Riconsiderare l'opera di uno scrittore italiano, tra Friuli, fantapolitica, beoti e nazisti.
Un contrabbandiere, stringi stringi, è qualcuno che deve portare qualcosa da un posto all'altro senza farsi scoprire. Esattamente quello che hanno fatto diversi autori italiani rei di aver inserito elementi, idee, dispositivi fantascientifici nei loro romanzi catalogati come narrativa punto e basta, cioè quel tipo di romanzo o racconto che non si deve qualificare e che non viene relegato in qualche scaffale periferico delle librerie. Viene in mente tanto per fare un esempio qualcuna delle Cosmicomiche di Calvino (non tutte: c'è molto fantasy e qualcosa di decisamente surreale).
Perché mai uno scrittore italiano deve contrabbandare la fantascienza? Semplicemente perché non è un tipo di letteratura molto stimato e accettato dalla critica mainstream, dall'establishment, dalle grandi firme delle grandi testate (che spesso di grande hanno solo la supponenza). Si ricorda la malaugurata idea che ebbero gli organizzatori di una convention fantascientifica, tanti anni fa, di invitare all'evento Alberto Moravia; e il grande scrittore passò il tempo a dire peste e corna del genere. Non siamo nel Regno Unito, dove Wells, Orwell, Ballard, C.S. Lewis e Golding sono Classici con la maiuscola. Ma non entriamo nell'annosa questione del perché qui da noi la fantascienza abbia pessima fama: ne parleremo un'altra volta.
Non molti anni fa nell'editoria (un ambiente pronto ad adottare regole d'oro che in realtà sono solo placcate) girava un dogma: la fantascienza non vende! Ovvio che la si evitasse come la peste; e se proprio veniva pubblicata, lo si faceva senza mai nominare il suo nome (tipo Sauron o Voldemort, scegliete voi). Proprio in quel periodo (diciamo tra il 2000 e il 2010, ma accetto correzioni) inizia la traiettoria di uno dei più interessanti scrittori italiani, sicuramente uno dei più originali, e diciamo pure di quelli bravi sul serio: il friulano Tullio Avoledo. Bene, io oggi intendo denunciarlo come uno dei più scaltri e subdoli contrabbandieri di fantascienza delle italiche lettere – una denuncia che in realtà, dal mio punto di vista di fantascientista di vecchia data, è un elogio. Sarà anche l'occasione per ripercorrere la sua storia editoriale, e magari convincere qualcuno a leggerlo se già non l'ha fatto (e garantisco che Tullio è narratore ad altissima leggibilità, sempre, pur senza mai scadere nella scrittura da fiction RAI che ultimamente impera).
Il contrabbando cominciò già col suo romanzo d'esordio, uscito per Sironi nel 2003, L'elenco telefonico di Atlantide. Si racconta l'acquisizione di una piccola banca di provincia da parte di una grande multinazionale bancaria, in tono di tragicommedia marcatamente nera, una vicenda che attinge a esperienze vissute dall'autore; c'è anche qualche tocco mitologico, come la Sorgente della Giovinezza nascosta nello scantinato di un condominio, o la cospirazione incentrata sulla biblica Arca dell'Alleanza. Apparentemente siamo in un vero romanzo della globalizzazione, con ironiche pennellate di fantastico, ma nella Coda veniamo improvvisamente gettati in un non lontano futuro, dove le disavventure del bancario Giulio Rovedo (un personaggio che tornerà in Breve storia di lunghi tradimenti) sono state registrate e cinematograficamente rimontate sul biochip AT2110W54, conservato nel LAB 54 della Disney-Amblin Corporation. Due adolescenti del futuro hanno vissuto in realtà virtuale la storia di Giulio (nome che, scopriamo, potrebbe anche essere stato inventato in sede di montaggio) a puro scopo di intrattenimento. Che questa coda comporti un drastico cambio di registro lo attesta anche il fatto che nell'edizione Einaudi essa sia stata stampata con un carattere diverso da quello impiegato in tutto il romanzo, usando un font che suggerisce un'atmosfera futuristica. Le ultime righe della coda bastano a rendere l'idea di quanto la visione che ci presenta Avoledo sia fantascientifica, senza se e senza ma: “Giovani e caldi, nei bozzoli dei loro campi di forza, escono dal LAB 54 ridendo e canticchiando il tema di Auschwitz, mentre la neve cade a larghe falde a coprire i prati spogli dell'Adrastal Park, il laboratorio buio, le fosse comuni della terza guerra mondiale sotto l'erba del campo sportivo di Ipswich”. A questo mondo alieno eppure familiare basta aggiungere un ultimo tocco, dicendo che i due teenager stanno andando ad assistere a una recita di Steven Spielberg's Auschwitz: The Musical, viaggiando su una linea di metropolitana che collega Ipswich a Berlino.
Si potrà obiettare che queste sono ben poche pagine rispetto alle cinquecento che ne conta il romanzo, ma arrivando proprio alla fine non mancano di fare un certo effetto. Inoltre il ricorso alla realtà virtuale fa venire in mente Philip K. Dick e i suoi universi che collassano, e come vedremo più avanti non è un caso.
Nel secondo romanzo dell'autore friulano, Mare di Bering, pubblicato anche questo nel 2003, ruota attorno a un attentato terroristico in procinto di colpire un summit internazionale a Reykjavík, nel quale viene implicato un trafficone di nome Mika, che si guadagna da vivere vendendo tesi di laurea a studenti pigri e/o incapaci (un'idea che Avoledo avrebbe anche potuto prendere da un classico della fantascienza come Morire dentro di Robert Silverberg). Il romanzo si presenta più come uno sgangherato thriller con generose dosi di comicità, ma sullo sfondo spuntano elementi decisamente ucronici (cioè di storia alternativa): ci viene detto en passant che in Iran c'è una guerra iniziata dal presidente Hillary Rodham, mentre Bill Clinton non è mai stato eletto; Schindler's List è un film proibito; l'Unione Europea pare essere guidata dall'Ucraina; la Libia è stata bombardata dagli Stati Uniti su ordine del presidente Jerry Brown (per chi non lo sapesse, Brown tentò per tre volte di vincere le primarie, ma non ci riuscì mai; in compenso fu per due volte governatore della California).
Non bastanti queste stranezze, dopo che il romanzo ha raggiunto un apparente lieto fine, ci viene annunciato nelle ultimissime pagine che un sottomarino russo armato di missili balistici intercontinentali, affondato nel mar di Bering e poi faticosamente recuperato, sta accidentalmente lanciando quattro dei suoi missili su altrettante città americane. Questo potrebbe scatenare la Terza guerra mondiale, o forse no; non ci viene detto come andrà a finire, e questo finale rafforza la sensazione di aver fatto un viaggio in un mondo caotico, folle e totalmente scombussolato, abbastanza simile al nostro perché il romanzo funzioni da ammonimento, ma anche abbastanza differente da farci sentire disorientati e sperduti.
A differenza del romanzo d'esordio, qui Avoledo ha deliberatamente piazzato una serie di segnali per far sapere ai suoi lettori che la fantascienza la conosce abbastanza bene. Il romanzo cita I reietti dell'altro pianeta e La mano sinistra delle tenebre di Ursula K. Le Guin; si nominano gli scrittori Michael Moorcock, Keith Roberts, Bob Shaw e Frederick Pohl; c'è anche una breve discussione su John Brunner e i suoi romanzi Il gregge alza la testa, Tutti a Zanzibar e L'orbita spezzata, tre opere che presentano un cupo e disastrato futuro prossimo, somigliante in modo preoccupante al nostro 2021 nonostante siano stati scritti una cinquantina d'anni fa. La citazione di Brunner è particolarmente significativa, perché il mondo controstorico di Mare di Bering attinge alla narrativa dello scrittore britannico, anche se poi Avoledo rielabora tutto in modo assai personale, e con un senso del comico che non trovi in Brunner.
Il terzo romanzo di Avoledo, Lo stato dell'unione (2005), inizia ancora una volta come commedia nera. Si raccontano le disavventure del pubblicitario Alberto Mendini, la cui carriera è stata spezzata da un momento di sincerità; viene quindi assunto da Enrica Martinelli, un'ambiziosa politica locale appartenente a un partito autonomista che è evidentemente la Lega Nord sotto mentite spoglie. All'inizio il compito di Mendini sembra innocuo: gestire la campagna pubblicitaria del “Giorno dell'orgoglio celtico” che dovrebbe celebrare le pretese radici celtiche della regione in cui è ambientata la storia (Veneto, Friuli-Venezia Giulia, non importa: comunque Nordest). In realtà dietro l'evento pseudoculturale (non ci sono realmente prove che i favoleggiati celti abbiano mai vissuto in quella regione) c'è un complotto ideato dalla Martinelli e dal governatore di un Land austriaco che come lei appartiene a un partito separatista fascistoide; i due vogliono secedere simultaneamente da Italia e Austria e fondare una nuova nazione, la Beozia. Il nome deriva dai Galli Boii, ma è un evidente gioco di parole dal significato piuttosto chiaro: in soldoni, il paese dei beoti. Ancora una volta Avoledo mescola brillantemente commedia, satira, thriller e complottistica; ancora una volta il finale porta i lettori in un territorio che vorrei chiamare con un termine di moda negli anni Sessanta, fantapolitica.
Ma c'è un elemento decisamente più fantascientifico nel romanzo, una sorta di sottotrama incentrata su Neil, l'ex-astronauta della NASA, un amico di Alberto che gli ha rivelato cosa c'è stato dietro il progetto Apollo: una colossale truffa, perché l'uomo non ha mai camminato sulla luna e le immagini dello sbarco sono state girate in uno studio attrezzatissimo. Ovviamente oggi questo è un cavallo di battaglia dei complottisti italiani, ma sedici anni fa, quando uscì per la prima volta Lo stato dell'unione, non era così: Avoledo l'ha attinto direttamente all'immaginario complottista americano, riuscendo a farne un elemento portante della storia, e dando al personaggio di Neil profondità e drammaticità.
Ci dobbiamo soffermare a questo punto sul carattere angloamericano dell'immaginario avolediano; sul fatto che lo scrittore si è formato leggendo molta letteratura in lingua inglese; sottolineare che Neil è un personaggio ballardiano del quale Avoledo riesce ad appropriarsi completamente, integrandolo nella propria visione del mondo. Questo è uno dei tratti salienti del romanziere friulano: saccheggiare i territori più diversi, dalla musica colta contemporanea alla storia del nazismo, dal passato anche remoto della propria regione alla poesia al mondo della performance artistica (presente soprattutto nell'Anno dei dodici inverni), riuscendo sempre a innestare questi materiali culturali in un mondo tutto suo. E dell'inglese Avoledo ha preso anche la semplicità della prosa che non è mai sciatta, ma rifugge dalle pirotecnie verbali a effetto di tanti vorrei-essere-Gadda-ma-non-sono-capace.
Sempre nel 2005 esce Tre sono le cose misteriose; è il primo romanzo che il nostro pubblica direttamente con una major dell'editoria come Einaudi. Si tratta di un thriller incentrato su un magistrato che deve mettere in stato d'accusa un politico responsabile di atrocità in un paese indefinito (non a caso chiamato il Mostro); fa pensare alla Jugoslavia degli anni Novanta – allora storia recente e ancora sanguinante. Grande cura del linguaggio, grande attenzione al rapporto padre-figlio, un'atmosfera soffocante di minaccia che aleggia in tutta la storia, eppure il romanzo ha qualcosa di irrisolto. Sarà un caso che è l'unica opera di Avoledo dalla quale manca la componente fantastica? L'unico elemento, diciamo, fantapolitico, è che il tribunale incaricato di giudicare il Mostro è sponsorizzato da una multinazionale, perché i tribunali internazionali costano troppo per finanziarli solo con le risorse dell'ONU. C'è amara ironia in questo, e l'ombra dell'Iraq e del processo a Saddam Hussein (all'epoca della scrittura del romanzo imminente pur se non ancora iniziato).
In ogni caso, la fantascienza torna con gli interessi dopo Tre sono le cose misteriose, e dopo il successivo Breve storia di lunghi tradimenti, del 2007, che a me ha sempre dato l'impressione di essere una riscrittura dell'Elenco telefonico di Atlantide (da Breve storia... venne tratto un film nel 2011 che non ha avuto un grandissimo successo, però se siete curiosi lo trovate su RAIPlay). Nel 2008 esce La ragazza di Vajont; nel 2009 L'anno dei dodici inverni. Nessuno dei due si può qualificare come “narrativa generalista”, sempre posto che esista qualcosa del genere; o meglio, che esista veramente narrativa non inquadrabile in alcun genere, indipendentemente dalla sua rispettabilità...
Il primo è l'opera più cupa, più tragica, più disperata di Avoledo. Un Friuli futuro, ma non tanto lontano nel tempo; un Nordest che è riuscito a staccarsi dall'Italia, instaurando un regime totalitario modellato su quello nazista; una feroce pulizia etnica che ha sterminato (o sterilizzato) chiunque non fosse geneticamente “puro”. Atrocità disinvoltamente commesse su africani, slavi, tutti quelli che non si conformavano a un resuscitato ideale ariano; tutto questo però sta nel passato. A un certo punto il regime razzista del Nordest ha dato fastidio ai poteri forti globali; il paese è stato devastato, come l'Iraq di Saddam (e come l'anonima nazione del Mostro in Tre sono le cose misteriose); ora è una periferia immiserita e sfasciata del mondo, una Striscia di Gaza friulano-veneta. In questo relitto di nazione sopravvive un relitto umano, il narratore e protagonista, anche lui anonimo; un tempo era uno dei gerarchi del regime, ora è un vecchio dalla salute malferma e della mente sconquassata. Ci confessa di essere stato uno storico che ha fatto successo con la divulgazione delle nefaste vicende del Terzo Reich; e proprio per questa sua competenza, dopo che la sua carriera di scrittore s'è arenata, è stato assunto come consulente dal partito fascistoide che ha guidato la secessione e s'è impadronito del Nordest.
Ma La ragazza di Vajont è la storia inattendibile narrata da un narratore inaffidabile. Il romanzo è internamente, deliberatamente minato da una serie di incongruenze, di omissioni, di ambiguità. Forse la storia non avviene nel nostro universo, perché l'11 settembre non è avvenuto, e pare essere argomento di un romanzo fantascientifico che sta scrivendo il narratore; forse il narratore non è compos mentis, e quello che racconta è il vaneggiamento di un pazzo, o di qualcuno impazzito a causa dei maltrattamenti subiti. E forse il narratore è clinicamente morto per un infarto, e quello che descrive è un incubo terminale, l'ultima allucinazione di una mente che sta per spegnersi. O – chissà – siamo in uno spaventoso aldilà individuale, un inferno che aggiorna il Sartre di Porte chiuse, dove al posto dei diavoli c'è un regime totalitario e le fiamme sono rimpiazzate da laceranti sensi di colpa individuali e collettivi (la vita dopo la morte non è argomento che spaventi Avoledo, come si vede in Chiedi alla luce...). Unica speranza di redenzione l'amore per una ragazza alla quale però il narratore comprende di dover rinunciare per poterla salvare.
La ragazza di Vajont è un gioiello di narrativa postmodernista, e un'originale variazione sul tema della distopia (quella vera, non i romanzi catastrofici etichettati come distopie che vanno di moda ultimamente). Un gioiello nero, e una serie, potremmo dire, di Variazioni Hitler ben diverse da quelle Goldberg che compose Bach. Un romanzo complesso nella sua apparente semplicità, pieno di trappole nelle quali può cadere anche il lettore. Un libro che mette in questione tutto l'interesse sul nazismo che divampa sui media: tra documentari sul Terzo Reich, film sulla Shoah ad uso scolastico (non tutti memorabili, ma in numero strabordante), enciclopedie sul nazismo con pugnali delle SS in omaggio, c'è una sorta di feticismo del nazionalsocialismo che sembra aver ridotto tutta la storia al periodo 1933-1945; l'unica memoria pare essere quella del giorno omonimo (solo foibe per i camerati, prego). Avoledo sembra chiedersi se non siamo diventati voyeur del genocidio e dell'oppressione totalitaria; e se la memoria, invece di prevenire ritorni, non possa trasformarsi in un incoraggiamento a ripetere. Per questo è un romanzo imbarazzante, scomodo, inquietante, e non a caso difficilmente lo sentirete nominare come uno dei veri classici contemporanei della nostra letteratura (cosa che invece secondo me è). Ed è anche un atto d'accusa contro tutti i non detti del secessionismo leghista e del suprematismo padano, scritto non a caso in un momento in cui la stagione berlusconiana era sospesa, ma tutt'altro che finita.
A seguire, l'opera più classicamente fantascientifica di Avoledo, e cioè L'anno dei dodici inverni. Una storia di viaggi nel tempo che discende per li rami dalla Macchina del tempo di Wells, uno dei quattro romanzi che hanno definito la fantascienza. Ed è una delle più belle e originali storie di viaggio nel tempo che abbia mai letto, a essere onesti; anche questa intrecciata a una storia d'amore che emerge lentamente, per frammenti, man mano che dal passato il protagonista (e viaggiatore temporale) ci racconta il suo passato che è il nostro futuro. Ho timore ad anche solo accennare la trama, un vero congegno ad orologeria che svela gradualmente il disegno del viaggiatore, e le sue motivazioni, e la sua storia; ma non posso non citare la geniale invenzione della Chiesa della Divina Bomba, nata da un gruppo di fanatici religiosi (o autentici truffatori) sulla base degli scritti di Philip K. Dick, elevato al rango di profeta (un'idea che Thomas M. Disch prese in considerazione in un suo brillante saggio, ma scartò perché – a differenza dei veri guru – Dick era un grande parlatore ma non proprio un ascoltatore: aveva sempre una cosa da raccontare più interessante di quello che avevi da dirgli tu).
Le storie di viaggi nel tempo (almeno, quelle che vale la pena di leggere, come Anniversario fatale di Ward Moore) sono virtuosistiche, e implicano sempre un ferreo controllo della trama, la capacità di gestire i tempi del racconto e i suoi incastri fattuali: Avoledo dà prova di saper fare entrambe le cose, e ripercorre così diversi decenni di storia italiana (e del mondo), concedendoci un finale autenticamente a sorpresa, ma tutt'altro che gratuito.
Successivamente l'autore friulano ha prodotto qualcosa di ancor più radicalmente fantastico: sono i tre romanzi appartenenti all'universo condiviso Metro 2033, inventato dallo scrittore russo Dmitrij Gluchovskij con il romanzo omonimo, dal quale è stato sviluppato anche un videogame. Dal momento che il figlio di Avoledo era un suo accanito giocatore, lo scrittore incontrò il suo collega russo a una manifestazione, e in quell'occasione nacque l'idea di scrivere tre romanzi ambientati nello stesso universo, in cui, a seguito della Terza guerra mondiale, i superstiti si sono rifugiati nelle gallerie delle metropolitane delle maggiori città del mondo. Basandosi su questo scenario postapocalittico, Avoledo ha scritto una trilogia composta da Le radici del cielo (2011), La crociata dei bambini (2014) e Il conclave delle tenebre (2018); la terza parte purtroppo è uscita solo nella traduzione russa (col titolo Конклав Тенеб) e ancora attendiamo di leggerla nella versione originale, finora inedita. Tutti e tre i romanzi sono miscele esplosive di fantascienza, fantasy e videogiochi (dai quali derivano l'andamento e il ritmo), articolati intorno alla missione del sacerdote cattolico Daniels, incaricato dall'unico cardinale superstite dopo l'esplosione della bomba atomica che ha annientato Roma e il Vaticano di portare nei sotterranei della città il patriarca di Venezia, in modo da poter eleggere un nuovo papa. In questi romanzi Avoledo dà prova di una considerevole capacità immaginativa, giocando abilmente con i materiali dell'universo Metro 2033, e ricombinandoli con la sintassi e la geografia mentale del videogioco, e con una notevole tenuta narrativa; da un lato si potrebbero considerare come scritti di puro intrattenimento, rispetto alle opere precedenti; però sono anche i romanzi più innovativi, più estremi dal punto di vista ideativo, ma diciamo pure più scatenati tra quelli che Avoledo ha finora realizzato. Non è un caso se dopo questa esperienza di scrittura Avoledo è restato ben dentro l'area del fantastico, prima col sofisticato fantasy urbano Chiedi alla luce (2016), imperniato sul viaggio in diverse città europee di un architetto di successo che in qualche modo è anche un angelo (forse sterminatore); poi con la satira fantascientifica Furland© (2018), dove si immagina un Friuli trasformato in un gigantesco parco a tema che ripercorre tutta la storia della regione; e infine col più recente Nero come la notte (2020), un noir ambientato in un futuro non troppo lontano in cui intere aree delle città italiane sono state abbandonate da quel che resta dello stato (non molto) e vivono governandosi da sé (o quasi), tra cyberpunk e hard-boiled.
Riconsiderando tutto il percorso di Avoledo, vanno fatte alcune considerazioni conclusive.
Primo: l'autore de La ragazza di Vajont (forse il suo romanzo migliore, senza nulla togliere al resto della sua produzione), è riuscito a scrivere fantascienza, o narrativa quasi-realistica con una componente fantascientifica più o meno rilevante, restando saldamente in Italia, un'Italia concreta, tangibile, anche troppo vera pure nelle sue declinazioni più futuribili (come nella trilogia nell'universo Metro 2033). Due santoni dell'editoria italiana erano convinti che i dischi volanti non sarebbero mai sbarcati a Lucca; forse hanno guardato alla città sbagliata, perché in Friuli la fantascienza ha attecchito benissimo (e in modo decisamente agghiacciante, a tratti). Nel suo appropriarsi dei dispositivi del genere, Avoledo è un caso unico: altri scrittori sono passati per il territorio della fantascienza solo occasionalmente (mi viene in mente il Landolfi di Cancroregina, sul quale tornerò); lui l'ha gradualmente occupato e rivendicato con una tenacia encomiabile. E viene da citare, leggendo i risultati, una celebre commedia di Hollywood: si può fa-re!
Secondo: concentrandosi sulla sua regione, Avoledo è riuscito comunque a intessere una serie di discorsi e a raccontare una serie di storie che riguardano tutti (e non solo in Italia). Abbiamo avuto in Italia tutta una serie di scrittori estremamente interessanti che sono stati come imbozzolati in un ambito regionale: penso a Meneghello, ad Alvaro. In realtà questi erano narratori assolutamente cosmopoliti e capaci di aprire al mondo il territorio al quale rivolgevano di preferenza il loro sguardo (penso pure a un certo Cesare Pavese). Nel suo percorso letterario, Avoledo è restato fedele al Friuli, che però era anche parte integrante di quel Nordest che dagli anni Novanta veniva portato quasi a modello del paese tutto in termini di crescita e sviluppo. In questo modo allo scrittore è riuscito di narrare localmente per pensare globalmente, se mi si consente di riformulare un vecchio slogan dei verdi (quando erano ancora verdi). Se teniamo presente che il suo romanzo d'esordio nasce dalla sua esperienza personale di vedere la banca per cui lavorava inglobata da un istituto ben più grande e “globale”, e che all'impatto della globalizzazione finanziaria rinviano sia L'elenco telefonico di Atlantide che Breve storia di lunghi tradimenti, vediamo bene che la portata della narrativa di Avoledo esce inevitabilmente fuori dal confini regionali.
Terzo: forse il dibattito culturale farebbe meglio a ripercorrere le opere di alcuni nostri scrittori ancora viventi (Avoledo non essendo l'unico), invece di dare sempre spazio ai mal di pancia di qualche escluso dal solito premio letterario, alle opinioni di qualche soubrette culturale su come si fa a salvare il mondo con gli asterischi, alle predizioni da Mago Otelma sul vincitore o la vincitrice del Nobel o dello Strega. Sarebbe meglio, ogni tanto, sganciarsi dall'ultima uscita da strombazzare o dal rimpianto dei defunti (sempre gli stessi, quelli che già conoscono tutti, così non ci si sbaglia), e andare a guardare quel territorio poco conosciuto che sta tra l'altro ieri e vent'anni fa, quel passato prossimo che non è più attualità e non è ancora storia. Lì si trovano cose interessantissime, e trascurate. Come i romanzi di Tullio Avoledo, e altro ancora.