che alla natura si contrapporrebbe: le creazioni, le invenzioni e i manufatti dell’essere umano, il quale però esso stesso appartiene alla natura.
Da un certo punto di vista, tutto è chimica. Qualsiasi cosa è composta di molecole, atomi, particelle subatomiche. Perciò non c’è, non ci sarebbe, nessuna differenza tra una sostanza reperita in natura, e la stessa sostanza sintetizzata in laboratorio.
Bisognerebbe andare al di là delle questioni nominali. Ma è impossibile. E allora dobbiamo chiederci: che cosa sono i prodotti naturali, e come facciamo a riconoscerli?
Quando abbiamo iniziato a pensare ai prodotti naturali, in campo alimentare e medico, come a qualcosa di positivo?
Da un po’ di anni a questa parte, abbiamo assistito a un grande ritorno dei prodotti naturali e in generale dell’apprezzamento per ciò che è poco elaborato, processato, artificioso, sottoposto a manipolazioni. Questo atteggiamento va di pari passo con una maturata consapevolezza ambientale: oggi chiunque si rende conto che la Terra su cui viviamo viene modificata dalle nostre azioni, e contemporaneamente che noi come altre specie possiamo subire conseguenze tragiche - sì, fino all’estinzione - da queste modifiche.
Ma precisamente, quando è che abbiamo iniziato a pensare ai prodotti naturali, in campo alimentare e medico, come a qualcosa di positivo? È un fatto recente, saremmo portati a pensare, ma forse no: “Niente nel campo della scienza della dietetica e della promozione di regole di vita sana e salutare nei tempi moderni è stato così rilevante come la sorprendente crescita e la popolarità dei cosiddetti healthy foods”, scrive un giornale dello Stato di New York, recentemente ripescato da Luca Cesari nella sua rubrica gastro-storica sul Sole-24Ore. Nel 1902, ben centoventi anni fa.
D’altra parte però, dobbiamo ammettere che c’è stato un lungo periodo, non molto lontano tanto che i meno giovani di noi lo ricorderanno, in cui il “rimedio della nonna”, la “medicina tradizionale”, la “ricetta popolare”, erano espressioni pronunciate con affettuoso distacco: vestigia di un tempo da guardare magari con un pizzico di nostalgia, ma caratterizzato da superstizioni, imprecisioni, credenze non scientifiche. Poi, qualcosa è cambiato.
Sarà stata la minaccia nucleare, sarà stato il buco nell’ozono (ai tempi in cui non si parlava ancora di riscaldamento globale), sarà stata la scoperta che non tutto ciò che viene da un laboratorio chimico è garantito al 100%: come il DDT, per esempio, che è stato usato per anni prima di scoprire la sua tossicità e la sua estrema persistenza; come la talidomide, sedativo che veniva somministrato alle donne in gravidanza, e che aveva la leggera controindicazione di far sviluppare nei feti orribili malformazioni; come oggi molti pesticidi e diserbanti ancora utilizzati in agricoltura convenzionale.
A un certo punto quindi si sono tornati a mettere in circolazione prodotti naturali: ma in un nuovo contesto, ormai industriale, ormai globalizzato. In cui quindi i produttori hanno potuto utilizzare concetti ed espressioni che stavano facendo breccia nella coscienza collettiva, come leve di marketing. E quindi il “come una volta”, il “100% ingredienti naturali”, il “buono pulito giusto” sono diventati slogan, strategie di comunicazione efficaci.
Tutto è diventato “naturale”: anche quello che palesemente non lo è.
I produttori di cibi e medicinali naturali hanno iniziato a mettere l’accento sulle differenze con i prodotti non naturali, a spiegare gli effetti negativi di questi ultimi sull’uomo e sull’ambiente, e invece i risvolti positivi dei primi. Si sono iniziati a mettere in guardia i consumatori rispetto a dei possibili segnali d’allarme: liste di ingredienti troppo lunghe, o presenza di elementi poco comprensibili, identificati da sigle numeriche o da nomi lunghissimi di chiara provenienza artificiale (“Non mangiare nulla che tua nonna non riconoscerebbe”, è la stracitata frase di Michael Pollan che apre In difesa del cibo).
Sennonché, è poi successa un’altra cosa: le frasi importanti sono diventate frasi fatte, i manifesti sono diventati slogan e poi cliché, l’informazione si è fatta retorica. Tutto è diventato “naturale”: anche quello che palesemente non lo è. Soprattutto, le grandi industrie multinazionali hanno visto che il vento girava, e sono entrate nel business: tutti hanno preso a proporre prodotti “sani e naturali”, è iniziata la grande epopea del greenwashing. È necessario allora approfondire il discorso.
Il consumatore, lo vediamo ogni giorno di più, per tornare a essere cittadino deve informarsi: e informarsi su quello che consuma, innanzitutto. Tra i prodotti presenti sul mercato, si possono distinguere:
1) prodotti direttamente naturali (e cioè composti interamente da estratti di piante e fiori).
2) prodotti di origine naturale ma contenenti ingredienti non vegetali (per esempio, i petrolchimici: anche i combustibili fossili sono di origine naturale, anche la plastica in un certo senso lo è).
3) prodotti che utilizzano molecole reperibili in natura ma sintetizzate chimicamente: le molecole sono tutte uguali? Lo vedremo tra poco.
4) prodotti che contengono un insieme di ingredienti naturali e artificiali e, in base alle leggi vigenti, sono etichettabili in modo da essere resi pressoché indistinguibili rispetto ai veri prodotti naturali: questo è l’aspetto in cui è più complicato orientarsi.
È fondamentale restare al passo per diventare consapevoli: l’educazione e la cultura non servono solo a fare le scelte giuste sugli scaffali dei negozi, ma a ripensare totalmente il rapporto con se stessi, con il proprio corpo innanzitutto, con la propria mente, e poi con l’esterno, per arrivare a costruire una società diversa.
Sgomberiamo prima però il campo da ogni equivoco: quando si esalta il prodotto di origine naturale, quando si mettono in luce i difetti e le conseguenze del sistema post-industriale contemporaneo, non vuol dire che si faccia una battaglia di retroguardia. Non significa rifiutare in toto la modernità, farsi propugnatori di una visione oscurantista e antiscientifica, invocare il ritorno del pensiero magico, e fesserie simili. È chiaro, è chiarissimo che i vaccini hanno salvato e salveranno milioni di vite. È ovvio che se mi becco un cancro, vado a farmi la chemio, e non penso di curarmi con la spirulina o il pane integrale.
Ma l’idea che, appunto, la scienza e la tecnologia siano un pacchetto unico da accettare o rifiutare in blocco (“non ti piacciono le trivellazioni? Allora smetti di usare il telefonino!”) è ideologia pura, da respingere.
Facciamoli, invece, i distinguo. E cerchiamo anche di andare al di là degli effetti immediati, a corto raggio, di ogni azione. Perché se è vero che non tutto ciò che esiste in natura è buono di per sé, la stessa regola vale anche per i prodotti industriali. La chimica di sintesi, come si accennava all’inizio, è in grado di riprodurre in laboratorio le molecole di sostanze naturali: non c’è nessuna differenza! E questo argomento è quello che viene spesso usato dai difensori dello status quo, dalle lobby industriali e dalle multinazionali del farmaco e della sanità.
Si potrebbe inquadrare la questione con uno di quei meme a strati, dove a ogni livello si scende più in profondità e si contraddicono gli assunti del piano precedente, ma con argomenti diversi. Sarebbe così:
Livello 0: viviamo nel migliore dei mondi possibili, tutto quanto fa l’industria è benedetto, tutto quello che si trova sugli scaffali dei supermercati e delle farmacie è da prendere a scatola chiusa, il reale è razionale, lo ha detto la televisione.
Livello 1: viva la natura abbasso la chimica, mia nonna si curava con gli impacchi di erbe e ha vissuto fino a novant’anni, mio nonno fumava e ha campato cent’anni, si stava meglio quando si stava meglio.
Livello 2: tutto è chimica, ignoranti, chimica organica per gli esseri viventi, inorganica per il resto, tu sei fatto di sostanze chimiche, casomai è corretto parlare di chimica di sintesi, ma anche in quel caso dare minore valore a una sostanza solo perché prodotta in laboratorio è indice di superstizione, le molecole sono tutte uguali, ti sfido a distinguere un Tavernello da un Barolo se non leggi l’etichetta.
Livello 3: eh… cosa abbiamo da dire? Abbiamo qualcosa da dire? Sì, varie cose. Innanzitutto: la chimica di sintesi, per definizione, semplifica. Produce la sostanza pura: poniamo, la vitamina C, ovvero ascorbato, o ancora meglio Acido L-Ascorbico (E300 nella tabella degli additivi, con i suoi derivati E301, E302, E303). La stessa vitamina, se ricavata da fonti naturali - come si è sempre fatto per milioni di anni, ricordiamo che l’uomo è tra gli animali che non riescono a sintetizzare questa sostanza da sé, a partire da altri elementi, dobbiamo introdurla dall’ambiente esterno, mediante alimentazione - non è mai pura, non è mai “sola”, sta sempre insieme ad altre sostanze che, se pure presenti in percentuale minore, in forma residuale, possono fare la differenza. A livello certo di sapore, se parliamo di cibo, ma anche di effetti, se parliamo di salute.
Questo primo argomento però, si dirà, è piuttosto grezzo e un po’ miope. Grezzo perché, di fatto, se i benefici il nostro corpo li acquisisce dalla molecola suddetta, che questa sia sola o ben accompagnata poco importa. Ma miope, come miope è anche questa obiezione, perché guarda solo al breve termine, e all’ambito circoscritto del corpo di un singolo essere vivente. In realtà quando si allarga lo sguardo, si capisce che tutto è connesso, e che ogni azione ha effetti sistemici: è necessario, direi è inevitabile, passare da un’ottica riduzionista a un’ottica olistica. Cosa che è successa ad Aboca, come racconta in un’intervista a Giovanna Zucconi la vicepresidente del gruppo Valentina Mercati: “Agli inizi Aboca studiava il naturale come si studiava all’epoca: per singole sostanze. Avevamo competenze solo per studiare quello che in erboristeria si chiama il “titolo”. Sarebbe come vedere nel vino rosso soltanto i tannini, senza coglierne la complessità. Una visione ancora riduzionista, eravamo un’azienda della natura ma con tecniche ancora riduzionistiche. Poi sono state sviluppate tecniche evolute: le scienze omiche, dalla genomica alla metabolomica, la bioinformatica, la biologia dei sistemi… Ma al di là delle evoluzioni tecnico-scientifiche, è stato per noi fondamentale avvicinarci alla teoria della complessità, grazie appunto alla nostra attività culturale (all’epoca erano le International Lectures). Negli anni, abbiamo sempre più interiorizzato la teoria della complessità e le scienze più avanzate, meno riduzionistiche. È stata un’evoluzione pazzesca”.
Le sostanze di sintesi, prodotte in laboratorio, entrano nell’ambiente e lo alterano. Secondo la Commissione Europea, il modo principale in cui i i prodotti farmaceutici entrano nell'ambiente è il loro uso. Generalmente tra il 30% e il 90% della dose somministrata per via orale di un'ampia gamma di farmaci comunemente usati viene espulso come sostanza attiva nelle urine e nelle feci: soprattutto dal consumo domestico, perché gli ospedali e le strutture sanitarie trattano le acque reflue in maniera tale da ridurre l’impatto. I medicinali hanno un impatto negativo sull’ambiente nei paesi in cui vengono venduti, ma ancor di più nei paesi dove vengono fabbricati. Alcuni dei principi attivi usati nelle medicine vengono prodotti nel rispetto dell’ambiente da fabbriche che utilizzano impianti di depurazione efficienti, ma troppi non lo fanno: il risultato è l'inquinamento nelle acque vicine, come laghi e fiumi che possono essere essere un'area di riproduzione per i batteri antibiotico-resistenti.
Sì perché uno dei tanti problemi di quello che genericamente chiamiamo “inquinamento”, e uno dei motivi per cui l’abuso di farmaci può trasformarsi in un enorme boomerang sociale, è quello che i microrganismi attaccati dagli antibiotici si evolvono, sviluppano resistenze e - per il meraviglioso meccanismo della selezione del più adatto - trasmettono le resistenze: un carattere minoritario può diventare prevalente nel giro di poco tempo, data la velocità di riproduzione dei batteri, e in pochi anni certi antibiotici diventano inutili, con conseguenze disastrose per tutto il mondo.
Un recente studio ha osservato questo fenomeno nel lago Kazipally in India. Poi ci sono i casi dei pesci che cambiano sesso a causa degli estrogeni nei fiumi; i farmaci anti diabete (come la metformina) che hanno invaso il lago Michigan; la storia inquietante del diclofenac, un anti infiammatorio veterinario che viene dato alle mucche nel subcontinente indiano, e che ha effetti letali sugli avvoltoi, minacciando di causare una interruzione della catena alimentare e di alterare gli equilibri naturali con conseguenze disastrose a cascata.
Tutto questo per dire che il concetto di “naturale” è connesso al tema della circolarità e della interdipendenza tra specie. Sono temi riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, sono discorsi che stanno emergendo anche a livello istituzionale. Si parla di One Health, riconosciuta ufficialmente dal Ministero della Salute italiano, dalla Commissione Europea e da tutte le organizzazioni internazionali quale strategia rilevante in tutti i settori che beneficiano della collaborazione tra diverse discipline (medici, veterinari, ambientalisti, economisti, sociologi etc.).
Non stupisce che un’associazione come SAFE Food Advocacy abbia lanciato una campagna a livello europeo che si chiama “We value true natural”.
C’è molto da fare, e molto si sta facendo. Alcuni degli esempi sopra riportati - i casi di inquinamento da farmaci, con conseguente sulla salute e sull’ambiente a causa di eccessi, scorretta gestione o errato smaltimento - sono tratti dal documento “Best Practice Paper on Green and Sustainable Pharmacy in Europe” del Pharmaceutical Group of European Union. Il paper invita a inserire nei percorsi di cura i prodotti naturali scientificamente avanzati in sostituzione dei farmaci tradizionali: sostanzialmente, e qui torna ancora il parallelo con il cibo più volte venuto a galla nel corso di questo articolo, ricalcando il percorso avviato nel campo agroalimentare con la strategia Farm to fork, propugnata dall’Unione Europea.
Non stupisce quindi che un’associazione come SAFE Food Advocacy abbia lanciato una campagna a livello europeo che si chiama “We value true natural”. A ben guardare, l’obiettivo è fare chiarezza sul termine “naturale”: non per mera pignoleria terminologica, ma per evitare percezioni inconsapevolmente errate (da parte del pubblico) e usi artatamente manipolatori (da parte dei produttori). Alla fine, quale sia il vero significato della parola naturale, siamo arrivati a capirlo? La risposta definitiva non ce l’abbiamo: ma esserci resi conto che è un problema, è già un primo passo.