Negli ultimi anni il cinema italiano ha trovato un nuovo modo per raccontare la vita all'interno delle prigioni. Quotidianità e difficoltà, speranze e aspirazioni nelle immagini dei nostri registi.
Cercando la voce 'film carcerari' su un qualunque motore di ricerca il risultato si riduce a un elenco quasi esclusivo di storie di evasioni, grandi violenze, atroci ingiustizie. La narrativa sul tema, infatti, cerca in gran parte l'eccezionalità, l'odore del sangue, l'impresa – quale che sia: come può essere avvincente una storia che provi a raccontare quella prigionia come luogo di riabilitazione, di miglioramento personale, di mutuo aiuto tra simili e non solo?
Il cinema italiano negli ultimi anni, con un solido aiuto che arriva direttamente dal teatro, sta cercando invece una via alternativa, sempre più interessata a mostrare l'aspetto meno spettacolare ma senza dubbio più quotidiano, realistico, introspettivo. Strano che ciò avvenga in un Paese come l'Italia, dove spesso il tema-carcere è dimenticato o sottovalutato e l’articolo 27 della Costituzione recita inascoltato che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Se troppe volte le condizioni delle prigioni italiane e dei loro 'ospiti', purtroppo, a tutto fanno pensare tranne che a luoghi di rieducazione, cinema e teatro – con alcuni meritevoli esempi e simbolici personaggi – sembrano interessati ad andare nella direzione opposta.
Non i primi (c'era stata nel 2008 l’operazione realizzata da Davide Ferrario all’interno del carcere Le Vallette di Torino, Tutta colpa di Giuda, curiosa commedia-musical girata con la partecipazione di molti detenuti e di alcune guardie carcerarie) ma sicuramente i più conosciuti e riconoscibili al grande pubblico a seguire questa nuova strada sono certamente stati i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, che nel 2012 con il loro Cesare deve morire vinsero il festival di Berlino senza mai far uscire i loro attori, in gran parte detenuti, dal carcere romano di Rebibbia.
“Un'amica ci disse – raccontava Vittorio alla Berlinale in conferenza stampa – che in Italia c'era un posto, a teatro s'intende, dove ancora si sentiva l'emozione, dove ancora si usciva piangendo. E ci disse che il luogo era il palcoscenico del carcere romano. Bene, ci siamo andati, abbiamo visto i detenuti recitare alcuni canti della Divina Commedia e con Paolo ci siamo subito detti che volevamo fare qualcosa, e sarebbe stato il Giulio Cesare”. Grazie alla collaborazione con Fabio Cavalli nasce quindi un film che è rappresentazione di quell'opera shakespeariana, girata nei vari spazi del carcere, filmata in bianco e nero e interpretata da attori formatisi in quegli stessi ambienti.
Il genovese Cavalli è attore, regista, autore, scenografo, produttore, docente universitario e – soprattutto, in questo caso – fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. Oltre al lavoro sul palcoscenico, negli ultimi anni ha esordito nella regia di documentari che evidenziassero l'aspetto umano e dimenticato della realtà carceraria. Prima, nel 2019, con Viaggio in Italia: la Corte Costituzionale nelle Carceri, per il quale ha accompagnato sette giudici della Corte Costituzionale a incontrare i detenuti di sette Istituti penitenziari italiani; poi nel 2021 con Rebibbia Lockdown, in cui ha seguito quattro giovani laureati alla Luiss incaricati dalla allora Ministra della Giustizia, Paola Severino, di accompagnare i reclusi di Rebibbia nel percorso universitario verso la laurea in Giurisprudenza, prima che l'arrivo del Covid-19 fermasse tutto rendendo il carcere ancor più chiuso, forse come mai in passato.
Il regista Leonardo Di Costanzo ha ambientato le storie di tutti i suoi lungometraggi in luoghi circoscritti, 'prigioni' virtuali come l'edificio abbandonato in cui una giovane testimone viene tenuta in custodia ne L'intervallo e del centro napoletano in cui trovano rifugio le famiglie in difficoltà del successivo L'intrusa. Con la sua ultima prova – Ariaferma, presentata alla Mostra di Venezia 2021 – Di Costanzo si conferma cantore perfetto e particolarmente ispirato di storie 'recluse'.
Il film è ambientato nel carcere di Mortana (in realtà il vero ex-carcere di Sassari) e racconta la storia di alcuni agenti e di un gruppo di detenuti obbligati a restare qualche giorno supplementare nella struttura dopo il trasferimento di tutti gli altri. “Il carcere di Mortana nella realtà non esiste: è un luogo immaginario, costruito dopo aver visitato molte carceri”, spiega il regista nelle note di presentazione. “Quasi ovunque abbiamo trovato grande disponibilità a parlare, a raccontarsi; è capitato che gli incontri coinvolgessero insieme agenti, direzione e qualche detenuto. Allora era facile che si creasse uno strano clima di convivialità, facevano quasi a gara nel raccontare storie. Si rideva anche. Poi, quando il convivio finiva, tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realtà, noi esterni avvertivamo spaesamento. E proprio questo senso di spaesamento ha guidato la realizzazione del film: Ariaferma non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”.
Nei giorni sospesi della narrazione tutti i protagonisti del film vivono in una dimensione altra, in cui le differenze tra loro sono drasticamente ridotte e una nuova umanità appare possibile. Una sensazione e un'emozione che traspaiono evidenti alla visione e coinvolgono il pubblico in sala, posto di fronte a persone con emozioni e sentimenti e non solo a freddi numeri, a un corpo di detenuti compatto e da punire. Il merito primo di questa efficacia è nella scrittura della sceneggiatura, sviluppata da un soggetto di Di Costanzo da Valia Santella e Bruno Oliviero.
Storico collaboratore di Di Costanzo, Oliviero ha iniziato il suo percorso di avvicinamento al tema del carcere e a tutte le sue sfumature tempo fa, grazie all'incontro con Mimmo Sorrentino, drammaturgo e regista che ha spesso lavorato in carcere e insieme ai carcerati. Un primo incontro sul set del film Nato a Casal di Principe e poi nel 2020 una seconda avventura culminata nella creazione del documentario Cattività, che racconta l’esperienza unica del teatro in carcere per un gruppo di detenute della sezione femminile della casa circondariale di Vigevano, sottoposte a un regime di Alta sicurezza. “Di solito – racconta lo stesso Oliviero – si raccontano detenuti o detenute che mettendo in scena un testo operano una sorta di catarsi e si mostra questo processo di costruzione di un 'nuovo impegno', che sono persone capaci di fare altro oltre che i criminali. Noi non le vedevamo come detenute, lo erano solo occasionalmente: erano persone fortunate per avere incontrato qualcuno che iniziava a smuovere qualcosa dentro di loro, qualcosa che riguardava loro stesse. Non eravamo di fronte a capolavori del teatro – come in Cesare deve morire, ad esempio – qui sono le loro esperienze che diventano letteratura”.
Un'esperienza decisiva, ammette Oliviero, per rendere Ariaferma quel piccolo capolavoro di empatia e di sensibilità che è diventato. “Ha rimodellato il cinema che vorrò fare, ho capito una volta per tutte che si può costruire un cinema che sia radicale ma anche molto diretto, semplice, espressivo. Da Cattività è 'nato' Ariaferma, un film particolare drammaturgicamente che tiene conto di questa esperienza”.
Il film di Leonardo Di Costanzo è simbolico di un nuovo modo di approcciare il tema e vede nel suo cast uno dei nomi più rappresentativi di questo percorso, Salvatore Striano, nel ruolo di Cacace. Striano si è formato professionalmente a Roma, proprio all’interno del carcere di Rebibbia. Dopo aver conosciuto anche la dura esperienza del carcere minorile, è stato recluso per alcuni anni nel penitenziario romano dove grazie ai laboratori condotti da Fabio Cavalli ha scoperto Shakespeare e il teatro. Applaudito protagonista di Cesare deve morire – a cui è giunto dopo aver diviso il palco con talenti del calibro di Emanuela Giordano e Umberto Orsini, e qualche piccola parte al cinema –, Striano accetta di rientrare per diversi giorni all'interno del carcere in cui per anni è stato prigioniero per l'espiazione (artistica) definitiva, guidando gli altri detenuti in una performance indimenticabile.
Curiosamente, poche settimane dopo quel festival di Berlino vinto dai Taviani, emerge il talento di Aniello Arena (ormai attore consacrato, da Martin Eden a La paranza dei bambini e recentemente protagonista di Ultras su Netflix), acclamato protagonista di Reality di Matteo Garrone, Gran Premio Speciale della Giuria nel 2012 al festival di Cannes. Arena, che rischiò di vincere un premio personale sulla Croisette, non aveva potuto presenziare alla prima né alla conferenza stampa francese: nel 1991 era stato condannato per omicidio e ancora scontava l’ergastolo, facendo l’attore di giorno prima di tornare in carcere ogni sera a mezzanotte. In quei giorni di Cannes venne intervistato da Ed Vulliamy di The Guardian rivelandogli parole estremamente chiare sul potere che il cinema può avere nel percorso di rieducazione: “Non mi sento prigioniero solo perché dormo in carcere. Sta tutto nella testa: quella che chiamano realtà, la libertà, tutto è nella testa, nella mia testa. E nella mia testa sono libero”.
Emblematico e in più sensi 'liberatorio' è l'ultimo titolo da citare in questo excursus, nella consapevolezza che presto altri autori e altre autrici sapranno inserirsi nello stesso solco. VR Free (We are free), diretto da Milad Tangshir e girato in diversi padiglioni della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, è un documentario che utilizza la realtà virtuale per far dialogare il 'dentro' e il 'fuori'. Per contrastare la deprivazione affettiva, ai detenuti è data la possibilità, attraverso dei visori VR, di rivivere alcuni momenti della loro quotidianità che a causa della condizione detentiva non possono più esperire, permettendo al contempo allo spettatore di 'vivere', seppure filtrata ma quantomai tangibile, l'esperienza della loro reclusione.
“Ho sempre creduto molto nel potenziale delle tecnologie applicate alla sfera sociale e artistica”, spiega la produttrice del progetto con l'Associazione Museo Nazionale del Cinema, Valentina Noya. “Da anni ormai studio e lotto nel mio piccolo, nelle mie attività di formazione più o meno informale, per l'utilizzo di metodologie visuali partecipative per auscultare comunità, minoranze e problematiche sociali con il video partecipativo. Appena Milad ha schiuso l'opportunità di abbinare VR e carcere – un contesto, un campo di studio e d'azione quest'ultimo che ormai a Torino conosco molto bene – è come se mi si fossero spalancate mille porte nella mente: è iniziato così un processo creativo molto bello per cui ringrazio a mia volta Milad per averlo attivato con semplicità, ma incredibile decisione”.
Partito da Venezia 2019, VR Free continua a girare il mondo in festival dedicati alla realtà virtuale e non solo, portando i detenuti sempre più lontani dalle quattro mura in cui vivono questa fase delle loro vite. Una fase che cinema e teatro riescono a tratti a mostrare nella sua complessità, puntando una luce su un futuro auspicabile, e possibile.