Questa è una storia vera - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Billy Bob Thornton in “Fargo.”
Billy Bob Thornton in “Fargo.” | Copyright: Matthias Clamer / FX

Questa è una storia vera

Fargo è una serie FX che tesse una controstoria del secolo americano in modo barocco e postmoderno. Un'analisi.

Billy Bob Thornton in “Fargo.” | Copyright: Matthias Clamer / FX
Giovanni Bitetto

ha scritto per The Vision, Flanerì, il Tascabile, L'indiscreto. Ha pubblicato il romanzo Scavare (Italosvevo, 2019).

Da quando le serie tv si sono imposte come forma artistica predominante dell’intrattenimento popolare abbiamo visto prodotti che applicano con vari esiti, felici o meno, le tecniche di storytelling a disposizione della contemporaneità. Allo stesso modo è risolto in diverse modalità l’eterno conflitto, in seno all’arte postmoderna, fra realtà e finzione. Le serie tv contemporanee puntano a mischiare vero e artefatto in modo che sia quasi impossibile scindere l’uno dall’altro.

Si va dunque da serie che novellizzano interi periodi storici, come il fortunato caso di The Crown che riesce a romanzare addirittura una storia ancora in divenire come quella del regno di Elisabetta II – o le varie diramazioni del brand Narcos, fino alle docuserie che ambiscono a “esporre la verità dei fatti”, è il caso di molti prodotti di genere crime come The Jinx o Making a murderer, che tuttavia non disdegnano di complicare l’intreccio tramite ellissi, flashback o flash forward cari alla narrativa di genere.
Nel mezzo un’infinità di prodotti che si rifanno a format già sperimentati in decenni di televisione, o serie dai toni epici che ambiscono a farsi racconto epico e corale – il cosmo del Trono di Spade, il multiverso di Westworld, fra i tanti. Una serie come Fargo che si fa carico di tutto l’armamentario narrativo postmoderno per raccontare, seppur nella prospettiva di una non troppo velata critica sociale, una storia prepotentemente fittizia – appare, paradossalmente, un caso controcorrente.
Come nel film dei Coen, anche Fargo si apre con il classico disclaimer che sentenzia “Questa è una storia vera”, avvertenza quanto mai ironica data la complessità barocca delle storie messe in scena. Una sorta di sberleffo alle pretesa di verità di tanti prodotti della tv contemporanea. Nelle parole dello showrunner Noah Hawley l’intento di Fargo è “decostruire la bugia con cui si apre ogni episodio, quell’appello alla verità impossibile in un prodotto di finzione”. Partendo dal magistero coeniano l’autore ha creato un universo a sé stante, che, pur ricordando nell’estetica la cifra stilistica dei Coen, vive delle proprie regole. Arrivati alla quarta stagione, l’epica della provincia americana messa in scena da Fargo non smette di dispensare storie di grande valore.

La scrittura di Hawley è brillante, eccessiva, ma allo stesso tempo minuziosa nella resa dei rapporti sociali che reggono una piccola comunità, fra gerarchie criminali, familiari, vite comuni ed esistenze borderline. Si tratta di una scrittura che, per l’appunto, si rifà al postmodernismo americano, e che avvicenda toni da commedia a episodi marcatamente noir. I personaggi di Fargo somigliano in qualche modo a quelli di Twin Peaks, sono descritti attraverso tic e ossessioni, eppure, di episodio in episodio, soppesando scelte e reazioni, si evince quanta attenzione psicologica ci sia nella loro costruzione.
Il tono del racconto è vario e non sempre ancorato al realismo, se infatti è innegabile che, poiché afferente al genera crime, a farla da padrona sono le atmosfere noir, vi sono incursioni in generi altri e quantomeno bizzarri per un racconto che potrebbe scorrere sul binario del poliziesco classico. Nella seconda stagione, complice l’ambientazione anni Settanta, spesso vi sono interventi e avvistamenti degli alieni, come a omaggiare i b-movies del periodo, un chiaro segno dell’ambizione degli sceneggiatori ad architettare un raffinato pastiche con tanto di arguto gioco citazionista. Allo stesso modo nella quarta stagione vi è una sottotrama horror in grado di allegorizzare l’inconscio dei protagonisti.

La serie, in consonanza con il film, pone un’importante riflessione sulla violenza. Una violenza che presenta tre caratteristiche fondamentali: innanzitutto il livello di penetrazione endemico all’interno del corpo sociale, usata al di fuori della legge come strumento per dirimere i conflitti e affermare nuovi rapporti di potere. Nei nonluoghi della provincia americana messi in scena – che diventano per sineddoche i nonluoghi della società capitalista tutta, punti sulla mappa di un’infinita catena di produzione, in cui le piccole comunità si riconoscono in magazzini di stoccaggio o capannoni di industrie pesanti – sembra quasi che la violenza sia la forza normativa, il vero codice da seguire per l’affermazione personale, in un vuoto simbolico e legislativo che non sanziona, anzi incentiva, i rapporti di potere vessatori.
Questo è evidente, ad esempio, nelle figure di Lorne Malvo nella prima stagione e di V. M. Vargas nella terza. Sono due personaggi che si muovono fra legalità e illegalità e, da antagonisti, introducono lo spettatore ai rapporti di potere che tengono insieme, in maniera neanche troppo occulta, la comunità. Nella prima stagione il personaggio interpretato da Billy Bob Thorton si configura come un maestro per Lester Nygaard, interpretato da Matin Freeman, un uomo della classe media che si trova subitaneamente catapultato del demi-monde criminale del Minnesota. Nella terza stagione V. M, Vargas, messo in scena da David Thewlis, fra riciclo di denaro e truffe assicurative mostra, la violenza burocratica, fra il simbolico e il concreto, della macchina capitalista che macina soldi e desideri a pieno regime.

Inoltre la violenza è improvvisa ancorché esibita, esplode da un momento all’altro in maniera granguignolesca, ma non è nascosta, sottesa, anzi è esercitata alla luce del sole, rafforzando quell’idea di vero strumento di potere. Ma paradossalmente – è questo costituisce il terzo punto della riflessione – la violenza è anche stupida, il suo scoppiare in maniera improvvisa dà adito a equivoci o a scene buffe: i personaggi di Fargo quando vengono alle mani sono goffi, sembrano non a proprio agio con lo spazio attorno a loro, allo stesso modo può capitare che inciampino, si feriscano accidentalmente, ammazzino qualcuno per sbaglio dopo aver lasciato partire un colpo fortuito, diano adito a improvvisi cambiamenti di trama, la violenza con la capacità di definire i rapporti di potere, di costruire improvvise fortune, allo stesso modo disfa ciò che costruisce, è un potere estremamente crudo ma anche grottesco, una forza che non si può contenere o amministrare correttamente, il cui esercizio, in ogni modo, corrompe.

Chris Rock in

Chris Rock in "Fargo". | Matthias Clamer / FX

Le quattro stagioni di Fargo intessono una controstoria del secolo americano, sia nello spazio che nel tempo. Ogni stagione è ambientata in un decennio diverso: la prima nel 2006, alle soglie della crisi economica, ed è sintomatico che coinvolga un uomo della classe media ingolosito da un affare sporco più grosso di lui. La seconda si svolge nel 1979 – quindi fra i Settanta della recessione e gli Ottanta della svolta neoliberale – ha la struttura di una tragedia greca e narra la storia di una famiglia di autotrasportatori. Gli avvenimenti della terza si svolgono nel 2010, e si incentrano sui dissidi di due fratelli, entrambi interpretati da Ewan McGregor, dalle alterne fortune: uno è un addetto alla sorveglianza squattrinato, l’altro un ricco imprenditore. Industria pesante, logistica, lavori di fatica, e allo stesso tempo truffa, estorsione, intimidazione: Fargo mette in scena i rapporti di produzione del capitale, sia che ricadano nel lecito, sia che sfocino nell’illecito. La lezione del capitalismo americano, in apparenza ben poco appetibile, viene raccontata da Hawley come un grande romanzo a episodi, i cui snodi sono drammatizzati da personaggi iconici e sopra le righe.



La quarta stagione, ambientata degli anni Cinquanta, è la più esplicitamente politica del novero. Al centro della storia c’è la lotta per la supremazia di due bande criminali, una di immigrati italiani e l’altra afroamericana. Nonostante gli appoggi politici e il crescente potere che i due clan acquisiscono all’interno di Kansas City, sovente riaffiora il passato di esclusione dei propri membri: vite emarginate, storie di immigrazione, disagio sociale. Un paniere di esperienze borderline che getta la sua ombra sul presente e condiziona la vita dei protagonisti. Cos’è l’America? A cosa ci ha educato? Questo si chiedono incessantemente i membri delle famiglie rivali Cannon e Fadda, la risposta sembra essere: l’America è la violenza, la cultura dell’America è l’educazione alla sopraffazione, la competizione capitalista è il codice di comportamento da introiettare per diventare cittadini americani. Ed ecco che il passato, le vessazioni patite, si riversano sotto forma di agonismo e sete di potere nei desideri dei boss mafiosi. Ma il gusto per il gangster movie, le scene più cruente o quelle slapstick recitate dallo strano due Salvatore Esposito/Jason Schwartzman, riportano sempre al quesito morale che viene posto a inizio stagione.

 

Fargo capovolge la prospettiva di un’altra fortunata serie come True Detective. Anche l’opera di Nic Pizzolatto ha l’ambizione di raccontare l’America profonda – che siano gli stati della Bible Belt percorsi dalla superstizione o i fatiscenti sobborghi di Losa Angeles – usando gli strumenti del noir e del poliziesco, ma il tono del racconto è scandito con tono grave e cercando una certa coesione stilistica tendente al realismo, tutti gli accenni al soprannaturale sono poi ricondotti facilmente sul piano della psicopatologia dei vari serial killer che, di stagione in stagione, operano nel microcosmo di True Detective. Attraverso storie scarne e cupe Pizzolatto interroga quesiti metafisici ed esistenziali. Al minimalismo di True Detective si oppone la saga barocca di Fargo che approda al realismo dopo un tortuoso giro nello sperimentalismo formale. Eppure allo stesso modo la critica sociale non ne esce inficiata, anzi colpisce lo spettatore inebriato da un racconto brillante. Siamo dalle parti della satira pynchoniana o della sovrabbondanza stilistica di David Foster Wallace, o più semplicemente Hawley declina su piccolo schermo l’intuizione cinematografica dei Coen. In ogni caso ci troviamo di fronte a un prodotto prezioso, un piccolo gioiello di cui godiamo da quattro stagioni.

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Questo articolo è parte della serie:  Visioni
Globale - 2021
Arti
Giovanni Bitetto

ha scritto per The Vision, Flanerì, il Tascabile, L'indiscreto. Ha pubblicato il romanzo Scavare (Italosvevo, 2019).

Pubblicato:
21-01-2021
Ultima modifica:
21-01-2021
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