Umano poco umano: un viaggio nel suono della macchina - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Aphex Twin live, 2011.
Aphex Twin live, 2011. | Copyright: VilleHoo / Flickr

Umano poco umano: un viaggio nel suono della macchina

"Exmachina", il nuovo libro di Valerio Mattioli, racconta l'esperienza della musica elettronica europea a partire dagli anni Novanta. Un discorso sullo stato dell'arte odierno.

Aphex Twin live, 2011. | Copyright: VilleHoo / Flickr
Intervista a Valerio Mattioli
di Giovanni Bitetto
Valerio Mattioli

è stato tra i fondatori di Prismo Rivista. Ha scritto, principalmente di musica, per diverse testate tra cui Il Manifesto, Blow Up, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, Vice, Noisey e molte altre.

Giovanni Bitetto

ha scritto per The Vision, Flanerì, il Tascabile, L'indiscreto. Ha pubblicato il romanzo Scavare (Italosvevo, 2019).

La macchina è razionalità umana sedimentata, il progresso che si è fatto equazione, algoritmo, schema logico, la più alta forma di organizzazione che abbiamo conquistato in millenni di evoluzione tecnologica e sociale. O almeno così è abituata a pensarla la nostra società. Eppure, nel mondo in cui ci affidiamo, oggi più che mai, alla potenza macchinica lo strumento sembra travalicare la capacità di comprensione di quello che fu il suo creatore, l’orizzonte della civiltà digitale sembra sfuggirci di mano.

C’è chi, come Valerio Mattioli nelle speculazioni di Exmachina, ci suggerisce di indagare le ragioni dell’orizzonte macchinico non con gli strumenti della razionalità, ma, al contrario della paranoia, ovvero zigzagando in un ventaglio di possibilità oltreumane, un universo sterminato di evoluzione algoritmica che andrà avanti, con o senza di noi. Per farlo Mattioli si approccia al suo ambito privilegiato - la musica - addentrandosi in una disamina della musica fatta con la macchina e dalla macchina, l’elettronica che ha visto, dagli anni Ottanta in poi, un progressivo sdoganamento di certi suoni e certe visioni del futuro che poi sono diventate realtà. Un discorso estetico che è andato di pari passo con l’affermarsi incontrastato della civiltà digitale.

Raccontando alcune esperienze artistiche che hanno approfondito il rapporto fra uomo e device, Mattioli sembra abbozzare una controstoria, una parabola fatta per sensazioni e presagi, di quello che è stata l’evoluzione tecnologica degli ultimi trent’anni. A guidarlo un’ilare attitudine schizofrenica che gli ha permesso di mettere insieme i lacerti più disparati della civiltà digitale, forgiando un paradigma quanto mai originale. L’ho dunque contattato per farmi illustrare le sua tesi e chiedergli cosa gli passava per la testa, e nelle vene, durante la stesura di questo nuovo bizzarro grimorio tecnologico.

Giovanni Bitetto - Il tuo libro si gioca su due livelli: da una parte c’è il racconto della nascita e dell’evoluzione della cultura digitale a partire dagli anni Novanta, con le relative mutazioni ermeneutiche, dall’altra invece indaghi il rapporto fra sviluppo tecnologico e nuove possibilità di applicarlo alla musica. Ti soffermi su tre progetti – Aphex Twin, Autechre, Boards of Canada – che secondo te hanno incarnato un certo modo di sfruttare le potenzialità espressive della macchina. Diciamo che c’è un salto logico notevole dalla descrizione di una certa temperie culturale, un piano più generale, al racconto, nel campo del particolare, di esperienze artistiche ben definite. Come hai interpretato questo doppio binario?

Valerio Mattioli - Capisco perché parli di “salto logico”, ma la verità è che io questo salto non lo vedo – e non solo perché tutto il libro è sostanzialmente un esperimento di, come dire, “paranoia applicata”.

Una delle cose che mi piacerebbe venisse fuori dalla lettura di Exmachina è che la musica di cui parlo non è semplicemente un fenomeno contemporaneo o parallelo alla nascita della tecnocultura odierna. Semmai, è un fenomeno esattamente alla base dell’attuale civiltà digitale, una delle sue fondamenta, l’origine, la fonte primigenia che dispiega da subito tutta una serie di categorie concettuali che, col tempo, si sono impossessate di noi – e questo ben al di là dal ristretto recinto della “musica”.

È illuminante come lo stesso nome “IDM” (intelligent dance music) sia stato coniato non in Inghilterra da qualche giornalista musicale, ma in piena Silicon Valley da un tipo come Brian Behlendorf, primo responsabile della versione digitale di Wired, attuale guru della tecnologia blockchain e già fondatore di Apache.

Voglio dire: tu mi hai spedito le domande di questa intervista attraverso un documento in formato .odt. Suppongo che tu lo abbia scritto in Open Office, quindi sulla suite da ufficio della stessa Apache. Bene: non trovi interessante che la semplice apertura di questo documento stabilisca un collegamento diretto con quando, anni prima che Open Office nascesse, Behlendorf era impegnato a discutere di Aphex Twin e Autechre sulla IDM mailing list da lui stesso creata? Prova a immaginartelo trent’anni fa, seduto davanti al PC mentre programma stringhe su stringhe di codice informatico e in sottofondo va, chessò, Selected Ambient Works 85-92: che ispirazioni ha tratto da quell’ascolto? Cosa gli ha trasmesso quella musica, perché ne era così ossessionato? Detta altrimenti: perché cazzo un geek smanettone stanziato in California dedicava tante energie a un pugno di musicisti semisconosciuti provenienti dal lontano Regno Unito? Cosa gli ha comunicato l’ascolto di quei dischi?

Questo è il genere di connessioni che mi piacerebbe saltassero fuori dalla lettura del libro. Come dico a un certo punto nel primo capitolo: la musica di cui parlo in Exmachina fu “uno dei brodi di coltura dell’era cibernetica, ed e anzi probabile che senza il suo contributo questa stessa era avrebbe assunto connotati assai diversi – forse non sarebbe nemmeno mai nata”.

GB - Parlando di musica, ti sei inserito in una diatriba di vecchia data. Negli anni d’oro del suono Warp molti commentatori vituperavano l’etichetta Intelligent Dance Music. Persino gli stessi artisti spesso se ne sono discostati, sottolineando un certo classismo nell’idea che ci sia musica da ballo “intelligente”, guarda caso molto spesso fatta da bianchi, e musica techno/house “stupida”, come quella partorita dai garage di Detroit. Eppure, ad aggiungere un nuovo livello di lettura, tu sottolinei come l’IDM celi un potenziale eversivo nel suo proverbiale cerebralismo. La possibilità di alterare la percezione dell’ascoltatore tramite il rapporto endogeno fra mente e macchina. Una sorta di rimodulazione delle categorie sensoriali che avviene nel cranio del soggetto, piuttosto che, come è prerogativa della cultura dance (e rave), nel limbo della pista da ballo. Ma come interagisce questo potenziale con le summenzionate criticità del genere?

VM - Sgombriamo il campo da un equivoco: io non voglio in nessun modo riabilitare un’etichetta odiosa come “intelligent dance music” – a dire il vero, a me l’IDM nemmeno è mai piaciuta granché! Ai tempi, preferivo mille volte una compilation Underground Resistance che le lagne digitali di tizi tipo, che ne so, Arovane – o peggio ancora i virtuosismi masturbatori di uno Squarepusher (se hai letto il libro, saprai quanto lo detesto).

Detto questo, io non parlerei di “potenziale eversivo” delle musiche di cui tratto nel libro. Al limite parlerei di… “capacità di penetrazione”, se non addirittura di “pericolosità”.
Provo a spiegarmi: con la musica elettronica da ballo, tu in qualche modo sfogavi attraverso il corpo l’azione disumanizzante della Macchina; era come un esorcismo, una specie di rito collettivo che ti permetteva di depurarti dal virus macchinico attraverso la pratica liberatoria del ballo. Invece, con la cosiddetta “musica elettronica da ascolto” (altro nome con cui ai tempi andava l’IDM) tu in qualche modo ti portavi il nemico direttamente in casa: stavi lì in un impari uno a uno, comodamente seduto in poltrona a lasciarti supinamente irradiare da una cascata inesorabile di bit – e questo alla lunga produce effetti che vanno ad agire direttamente sui tuoi riflessi cognitivi, come abbiamo bene imparato nei decenni che ci hanno portato al punto in cui siamo ora: inseparabili dall’interfaccia macchinica, schiavi dei suoi cicli di stimolo e risposta, artificializzati esattamente come il cyborg che, nel 1992, compariva sulla copertina di Artificial Intelligence.

Io penso che i vari Aphex Twin, Autechre e Boards of Canada abbiano prodotto musiche bellissime, e di sicuro sono tra i musicisti più importanti degli ultimi trent’anni: ma questo non significa che la loro funzione sia stata “benigna”, se capisci cosa intendo; di fatto, sono un’incarnazione di quella pulsione di morte che sottende qualsiasi prospettiva postumana. Come ebbe a dire Bil Joy della Sun Microsystems: “il futuro non ha bisogno di noi”. Dietro le splendide architetture sonore dei vari AFX, AE e BOC, sta nascosta l’intimidazione/profezia dei Borg in Star Trek: “ogni resistenza è inutile”.

 

GB - Un altro elemento di differenza fra IDM, o comunque prodotti gravitanti attorno alla Warp degli anni Novanta, e la cultura rave, che proprio in quegli anni vedeva il suo massimo sviluppo, sta nella figura dell’artista. Se la cultura rave ragiona, a grandi linee, sottraendo l’aura romantica dell’artista come solitario creatore dell’opera (prediligendo dunque le crew, i sound system, le tracce senza titolo remixate più volte), nell’IDM è ben presente la figura del dj superstar. Il caso di Aphex Twin è lampante, ma anche gli Autechre e i Boards of Canada, i primi con la proverbiale ritrosia, i secondi disseminando indizi e alimentando un morboso culto misterico fra i fan, hanno contribuito alla costruzione di maschere autoriali ben precise. D’altronde la costruzione di un immaginario, anche attraverso la costruzione della maschera dell’artista, è un elemento che caratterizza da sempre la musica popolare. Credi che questo sia stato un punto di forza dell’IDM o invece una ricaduta nell’egotismo del rock?

VM - La risposta classica sarebbe che l’IDM (ma perché continuiamo a chiamarla così?!?) con tutta la sua insistenza sull’autorialità delle musiche e blah blah blah, altro non fu che una rivincita della classica mitografia rock, o peggio ancora di quel “primato dell’Arte” tanto caro all’Accademia (e infatti ai tempi si sprecarono i paragoni – del tutto fuori luogo – coi vari Stockhausen & co.).

Ma la realtà è più scivolosa e ambigua. L’unico dei musicisti di Exmachina a tradire i crismi della popstar è Aphex Twin: ma è una popstar ingannatrice, di cui è impossibile stabilire quali aneddoti sono veri e quali del tutto inventati, l’esatto opposto di quel principio di Verità che sta al cuore del mito (costruito anch’esso, ma non divaghiamo) dell’Autenticità, che come sappiamo è il nocciolo stesso delle agiografie rock.

Va poi detto che la costruzione ad arte di un “immaginario” – per quanto (volutamente) sfuggente – è alla base della cultura techno sin dai suoi albori detroitiani: pensa a Juan Atkins che si trasforma in Model 500 come fosse un modello X appena uscito dalla catena di montaggio, a Jeff Mills “l’Alieno”, alla techno-guerriglia in passamontagna di Underground Resistance, o all’intera epopea acquatica dei Drexciya. Chiaro: sono tutti immaginari che, enfatizzando l’elemento artificiale o comunque extra(post? anti?)umano, ribaltano proprio il mito dell’Autentico di cui sopra, ma sono comunque narrazioni molto precise e potenti.

Per tornare alla tua domanda: più che di “maschera dell’artista” io parlerei di “mistica”, specie per quanto riguarda AFX e soprattutto Autechre e BOC, entrambi drammaticamente carenti dal punto di vista dell’immagine, e proprio per questo destinati ad accendere l’immaginazione dei fan. Non conta tanto quello che loro realmente “dicono” attraverso le loro musiche, ma quanto viene proiettato su di loro dagli ascoltatori. Il caso dei BOC è lampante: due tizi qualunque che qua e là si dilettano in citazioni vagamente criptiche (come un qualsiasi gruppo di adolescenti alle prese coi propri personalissimi codici e riferimenti privati) e che invece diventano oggetto di una vera e propria Religione Misterica in cui ogni minimo indizio, reale o presunto, viene dissezionato all’inverosimile dai fan.

Più ancora di Aphex (il genio folle) o degli Autechre (i freddi scienziati), i BOC sono davvero un esempio eclatante di imagineering. Nel senso: è incredibile quanto il loro mito resti tuttora impermeabile a qualsivoglia “ritorno alla realtà”. Hanno questa fama di stregoni misteriosi senza che di misterioso abbiano mai fatto nulla… Tipo: come saprai, in molte delle loro tracce compaiono voci mandate al contrario, sample inintelligibili, cose così, roba che conosciamo da cinquant’anni; i fan stanno lì a decifrarne il contenuto perché chissà cosa ci sarà mai sotto, e poi si scopre che magari sono campioni presi da un vecchio porno anni 80. Io me li immagino, Mike Sandison e Marcus Eoin dei BOC, che cazzeggiano in studio e dicono “dai infiliamoci un amplesso preso da quel porno che guardavamo da ragazzini, così, per ridere”, e poi il fan in casa che sta lì all’ascolto a dire “ODDIO COSA VOGLIONO DIRCI, QUALE SEGRETO SI NASCONDE?”. Oppure: giusto l’altro giorno cadevano i vent’anni di Geogaddi e leggevo questo articolo celebrativo su una rivista americana che cominciava con la solita storia “i misteriosi Boards of Canada, che non rilasciano mai interviste” – e invece di interviste ne hanno rilasciate a decine! Ma niente, ci ostiniamo tutti a non vedere quanto invece è in piena luce. D’altronde lo diceva lo stesso Mike Sandison in un’intervista (appunto) di tanti anni fa: “Credo che nella musica si nascondano poteri sovrannaturali. Penso che con la musica sia effettivamente possibile manipolare le persone”.

GB - Racconti la parabola di Aphex Twin come emblematica di una certo modo di vedere la cultura digitale. Tratteggi la sua folgorante ascesa, sorretta da un notevole talento, e l’etichetta di genio che presto gli viene affibbiata, alimentata anche dal suo atteggiamento scostante nel rapporto coi media. Aphex Twin si narra come un dio-burlone, un trickster sempre pronto a tirare un brutto scherzo al prossimo e a cambiare gli aneddoti della sua biografia, un enfant prodige che grazie alla prolificità diviene l’artista più riconosciuto della Warp. Una sorta di Mozart moderno che mostra al mondo le magnifiche sorti e progressive della musica elettronica, questo almeno negli anni Novanta. Col tracimare del millennio lo ritroviamo meno attivo, meno presente, non più beneficiario del rapporto idilliaco con la critica che lo aveva rapidamente assurto a volto riconoscibile dell’IDM mondiale, per di più propugnatore delle solite teorie complottiste, insomma un nerd che ha passato troppo tempo dietro uno schermo. Ricorda un po’ la parabola che ha portato da una certa fiducia nelle nuove tecnologie, non solo in chiave corporate ma anche sul versante hacker, al guazzabuglio di paranoia, spettacolarizzazione e spauracchio delle fake news a cui associamo oggi il mezzo digitale. Secondo te, al di là del singolo caso di Richard D. James, quali sono i fattori che hanno spinto verso questo mutamento?

VM - Guarda, uno dei libri che in Exmachina cito di più è Techgnosis, il saggio sulla “nuova cultura digitale” che Erik Davis scrisse nel lontano 1998. Invito tutti a rileggerlo perché è il ritratto esatto di quella che è la nostra cultura iperconnessa nell’anno 2022 – basta sostituire Google ad Altavista e Facebook a Yahoo! (il Metaverso invece esisteva già, concetto/visione coniato nell’ambito della letteratura cyberpunk). Quello che voglio dire è: l’attuale Nuova Era Oscura di cui parla James Bridle nell’omonimo libro del 2018 (sottotitolo: “la tecnologia e la fine del futuro”) altro non è che il naturale esito dell’impianto ideologico, culturale e immaginifico originariamente concepito a inizi anni Novanta dai futuri guru della Silicon Valley, magari mentre in sottofondo girava un disco di Aphex Twin o degli Autechre. Certo, già all’epoca esisteva tutta una sottocultura di attivismo digitale che faceva da contraltare al delirio transumanista-libertariano tanto caro ai primi lettori di Wired; ma penso sia inutile ribadire quale delle due visioni del mondo alla fine abbia prevalso, no?

In questo senso, il percorso di Aphex Twin ha un che di paradigmatico – direi anzi che mi sembra del tutto naturale. Se l’IDM è stata la colonna sonora ufficiosa della technognosi, allora il suo principale alfiere non poteva che finire come effettivamente è finito: l’incarnazione di quell’indole paranoico-complottista che della technognosi è sempre stata il lato oscuro. Non ho dubbi che, se Aphex fosse italiano, sarebbe stato un acceso seguace di un Gianroberto Casaleggio.


GB - In Remoria ti preoccupi di cartografare il legame fra il vasto e variegato territorio romano, le sottoculture che l’hanno abitato nei decenni e le possibilità espressive che questi codici culturali fornivano ai ceti proletari. Una preoccupazione che ho ritrovato in autori come Fisher e Reynolds quando, ad esempio, parlando della sottocultura mod inglese degli anni Sessanta ne mettono in luce il forte legame con l’ambizione popolare di creare una “aristocrazia della strada”, il tentativo sul piano simbolico di superare le disuguaglianze reali. In Exmachina parli, a latere, della cultura rave in quanto movimento che ha l’ambizione di liberare il tempo della festa dalle categorie cognitive del capitale. Sull’evoluzione della cultura rave, della musica elettronica in genere, delle contaminazioni e filiazioni che si sono avute negli anni ci vorrebbe un lungo excursus, Reynolds ci ha provato parlando di hardcore continuum, ma al giorno d’oggi vedi la possibilità, a partire da determinati suoni e determinati codici culturali, che alcune comunità si strutturino in vere e proprie sottoculture, ovvero scene che abbiamo radici reali, al di là del sottobosco di ibridazioni, nicchie e nicchiette che ci fornisce ogni giorno il cosmo delle piattaforme social?

VM - No.

 

GB - Allo stesso modo ogni discorso sulla musica elettronica non può prescindere dallo spirito prometeico di cui, volente o nolente, è infuso in ogni tentativo di interfacciarsi alla macchina per creare un prodotto estetico. Le esperienze artistiche di cui racconti sono accomunate dal tentativo di creare uno spazio di indagine, un ventaglio di possibilità espressive, grazie all’esplorazione del mezzo e del linguaggio tecnico. I limiti della macchina sono anche i limiti dell’espressione. Al giorno d’oggi, in questo mutato paesaggio culturale in cui diamo per scontata l’infrastruttura digitale, e in cui il capitale si è adoperato per standardizzarne le chiavi interpretative, vedi la possibilità che un’esperienza artistica possa produrre qualcosa di realmente innovativo?

VM - Sei sicuro che i limiti della macchina siano anche i limiti dell’espressione? Io proverei piuttosto a invertire la prospettiva e ad ammettere che, arrivati a questo punto, non siamo più noi a “esplorare il mezzo e il linguaggio tecnico” ma sia al contrario la Macchina a servirsi dei nostri imperfetti mezzi così da portare avanti la Procedura – ed eventualmente estinguerla. Ho anche paura che, dal punto di vista della Macchina, un termine come “innovativo” non abbia granché senso. Ma se la domanda era “ci sono musiche attuali che ti piacciono e che segui con attenzione?” ti rispondo che sì, certo: qualsiasi roba targata Nyege Nyege/Hakuna Kulala oppure Duppy Gun/Bokeh, un po’ di hyperpop e relative filiazioni, Pa Salieu, Oli XL, il rap nordafricano, solite cose… Dico gente a caso perché alla fine ho smesso di appuntarmi i nomi, tanto ormai agli ascolti ci pensa l’Algoritmo.

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Italia - 2022
Arti
Valerio Mattioli

è stato tra i fondatori di Prismo Rivista. Ha scritto, principalmente di musica, per diverse testate tra cui Il Manifesto, Blow Up, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, Vice, Noisey e molte altre.

Giovanni Bitetto

ha scritto per The Vision, Flanerì, il Tascabile, L'indiscreto. Ha pubblicato il romanzo Scavare (Italosvevo, 2019).

Pubblicato:
08-03-2022
Ultima modifica:
05-03-2022
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