Oscar, ritorno sulla Terra - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Oscar, ritorno sulla Terra

Il 2021 degli Academy offre la rosa di opere più variegata di sempre. Analisi di un'inclusività che non è più solamente professata.

Martina Barone

(1996) si interessa di teatro, cinema e arti digitali. Attualmente fa parte delle redazioni di My Red Carpet, StayNerd e NoSpoiler per cui svolge un lavoro di stesura di recensioni, approfondimenti e interviste, oltre a tenere una rubrica cinematografica sul portale YouTube di FilmIsNow.

Nel 2018, alla 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Roma di Alfonso Cuarón vince il Leone d’oro al Miglior film. Il regista messicano lavora da anni a Hollywood, ha già ricevuto la statuetta degli Oscar per la regia di Gravity, solo dopo essere passato per gli studios della Warner Bros. con Harry Potter e Il prigioniero di Azkaban e aver affrontato un futuro senza più bambini in I figli degli uomini. Oggi l’autore sente la necessità di legarsi di nuovo alla propria terra, alla sua casa. Ambienta perciò Roma nella sua città natale, in quel quartiere benestante messicano in cui vive la sua famiglia, di cui cerca di rievocare la solitudine e l’immobilità attraverso un bianco e nero luminoso e il silenzio delle lunghe panoramiche.

L’eccezionalità di Roma viene riconosciuta anche alla notte degli Oscar, con la vittoria al Miglior film straniero e la statuetta riconfermata ad Alfonso Cuarón, secondo premio ricevuto per la Miglior regia e che, questa volta, va segnando il profondo legame dell’autore con il suo Paese d’origine. Quello del 2019, per gli Academy, non deve essere stato un anno dalle scelte facili, visti i tanti successi possibili da poter premiare. Ma il vero problema non è stato il non aver avuto il coraggio di assegnare l’Oscar per il Miglior film a un affresco come Roma, bensì aver concesso il premio alla semplicità di un film come il Green Book di Peter Farrelly, opera sicuramente godibile eppure su tutt’altro livello rispetto al lavoro di scrittura e messinscena dei nominati A Star Is Born, Vice e La Favorita. Nonché una pellicola dall’impatto significativo quasi nullo, soprattutto se paragonata al BlacKkKlasman di Spike Lee e allo stesso Roma di Cuarón, con cui Green Book concorreva.

L’ironia della sorte vuole che Spike Lee veda così ripetersi la stessa sorte toccatagli nel 1990, quando A spasso con Daisy conquistò la statuetta, mentre il suo film-manifesto Fa’ la cosa giusta non venne nemmeno candidato come Miglior film. Questa volta per il cineasta la bruciatura è assai più vivida, visto che l’Academy nel 2019, proprio come per il film del 1989 diretto da Bruce Beresford, sembra essere andata sul sicuro scegliendo di premiare la pellicola di Farrelly, non rispettando l’impatto politico e sociale che gli Oscar potrebbero avere. Trattando entrambe di razzismo sistemico, smussato da un tono scanzonato e leggero, sia A spasso con Daisy che Green Book sembrano le scelte più facili da fare e su cui poter mettere tutti d’accordo, non volendo correre il rischio di premiare il cinema estremamente provocatorio di Lee, lasciandosi invece trasportare a suon di musica jazz sulle strade dell’America degli anni Sessanta.

Se da una parte, dunque, la vittoria di Roma comincia a significare qualcosa per l’industria e per i premi, rappresentando un incontro di dinamiche rivoluzionarie che vanno incontrandosi nella risonanza di un film in lingua non anglofona e finanziata da un colosso streaming come Netflix, dall’altra Green Book smorza il sommovimento che Hollywood sta tentando di avanzare, ma che non ha ancora avuto l’audacia di rendere chiaro. Peccando di un riconoscimento fintamente simbolico, andando a tirar fuori dalla lista dei candidati l’opera meno incisiva per messaggio e fattura, lodabile giusto per il grande plauso ricevuto dal largo pubblico, sono gli Oscar 2020 a cambiare le carte in tavola e a portare alla vittoria il primo film in lingua straniera della storia.

Parasite viene presentato il 21 maggio del 2019 alla 72esima edizione del Festival di Cannes. Il clamore è immediato. Anche Bong Joon-ho torna alla propria terra, a un cinema che ha abbandonato per i suoi due lavori precedenti, uno ambientato in un futuro distopico su di un treno in corsa, l’altro nella dicotomia che si crea tra la cultura ambientalista della protagonista di Okja e il suo vederla deturpata dalla volontà capitalista americana. Joon-ho riprende il suo fedele attore Song Kang-ho, che non aveva mai realmente abbandonato, vista la partecipazione nel lungometraggio Snowpiercer, e ritorna nel proprio Paese d’origine per renderlo setting della propria storia, così universale anche se collocata tra i seminterrati delle strade coreane e le ville costruite su misura, per reiterare la differenza di classe tra pian terreno comune, piano superiore riservato e bunker sottoterra e isolato. La sceneggiatura è a prova di orologeria, gli ingranaggi perfettamente incastrati. Tre atti, tre generi differenti, che vanno componendo uno dei film più complessi degli ultimi anni.

È così che, durante la notte degli Oscar 2020, Parasite riceve il premio più ambito, il riconoscimento più alto, il premio Oscar al Miglior Film. Inatteso, impensabile. Parasite, nel corso della cerimonia, ha già ricevuto il premio al Miglior film straniero, dando quasi per scontato che alla Corea del Sud non sarebbe spettato altro. E, invece, la celebrazione del cinema più importante dell’industria internazionale si apre completamente il 9 febbraio 2020, facendo un passo successivo nella propria esistenza dopo ben novantadue anni dalla prima notte degli Oscar. Una decisione che porta gli Academy a non rimanere più chiusi come un club esclusivo a cui a pochi è concesso di entrare, ma che rappresenta ora la diversità che è possibile trovare al di fuori dei propri confini.

Roma di Alfonso Cuarón e Parasite di Bong Joon-ho sono stati i semi gettati su di un terreno che, negli anni a venire, sarebbe stato pronto a riservare una nuova varietà di frutti, germogliati proprio nelle candidature agli Oscar 2021. È la parola inclusione ad aver agito da fertilizzante per un panorama di voci e contenuti molteplici e più eterogenei, che il cinema ha cominciato a mettere a fuoco facendo della diversità dei prodotti culturali la linfa vitale con cui approcciarsi al pubblico.

Le due opere appartengono a due autori che, seppure negli anni coinvolti nelle dinamiche hollywoodiane, hanno trionfato ritornando nella loro terra natale. Svincolandosi dalle leggi non scritte, eppure categoriche, che troppo spesso riconoscono come cinema solamente quello uscito dagli studios statunitensi, Roma e Parasite diventano barlumi di inclusività in opposizione alle catene produttive dei film premiati dagli Academy, riuscendo peraltro a raggiungere esorbitanti numeri in termini di pubblico. E, al medesimo tempo, mostrando luoghi e racconti appartenenti a posti che gli Oscar non sono soliti visitare, scoprendo quanto, in realtà, ogni storia possa poi rivelarsi universale.

I risultati portati da Roma e da Parasite trovano un'eco nei titoli in corsa quest'anno. Conquiste che contengono al proprio interno il senso di tutti i movimenti sociali e culturali che sono confluiti all’interno del panorama audiovisivo e introducendo una forte intersezionalità.

Intersezionalità partita dal 2017 grazie all’hashtag #MeToo, diventato nel corso del tempo parola sotto cui poter identificare i diritti di tante donne molestate, offese e silenziate negli anni. Personalità femminili che nella Hollywood post-Harvey Weinstein possono ritrovare la propria dignità vilmente calpestata nell’industria cinematografica (e non solo), potendo finalmente condividere la propria visione sedendo dietro ad una camera da presa e dirigendo le loro narrazioni, per troppo tempo ignorate. Intersezionalità che arriva fino alla battaglia diventata infuocata nel 2020 per il movimento Black Lives Matter, dove il voler respirare diventa non più solamente una richiesta di soccorso, come quella negata al morente George Floyd, ma un diritto che è andato confluendo tanto nelle strade cittadine, quanto nel cinema e nelle serie tv della black culture.

A collaborare è però, senz’altro, un fatto unico, una condizione comunitaria che ha “piegato” l’industria cinematografica così come eravamo abituati a conoscerla. Sarebbe impensabile non inserire la pandemia da Covid-19 all’interno del rodaggio che ha permesso a pellicole altrimenti trascurabili, ma non per ciò che riguarda i loro meriti, di brillare più di quanto Hollywood gli avrebbe permesso di fare, se incentivata a sospingere e sostenere esclusivamente i grandi nomi. Lo stato della distribuzione ha falsato le premiazioni cercando insieme titoli di qualità che avessero avuto anche modo di mostrarsi quest’anno al vasto pubblico. Opere che hanno incrociato l’opportunità di poter competere per i riconoscimenti più ambiti e premi più desiderati, così da potersi affermare anche al di fuori della propria cerchia, avendo l’occasione di toccare gente a cui, altrimenti, non sarebbero mai arrivate.

Solitamente la serata degli Academy è sempre caratterizzata dalla forte presenza di film definiti “da Oscar”. Opere che restituiscono un’idea di cinema sontuoso e grandiosamente costruito, basato sul glamour degli attori e il nome dei registi. Pellicole come Mank e Il processo dei Chicago 7, unici due film a cui si può applicare quella locuzione ormai superata e stringente che, in altri anni, li avrebbe visti sicuramente vincitori, ma che nel 2021 visto il fermento dei riconoscimenti li vede quasi come sfavoriti. A fare rumore quest’anno, infatti, sono film considerati da alcuni “minori” come i meravigliosi Sound of Metal, The Father e Minari: storie semplici, ma di una limpidezza tale da arrivare cristallina allo spettatore, nonché racconti che utilizzano il loro baricentro per far ruotare attorno al loro fulcro tutta una serie di emozioni legate ai sensi, ai ricordi e alle sensazioni. Opere di una grandezza mostruosa nel loro essere quasi minimali, dove il suono va disperdendosi nel condotto uditivo di Sound of Metal, nella memoria che va sgretolandosi del protagonista di Anthony Hopkins in The Father e nel senso di famiglia, di comunità, di casa in quanto patria che va ricostruendo il commovente film Minari.

È proprio quest’ultimo a proporre l’inedita politica aperta con Roma e Parasite. Prodotto in America, ma in lingua non anglofona e quindi, per la seconda volta nel giro di due anni, rappresentante di un tipo di cinema che, come ha affermato Bong Joon-ho durante il ritiro del suo premio Oscar, “può andare oltre il muro all’apparenza invalicabile dei sottotitoli”: Minari è la risposta ai motivi dell’immigrazione, racconta cosa comporta sentirsi lontani dalla propria casa. È una parentesi personale, che tocca però chiunque si trovi lontano dalla propria terra. È il desiderio di volerla vicino e il bisogno di non doverci mai rinunciare, pur rispettando il luogo in cui si è scelto di abitare. Una compenetrazione di emozioni e stati d’animo forte, come le verdure coreane che il protagonista Jacob Yi intende piantare e che crescono rigogliose sul terriccio statunitense; un combaciarsi di elementi dissimili tra loro, eppure capaci di sbocciare per restituire il senso di un ricordo, di un odore o di un sapore famigliare. I sacrifici cui la famiglia Yi è disposta ad affrontare, il lavoro duro e i tentativi di crearsi un proprio spazio in una realtà così grande, così immensa, colpiscono per la delicatezza di un film che segue i passi del suo predecessore, Parasite, ma che, al contempo, se ne distanzia categoricamente. Ancora un’altra cultura e un’altra occasione di poter vedere premiato un film che, pur ambientato in Arkansas, sembra arrivare da lontano per parlare a tutti. Una storia che è semi autobiografica per il suo autore Lee Isaac Chung, scritta e diretta per dedicarla alla figlia, di modo che potesse essere fiera di lui e, in parte, delle sue origini.

Minari non è l’unico asso sorprendente di questa stagione di premi. Chloé Zhao è al suo terzo lungometraggio, sulla scia del successo derivato da The Rider e con in tasca il Leone d’oro conquistato alla Mostra di Venezia, affidatole dalla presidentessa di giuria Cate Blanchett. Nessun film vincitore del riconoscimento più alto del festival ha vinto anche l’Oscar al Miglior film, almeno fino al 2018, quando La forma dell’acqua riuscì nell’impresa. Zhao è l’autrice di Nomadland, regista e sceneggiatrice nonché montatrice dell’opera basata sul libro della giornalista Jessica Bruder, per il quale vuole l’attrice americana Frances McDormand nei panni della “house-less" protagonista; c’è proprio una battuta del film in cui la protagonista dice: “Non sono senza-tetto, sono senza-casa". La regista la segue per le lande dell’America desolata e senza confini che si espande a vista d’occhio, facendosi culla per la donna ad ogni stazione di sosta in cui riposa. Nomadland è senz’altro il film più politico dell’intera corsa agli Oscar e lo è non necessariamente per la visione che promuove della vita nomade della protagonista Fern, né per la condizione che la giornalista Bruder ha riportato nel proprio libro, addolcita con armoniosità dalla mano di Chloé Zhao.

La famiglia protagonista in Minari, film di Lee Isaac Chung del 2020.

La famiglia protagonista in Minari, film di Lee Isaac Chung del 2020.

Nomadland è politico perché la sua regista incarna in sé due dei precetti di cui l’Academy vuole farsi portatrice dal 2021 in futuro, non tralasciando la magnificenza di una pellicola che vive anche grazie alla propria bellezza, ma che vede nell’autrice un senso di conquista per due interi gruppi identitari. Nomadland, come Minari, vede un’autrice cinese ricoprire il più alto incarico nella scala gerarchica della filiera industriale cinematografica americana. Una regista, sceneggiatrice e montatrice che conquista un ruolo di risonanza più o meno incontrastato nell’intero periodo delle premiazioni 2021, che la vedono già vincitrice di un Golden Globe per la Miglior regia e il Miglior film drammatico, con cui potrebbe fare doppietta ai premi Oscar facendo saltare in un unico colpo tutti quei freni sociali e culturali che avevano inceppato Hollywood per quasi più di novant’anni.

Chloé Zhao è poi una delle due donne candidate per il premio alla Miglior regia. Evento mai avvenuto prima nella lunga tradizione degli Academy, in cui era improbabile trovare anche solo una regista nella cinquina. È infatti esiguo il numero di personalità femminili dietro la macchina da presa che hanno potuto anche solo fiutare la possibilità di essere candidate. Un numero talmente irrisorio prima del 2021 da poter essere – letteralmente - contato sulle dita di una mano: Lina Wertmüller, prima donna in assoluto ad essere candidata nel 1977, ben quarantotto anni dopo la prima premiazione degli Academy, poi Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow e, soltanto nel 2018, Greta Gerwig con Lady Bird. Tra queste cinque pioniere degli Oscar, soltanto la Bigelow riuscì ad aggiudicarsi nel 2010 la statuetta per il lavoro svolto con The Hurt Locker, Miglior film di quell’anno.

Oggi, a più di dieci anni da quella vittoria, ad affiancare Zhao nell’impresa gigantesca di smantellamento dello status quo dei partecipanti e votanti degli Academy, c’è una personalità venuta fuori proprio nel corso dello scorso anno e che potrebbe contribuire alla rivolta portata avanti dai movimenti sociali, così da poter ribaltare Hollywood e renderla più inclusiva. È Emerald Fennell la sceneggiatrice e regista di Promising Young Woman, candidata in entrambe le categorie e che, con la sua rivisitazione del rape & revenge, ridistribuisce il potere nelle dinamiche di genere all’interno dei rapporti umani, ormai stremati dalla supremazia e dalla copertura del branco, pronto ad essere abbattuto dalla sua intrepida protagonista Carey Mulligan. Il capovolgimento di uno sguardo che non è disposto più solamente a subire e a sottostare alla prepotenza patriarcale, ma rivendica un’azione mirata e brutale verso coloro che per troppo tempo hanno praticato l’abuso senza pagarne le conseguenze. Un film che non poteva rimanere nell’ombra e che non avrebbe permesso a nessuno di silenziarlo senza restituirgli il clamore che merita. E che va dunque vedendo spalleggiandosi Emerald Fennell e Chloé Zhao in un essenziale traguardo per le svolte femministe nel campo dell’audiovisivo, dove la parità parte anche dalle opportunità che vengono offerte e dai pregi che finalmente vengono riconosciuti.

Nel frattempo, Chloé Zhao sta racimolando ogni premio possibile nella lunga corsa che porta fino al ricevimento degli Academy, in cui si ha la speranza di vederla vincitrice la sera del 25 aprile 2021 come pronosticato dalla maggior parte della schiera cinematografica. Una vittoria che potrebbe rappresentare la collettività del compartimento hollywoodiano contemporaneo. E che probabilmente verrebbe sostenuta anche da quello stesso Spike Lee che tanto si è battuto per l’inclusività all’interno degli Oscar (pur essendo stato escluso con il suo Da 5 Bloods), la cui scia d’integrazione si vede nella lista di candidati a Miglior film anche con il Judas and the Black Messiah sulla vita del leader delle Pantere Nere, il giovane Fred Hampton.

Ad interpretarlo è Daniel Kaluuya, tra i volti simbolo del filone black del cinema moderno di cui è stato uno dei perni fin dal suo debutto da protagonista con l’emblematico Get Out - Scappa di Jordan Peele. E che, dopo aver partecipato a ridisegnare l’immaginario mainstream afroamericano con il cinecomic Black Panther, si fa per il film di Shaka King attivista e sostenitore dell’organizzazione statunitense per i diritti di chi, per troppo tempo, è stato considerato solamente come pericoloso, come diverso. Kaluuya assume massa muscolare e le sue spalle si ingrandiscono per poter sostenere i contraccolpi di chi il ruggito delle Pantere voleva metterlo a tacere. A fiancheggiarlo è il compare Lakeith Stanfield, che racconta quella stessa black culture con ironia e intelligenza assieme a Donald Glover nella serie Atlanta. Volti già pieni di significato sulla scena cinematografica statunitense, che li vede riuniti per un’opera che combatte la violenza con la dolcezza inattesa del personaggio di Hampton, che si riempie delle parole dei suoi comizi e delle gesta del suo volontariato.

L’attivismo di Judas and the Black Messiah contribuisce alla formazione di questo meraviglioso quadro che mai si era espresso con tali pennellate, tutte così decise, luminose, fondamentali per far ripartire il discorso attorno alle visioni che l’arte cinematografica dovrebbe offrire. L’urlo polemico, ma giustificato di un #OscarSoWhite avviato nel 2016 dallo stesso Spike Lee, si è tramutato in una forma di inclusione che coinvolge un ventaglio di operazioni assai più esteso. Questo contiene nell’intersezione di razza e gender quel cinema polimorfico, fatto di storie di tutti i tipi, realizzate da personalità ogni volta differenti, pronte a mettere in discussione le nostre aspettative. Racconti che vanno contribuendo a quella che potrebbe essere una reale trasformazione dell’intera filiera industriale hollywoodiana, dove l’”All male nominees…” di Natalie Portman ai Golden Globe del 2018 potrebbe finalmente diventare davvero “All the nominees”.

Una molteplicità di visioni che ci trasporta direttamente nella serie Hollywood ideata da Ryan Murphy per Netflix, la quale attraverso la trasposizione di una realtà ucronica mostra cosa sarebbe potuto avvenire se l’industria americana avesse dato fiducia durante l’epoca d’oro del cinema a quelle categorie che non venivano, invece, considerate. Hollywood ragiona sul ruolo delle donne, delle minoranze etniche e delle preferenze sessuali, evidenziando cosa sarebbe potuto nascere dall’unione di persone diverse collegate dall’amore per il grande schermo, e non l’allontanamento subito da quest’ultime, escluse dalle loro stesse storie. La ghettizzazione di individualità femminili, asiatiche, afroamericane ha infatti privato per troppi anni il cinema mondiale di uno sguardo che potesse restituire i sentimenti di queste identità secondo linee guida che corrispondessero alla loro percezione, e non a quella di una stanza composta solamente da uomini caucasici d’orientamento probabilmente eterosessuale che parlavano al loro posto.

La Hollywood di Murphy affronta, nel microcosmo finzionale delle sue sette puntate, un’alternativa a ciò che la Storia ha offerto e che vede un incredibile cambio di marcia il quale, nella realtà, è avvenuto molto più tardi, novantatré anni dopo la prima serata degli Oscar del 1929. Una serie la cui gamma di differenze è visibile già partendo dal cast, con Jeremy Pope nella parte di un aspirante sceneggiatore, Laura Harrier a rappresentare la prima vera diva di colore degli studios hollywoodiani e Jim Parson nelle vesti di un sadico produttore omosessuale che si conforma all’ipocrisia dell’industria cinematografica. Un finale il cui “felici e contenti” è un meraviglioso spiraglio su “Cosa sarebbe potuto essere…”, a cui va scontrandosi la crudeltà realtà del “Cosa è stato”.

Hollywood sembra però già cominciare con tre anni di anticipo quello che, nel sistema di partecipazione alla statuetta, verrà introdotto come nuovo metodo per poter ambire al premio Oscar al Miglior film. Regolamentazione introdotta dopo la vincita di Parasite e prima dell’annuncio delle candidature 2021, a sottolineare come il processo di mutazione in atto è già avviato e ribolle pian piano, pronto a farsi realtà concreta dal 2024 con inediti requisiti da dover rispettare per poter aspirare alla vittoria. La decisione arriva dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che per il progetto Academy Aperture 2025 tenta di promuovere una comunità cinematografica più equa e inclusiva, con quattro standard stabiliti di cui due obbligatoriamente da rispettare per poter accedere alla nomination al Miglior film. I requisiti si concentrano sull’inclusività nella trama di categorie sottostimate fino ad oggi, dalle donne alle comunità asiatiche, ispaniche, indigene, afroamericane, tutte quelle etnie sottorappresentate che dovranno perciò essere presenti nel racconto, secondo stime e percentuali che cercano un bilanciamento narrativo in grado di abbracciare tutti.

Se, però, questo primo standard non rappresenta i temi e i personaggi che si vogliono portare con la propria storia al cinema, basterà rifarsi ad altre due delle tre categorie che indicano i requisiti rimanenti. Quelli che richiedono che ci siano delle quote sempre in riferimento a delle categorie solitamente ignorate per ragioni di genere o di razza, inserendole in ruoli di leadership o meno (valutazioni sempre in base alla percentuale) tra le maestranze, per giungere poi all’accesso ad apprendistati e stage retribuiti e, infine, a quelle frange che si interessano di marketing, distribuzione e di pubblicità del film.

Certo non è mancato chi ha bollato come precetti del politicamente corretto queste nuove regole di adesione, non curandosi di valutare cosa ha significato per anni far parte anche solo di una di quelle categorie che per tanto tempo hanno tentato di affermarsi nell’industria cinematografica, ma che ha trovato di fronte a sé muta indifferenza e ostacoli insormontabili. Quella delle regole applicabili dal 2024 dagli Academy è un’opportunità che sta iniziando a smuoversi già grazie al cinema stesso, alla scalata che ha intrapreso da diversi anni e che ha mostrato la sensibilità adeguata a sapersi rapportare ai tempi che cambiano, alle testimonianze raccolte, alla scoperta della varietà di idee e visioni del panorama audiovisivo interazionale. E in generale di tutte le arti: letteratura, cinema, serie tv.

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Questo articolo è parte della serie:  Visioni
USA - 2021
Arti
Martina Barone

(1996) si interessa di teatro, cinema e arti digitali. Attualmente fa parte delle redazioni di My Red Carpet, StayNerd e NoSpoiler per cui svolge un lavoro di stesura di recensioni, approfondimenti e interviste, oltre a tenere una rubrica cinematografica sul portale YouTube di FilmIsNow.

Pubblicato:
23-04-2021
Ultima modifica:
12-05-2021
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