Montevarchi - Lhasa: andata e ritorno - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Montevarchi - Lhasa: andata e ritorno

Nel nuovo libro di Vanni Santoni si ondeggia tra mondi e richiami a dimensioni quasi inconciliabili. Una lettura.

Stefano Trucco

(1962) ha pubblicato i romanzi Fight Night (Bompiani, 2014) e Il Gran Bazar del XX secolo (Aguaplano, 2019), e il racconto lungo 1958. Una storia dell'Età Atomica (Intermezzzi, 2018). Ha contribuito al romanzo collettivo TINA. Storie della Grande Estinzione (Aguaplano, 2020) e all'antologia di fantascienza NeXT-Streams. Visioni di realtà contigue (Kipple, 2018). Vive a Genova dove lavora come bibliotecario.

Si dice che un passo prima della verità ci sia l’assurdo, e in effetti la parte della mia vita che ti interessa comincia in un modo che potremmo definire così: non so che rapporto abbiate oggi, con la pornografia…

Nel caso vi interessi solamente un parere strettamente commerciale o anche solo in termini di impiego del tempo – ‘Deve sacrificare una parte della mia vita che non riavrò mai più per leggerlo? E magari devo pure metterci dei soldi?’ -  sul nuovo romanzo di Vanni Santoni, La verità su tutto (Mondadori, 2022), la risposta semplice è: sì, è divertente e istruttivo.

Un parere un po’ criticamente articolato (un po’, non molto: sono un lettore forte ma non è la competenza tecnica per essere davvero un critico come si deve) potrebbe andare più o meno così: ‘Finora gli esiti migliori Vanni Santoni li aveva ottenuti in brevi romanzi-saggi-memoir come Muro di casse (2015), sulla cultura rave, e La stanza profonda (2017), sui giochi di ruolo, mentre nei tentativi di romanzo-romanzo, in particolare nel recente I fratelli Michelangelo (2019) era risultato di gran lunga meno convincente, addirittura palloso. Con La verità su tutto, un’avventura di ricerca spirituale che prende assolutamente sul serio il sacro e la religione, Santoni ha risolto felicemente il problema, riuscendo finalmente a organizzare una vera trama romanzesca sulla sua tipica struttura di saggio-memoir e in più è pure divertente, oltre che istruttivo’. (Mi rendo conto che invece di istruttivo potrei dire ‘sapienziale’ ma l’ho sempre trovato un termine pretenzioso al di fuori dei libri sacri e se è vero che Santoni qui proprio del sacro si occupa direi che non siamo ancora a quel punto).

Questo sarebbe quanto, se avete fretta. Potremmo aggiungere che Santoni dà l’idea di aver fatto più cose, letto più libri e visto più posti dello scrittore italiano medio, in questo simile a uno di quegli intellettuali italiani novecenteschi che se pure non sapevano tutto si impegnavano disperatamente per dare l’impressione di saperlo. La mia opinione personale è che Santoni, in questo radicato nel Novecento, sappia effettivamente quel che dice di sapere – sono un secchione e non è facile ingannarmi in queste cose - e che ci tenga che lo sappiamo anche noi, nel senso sia di farci vedere che lo che nel senso di farcelo sapere anche a noi. Tutto sta a trovare il veicolo giusto. Ne I fratelli Michelangelo non c’era riuscito: lì l’esposizione di vasti tratti di vita, anzi di vite differenti con poco in comune e messe in scena su mezzo mondo, dall’Italia all’India agli Usa, in un romanzo che voleva essere sia generazionale che, per usare una formula americana, di ‘State of the Union’, finiva, in mancanza di una trama forte, per provocare una sensazione di noia e rigetto, o più esattamente di ‘questa cosa non sta andando da nessuna parte e mi fa solo perdere quel tempo che, come dicevo prima, nessuno mi restituirà’, sensazione aggravata dalla voce autoriale tipica di Santoni, molto parlata, molto studentesca, molto spiegona, molto, diciamolo, ‘toscana’, che funzionale sulle forme brevi non lo è altrettanto su quelle lunghe. Un fallimento che ricorda un po’ quello del romanzo storico-generazionale di un altro autore maestro delle forme brevi, Mario Soldati, cioè Le due città, che, come I Fratelli Michelangelo, presentava belle pagine e scene e personaggi riusciti e interessanti che però non salvavano l’opera complessiva, con l’aggravante che il tono di Soldati era sempre comunque cordiale e simpatico e quello di Santoni non sempre, a meno di non essere un ravester toscano molto estroverso.

La verità su tutto, invece, funziona perché c’è una storia centrale abbastanza lineare da reggere una notevole quantità di interruzioni e digressioni senza disunirsi, e questa storia centrale – la ricerca, appunto, della verità su tutto da parte di Cleopatra Mancini (per tutti, Cleo), ricercatrice universitaria di sociologia a Firenze e già fra i protagonisti di Muro di casse – è abbastanza forte da reggere il nostro interesse fino alla fine.

Le location del romanzo sono quasi tutte in Toscana, da Montevarchi a Pontremoli, con puntate in India e Tibet, e a Parigi. La linea temporale del plot origina nel recente passato, attraversa la pandemia e si avventura nel vicino futuro, come capita sempre più spesso nella narrativa contemporanea. La storia comincia quando Cleo, in un video su Youporn, crede di riconoscere la sua ex compagna, Emma, e improvvisamente si sente in colpa per averla abbandonata per l’attuale compagna, Laura, e forse averne provocato una rovinosa caduta esistenziale. Cleo si ritrova a rievocare episodi di sue malvagità bambinesche e adolescenziali (l’insulto a un bambino disabile, lo scherzo crudele a una ragazzina durante le vacanze al mare), tanto modesti da rappresentare l’essenza del male in maniera più efficace di, che so, un omicidio plurimo, che in termini di fiction non può essere altro che intrattenimento: fingere di entrare nella mente di un serial killer, dopo tutti quei film, serie e romanzi, è narrativamente più facile che entrare nella mente di chi fa un male molto qualsiasi ma trent’anni dopo è ancora lì che ci pensa. Cleo finisce per rimproverarsi il comunissimo concorso truccato con cui ha avuto il posto in università: è corresponsabile del male sociale che, giovane attivista, aveva preteso di combattere. L’eco di una sconfitta storica, sia quella specifica del G8 che quella della cultura rave che tanto sta a cuore a Santoni, ma anche quella più generale delle speranze rivoluzionarie novecentesche, pesa su tutta la narrazione:

Anche ai tempi in cui eravamo più puri, non c’era reale adesione e i nostri fallimenti lo dimostravano, un morto al G8 e ci spampaniamo: essendo in ultimo piccolo-borghesi, ed essendo la piccola borghesia una non-classe, alla prima batosta ci siamo dispersi.

Quindi Cleo va in crisi e decide di capire perché esista il Male, nel mondo come negli individui. Vasto programma, avrebbe detto il generale De Gaulle, ma la figlia del carrozziere di Montevarchi è abituata a studiare e si mette al lavoro sistematicamente. Letteratura (forse la sociologia non è in grado di cogliere certe sfumature), poi filosofia (dove si intrattiene con il fantasma di Simone Weil) fino a arrivare alla teologia, prima cristiana ortodossa, poi eretica e in seguito sempre più orientale. Scopriamo, noi lettori, che la Toscana pullula di comunità spirituali e utopistiche, cristiane, eretiche, teosofiche e buddiste e le visitiamo una per una. L’occhio di Santoni è sempre ironico e registra gli aspetti grotteschi delle varie comunità, che sono in realtà tutte esperienze più o meno fallite, ma mentre uno scrittore italiano medio si sarebbe fermato lì e avrebbe fatto semplicemente della satira e magari lamentando la stupidità umana dando la colpa di tutto alla televisione, lo scrittore di San Giovanni Valdarno sa che dietro a tante mode – ‘parto naturale in acqua, psichedelia, veganesimo, ammucchiate – pardon: riti tantrici -, magari un tocco di pseudoscienza, fitoterapia, linee di Ley, bischerate così’ – si nasconde qualcosa di diverso, qualcosa di fondamentale e, in un certo senso, utile perché ‘gruppuscoli e comunità potevano costituire delle eccezioni, magari ce ne erano altre che, per quanto balenghe – o proprio perché balenghe – avevano sviluppato strategie spirituali plausibili, senza arrivare a quell’istituzionalizzazione che allontana sempre dalla verità’.

Ora, questa cosa qua del buddhismo, che da metà romanzo circa diventa il tema dominante, mi consente una lunga digressione (poi torniamo al romanzo) sul tema Oriente vs Occidente, con particolare attenzione all’Italia, ma prima stabiliamo una cosa: Santoni ha scritto un romanzo di idee, un romanzo con una missione, la missione stabilita da un titolo che è ironico fino a un certo punto; ha scritto cioè una tipologia di romanzo abbastanza problematica per il nostro tempo.

Abbastanza problematica da parecchio, almeno da quanto T.S. Eliot elogiò Henry James con il complimento leggermente ironico secondo cui ‘La sua mente era così sottile che nessuna idea avrebbe potuto violarla’. Il romanzo novecentesco ha avuto un serio problema con le idee, secondo quanto scriveva Mary McCarthy nel 1980, lamentando la scomparsa del romanzo di idee: laddove ‘il romanzo dell’Ottocento era così specificatamente portatore di idee che la componente di pensiero in esso manifesta era accettata dal lettore come un ingrediente prevedibile e ovvio quanto il lievito del pane’ quello del Novecento deriva, come tante scuole di scrittura non si stancano di spiegarci, dalla semplificazione operata prima da Flaubert e poi, più radicalmente, da James: ‘Egli non ha allargato la strada per i suoi successori, anzi ne ha addirittura chiuso ermeticamente con nastro adesivo quasi ogni uscita… grossolani elementi tradizionali: la suspense, l’azione fisica, gli inventari, le descrizioni di luoghi e di persone, l’apostrofe, gli insegnamenti morali… quello che in lui non c’è: le battaglie, le sommosse, le tempeste, le aurore, le fogne di Parigi, i delitti, la fame, la peste, il patibolo, il clero’.

Ora, le eccezioni sono legione, e nel postmoderno le idee – anche in forma di inserti saggistici, e da questo punto di vista il romanzo di Santoni può passare per una cosa del genere, tali e tanti sono questi inserti – sono molto presenti, sia pure usate solo in senso narrativo, cioè non prese davvero sul serio quanto idee, ma il giudizio della McCarthy secondo me resta nel complesso valido, tanto che sono frequenti ancora oggi gli attacchi alla letteratura cosiddetta ‘impegnata’ ma anche contro la letteratura ‘cerebrale’ o che dia troppo peso alle idee e che si presenti in qualche modo come ‘utile’, in nome di modelli diversi ma uniti nella condanna, dallo ‘show don’t tell’ alla ‘pura narratività’, fino alla ‘funzione Gadda’ e alla ‘grana della voce’.

Man mano che avanziamo nella lettura di La verità su tutto ci rendiamo conto che Santoni non sta facendo del facile moralismo su temi d’attualità né ci sta esortando a essere più buoni o sinceri o autentici ma ci sta presentando un programma di salvezza, sia personale che, più problematicamente, collettiva. E questo programma passa, risolutamente, oltre che per la psichedelia (tema a cui Santoni è particolarmente sensibile), per l’Oriente inteso come luogo dello spirito.

La dicotomia Occidente/Oriente è in qualche modo strutturale dell’identità occidentale (non so se anche di quella orientale, almeno fino a tempi storicamente recenti) e difatti compare fin dall’inizio, nell’Iliade e nella cultura greca classica, come ci dicono esplicitamente le prime righe delle Storie di Erodoto. Però quadri così vasti, spesso così chiari visti dalla distanza giusta e all’interno di una bella cornice si trasformano in un vortice confuso di colori sovrapposti dove si vede il colpo di pennello quando li esaminiamo più da vicino. L’Oriente è grande, la Cina è molto diversa dall’India e che ne facciamo del Giappone, per non parlare dell’Indonesia? La Russia è Oriente o Occidente, domanda antica e purtroppo d’attualità? E l’Islam? Oriente, Occidente o blocco opaco in mezzo che impedisce fruttuosi rapporti fra le due parti, come pensava Levy-Strauss?

Per Fosco Maraini, che al tema ha dedicato la vita, c’è una radicale differenza mentale fra l’Est e l’Ovest:

In molte sfere della vita spirituale l’Oriente tende piuttosto a unire, l’Occidente a distinguere… La mente orientale sente con profondo convincimento d’affrontare le spiegazioni della vita sotto l’impero della ragione. Ragione che, a sua volta, è qualcosa di diverso dalla nostra, forse meno analitica e cerebrale, piuttosto un frutto totale della personalità.

Per Umberto Eco, in suo saggio del 1979 sullo Zen e l’Occidente, raccolto in Opera aperta, l’opposizione fra le due concezioni è vista dall’altro lato, quello ‘nostro’:

Anche di fronte a un buddismo che celebra l’accettazione positiva della vita, l’animo occidentale se ne distaccherà sempre per un bisogno ineliminabile di ricostruire questa vita accettata secondo una direzione voluta dall’intelligenza. Il momento contemplativo non potrà essere che uno stadio di ripresa, un toccare la madre terra per riprendere energia; mai l’uomo occidentale accetterà di smemorare nella contemplazione della molteplicità, ma si perderà sempre tentando di dominarla e ricomporla… l’Occidente, anche quando accetta con gioia il mutevole e rifiuta le leggi causali che lo immobilizzano, non rinuncia tuttavia a ridefinirlo attraverso le leggi provvisorie della probabilità e della statistica perché… l’ordine e l’intelligenza che “distingue” sono la sua vocazione.

Ora, non so quanti di voi abbiano mai sentito nominare Raffaele De Cesare e Stanislao Gatti – tranquilli, non sono veramente fondamentali ma mi vengono utili al momento. Il primo fu uno storico, politico e giornalista pugliese la cui opera più nota è La fine di un regno, una storia degli ultimi anni del Regno delle Due Sicilie che uscì in varie edizioni fra il 1894 e il 1909. De Cesare è uno storico molto minuzioso, talmente minuzioso da dare un’impressione leggermente maniacale: tipo, se deve parlare dei caffè di Napoli ai tempi dei Borboni te li enumera uno per uno, ti descrive l’ambiente, ti dice com’era il caffè, ti cita i frequentatori abituali, oltre ovviamente a raccontare qualsiasi aneddoto possibile legato al posto. E così per tutto – ci viene detto cosa disse il Sindaco nel suo discorso di benvenuto e cosa c’era scritto su ogni singolo arco di trionfo di cartone eretto dai municipi in onore di Re Ferdinando durante il viaggio in Lucania e Puglia nel quale trovò la morte. Insomma, alla fine ne esce un allucinatorio tentativo di mappa 1:1 di quel tempo, non tanto storia quanto pettegolezzo, di certo utile agli storici futuri, e, almeno per me, una gran lettura.

A un certo punto De Cesare parla di Stanislao Gatti, patriota liberale e soprattutto filosofo hegeliano napoletano che nel 1859, in pieno Risorgimento, pubblica la prima versione italiana del Baghavad Gita, il cuore sapienziale e spirituale del grande poema epico indiano Mahabharata, una roba ‘che fece ammattire i pochi che lo lessero’. De Cesare non si capacita che ‘dati i tempi e il risveglio della coscienza nazionale’ si potesse ‘al codice di Manu o alla teologia brahamanica, o alla “Cossa delle due cognate famiglie che decider dovevano colle spade la successione al trono di Hastinapura” e come non solo a lui la cosa ‘parve opera di uno sfaccendato, piuttosto che di uno studioso come il Gatti’.

Ma De Cesare non si smentisce e regala al fatto un’intera pagina nella quale cerca di riassumere l’intero Mahabharata: ‘E Krisna, per chi non sapesse, è una delle dieci Avatara, ovverosia personificazioni del dio Visnu, “signore e benefattor nostro”, cioè degli Indiani, figliuolo del Cielo e Dio della luce del vento…’. Ci informa che la polizia borbonica ‘ci vide dentro non so quali cose sospette, e poteva in quel guazzabuglio veder tutto’; fa battute sulla nascita di Krisna ‘senza merito del marito che sarebbe un San Giuseppe indiano’; sappiamo infine che malgrado il poema fosse ‘tradotto dal sanscrito, corredato di note e accresciuto di una sapiente introduzione’ il Gatti venne accusato di aver tradotto una traduzione inglese. Il giudizio finale di De Cesare, che si è chiaramente divertito, è un lapidario ‘c’era da diventar matti’.

E direi che per quanto riguarda i rapporti fra cultura italiana e orientale siamo ancora lì. Se vado a leggere la voce su Stanislao Gatti nel Dizionario Biografico degli Italiani trovo che il suo percorso filosofico dall’ecclettismo cousiniano all’hegelismo passando per Schelling è descritto in dettaglio, come pure le sue influenze e amicizie e controversie e il fatto che morì prefetto a Benevento, mentre le traduzioni e studi sulle culture indiana e persiana sono appena accennate fra gli ‘interessi letterari’, cioè non si tratta di filosofia ‘seria’.

Vanni Santoni

Vanni Santoni

Gatti stesso chiaramente scopre il Baghavad Gita e la mistica indiana attraverso la cultura filosofica tedesca, dato che ne avevano scritto seriamente sia Hegel che Schopenhauer (ma l’Oriente era presente anche Goethe e altri di quel livello). Un’estraneità guarnita di disprezzo o almeno di ironia. Certe pratiche, tipo lo yoga o la meditazione, sono in realtà piuttosto popolari in Italia, trattate più o meno seriamente, a volte confuse con l’esoterismo e l’occultismo, e anche per questo rifiutate dal mainstream della nostra cultura, dove qualsiasi riferimento a religioni e idee che sono spesso più antiche del Cristianesimo stesso è facilmente etichettato come ‘New Age’, ormai termine di condanna generale. Non per niente è di questi giorni la notizia di una serie Rai intitolata Il Santone, con Neri Marcorè, descritto come ‘Osho a Centocelle’ e ispirata non tanto al mistico indiano Osho Rajneesh quanto al popolare meme social di Federico Palmaroli – oh, magari è pure divertente ma insomma, il livello è questo.

Non si può nemmeno dire che sia perché non ci si è provato. Non so se qualcuno di voi meno giovani si ricorda di Vittorio Saltini. Era il responsabile della rubrica di saggistica dell’Espresso fra gli anni Sessanta e Ottanta, ai tempi in cui l’Espresso era sostanzialmente il centro della vita culturale italiana (la rubrica di narrativa la teneva Paolo Milano e quella di cinema Alberto Moravia, per darvi un’idea): era perciò ‘a power in the land’, come dicono lassù. Però a un certo punto cominciò a fissarsi su Osho e finì per parlare solo di lui e della mistica indiana in genere (ma anche della Cina: pubblicò un romanzo sul poeta taoista cinese Li Po), finché non gli rinnovarono il contratto, cosa che all’epoca fece un’enorme impressione fra i letterati, come uno che si dimettesse dall’università o anche solo abbandonasse il posto fisso.

Saltini è di Lucca, e la diffusione della tradizione orientale in Italia è in massima parte un affare toscano o almeno dell’Italia centrale. Da Macerata vennero il gesuita Matteo Ricci, quello che entrò a corte degli imperatori della dinastia dei Ming, e Giuseppe Tucci, orientalista, esploratore e storico delle religioni, tanto famoso da apparire come personaggio in un film di Francis Ford Coppola. Giovanni da Pian del Carpine, che nel XIII secolo viaggiò fino alla Mongolia per conto del Papa e scrisse una storia dei mongoli, era umbro. Fosco Maraini, che andò con Tucci in Tibet e poi scrisse meravigliosamente del Giappone dove fu prigioniero durante la guerra era di Firenze, mentre di Livorno era Carlo Coccioli, forse l’unico romanziere italiano prima di Santoni (e Saltini) a prendere sul serio il Buddhismo (di Firenze è Alessandro Raveggi, che è scritto un bel romanzo biografico su Coccioli, Grande Karma). Il maggior outlier in questo elenco è ovviamente il veneziano Marco Polo, ma guarda caso a scrivere effettivamente il Milione fu un pisano, Rustichello. Quanto a Santoni stesso, beh, è talmente toscano (di Montevarchi) da sfiorare la parodia.

Pontremoli, Italia

Pontremoli, Italia | Paolo Baviera / Flickr

En passant, ricordiamo che fra gli anni Sessanta e Settanta, l’Oriente tirava – un po’ per il Vietnam e Mao, un po’ per i Beatles in India, un po’ per le macchine fotografiche giapponesi – e i letterati italiani (Moravia, Pasolini, Manganelli, Parise ecc.) fecero i loro giudiziosi pellegrinaggi di aggiornamento culturale e produssero libri di viaggio più o meno interessanti per poi passare a altro.

Un passaggio interessante relativo alla scarsa penetrazione della cultura orientale nella cultura italiana (che poi, prometto, ci riporta al romanzo di Santoni) lo si può trovare nel paragone fra due importanti collane editoriali italiane del Novecento.

La Collana di Studi, Religiosi, Iniziatici ed Esoterici dell’editore Laterza nacque negli anni Venti del Novecento, al culmine dell’influenza di Benedetto Croce sia su Laterza che sulla cultura italiana in genere e la cosa è strana perché i titoli della collana (riconoscibile per le deliziose copertine Art Deco’) erano quanto di più lontano dallo storicismo del filosofo napoletano: Ebraismo, Islamismo, Buddhismo, ma anche Kabbalah, Sufismo, Tantrismo, magia, alchimia, teosofia e persino psicanalisi. Croce, che pure considerava con ironia se non disprezzo molti di questi temi, non solo approvò la collana ma fece il possibile per diffonderla e a lui, pare, si deve, in uno dei corto circuiti intellettuali più bizzarri del Novecento italiano, la partecipazione alla collana del giovane Julius Evola. Il livello dei titoli era estremamente vario, dall’incontestabile erudizione a piste d’indagine ‘farraginose e in qualche caso grottesche’ (come le definisce Silvio Todesco nell’articolo ‘Tremendum fascinans. Due collane storiche a confronto' sul sito dell’Istituto Euroarabo) che sbracavano nell’occultismo più cialtrone o in sincretismi e spiritualismi non sempre ben calibrati. Nella collana comunque vengono pubblicati autori come Freud e Jung, Guenon e Steiner, Schurè e Maeterlinck, e il giovane Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto, filosofo, mistico e pacifista, che compare con un ruolo di una certa importanza nel romanzo di Santoni dopo che la cultura italiana l’aveva dimenticato da tempo.

Nel dopoguerra invece esce per Einaudi la ‘Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici’, più nota come Collana Viola dal colore della copertina, legata ai nomi di Cesare Pavese e dell’antropologo Ernesto De Martino, il cui ‘Il mondo magico’ inaugura la collana. Il livello qui è uniformemente alto, senza svarioni o occultismi di alcun genere: si pubblicano Kerényi e Propp, Frobenius e Frazer, Mauss e Eliade, e autori italiani meno noti ma di solida cultura accademica, come del resto De Martino, che oltretutto era stato allievo e protetto di Benedetto Croce.

All’”ingenuità” di gran parte dei titoli dell’Esoterica, incentrati su teorie fumose e misticheggianti, fa riscontro il rigore metodologico dei volumi Viola, pur nella varietà degli approcci che spaziano dalla fenomenologia allo strutturalismo, dallo storicismo alla psicanalisi’, commenta Todesco. Eppure, mi pare di poter dire col senno di poi, l’effetto della Collana Viola, così seria e impeccabile, sulla letteratura italiana, e qui intendo la narrativa, finì per essere modesto, forse inferiore a quella della povera Esoterica, per motivi che a un certo punto ritrovo proprio in La verità su tutto. Santoni paragona il buddhismo indiano a quello tibetano: da una parte l’anarchia interpretativa e organizzativa che rende difficile distinguere gli illuminati dai truffatori; dall’altra una rigorosa burocratizzazione del sapere che rende impossibili i truffatori ma forse anche gli illuminati.

Varanasi, India

Varanasi, India | PS Sahana / Flickr

Non c’era dubbio che il metodo tibetano prevenisse l’ascesa di impostori e ciarlatani già a ranghi mediani, e per quanto riguardava quelli elevati, se li cresceva fin da piccoli, modellando la persona sul ruolo, un ruolo custodito proprio da quei mediani così opportunamente selezionati, ma non rischiava così di sommergere in partenza anche i più dotati, specie se poco propensi all’ascolto e all’obbedienza? Pensai a quando, nei Cavalieri dello Zodiaco, Phoenix riesce a essere sbruffone anche al cospetto di Virgo, che era letteralmente la reincarnazione del Buddha.

Qui mi pare giusto confessare da che parte sto. La penso come G.K. Chesterton (e, sorprendentemente, Slavoj Zizek, che riprende lo scrittore inglese da un punto di vista ateo), secondo cui “per il buddista o il teosofo, la personalità significa la caduta dell'uomo; per il cristiano significa il proposito di Dio, l'obiettivo totale della idea cosmica”  e come lui sto dalla parte del cristianesimo (Chesterton disse anche che buddhismo e cristianesimo sono molto simili, specie il buddhismo).

Detto questo sono rimasto molto colpito dalla generosità di Santoni verso il buon vecchio cristianesimo. Certo, un cristianesimo non chiesastico, non ortodosso, più vicino alle comunità di base e soprattutto a quella tradizione mistica che la Chiesa ha sempre trattato con diffidenza, accettandola in certi casi e reprimendola o escludendola in altri. Quando Cleo metterà a punto le tecniche necessarie lo farò con spirito lodevolmente ecumenico:

Tornavano utili, lì, libri “spirituali” di livello base… come “Lo splendore del loto’ di Thich Nhat Hanh o “Meditazione pratica” di Ritajananda. Il gradino successivo… era il mantra yoga coi suoi japa: la ripetizione dei mantra era facile, funzionava bene (Krishna stesso è soddisfatto!) e costituiva il modo migliore per addomesticare il respiro e fermare i voli inquieti della mente. Ne provai molti, e passando dal ‘master mantra’ – lo Ham Sa del raja yoga – e dal Pranayama… oltre che ovviamente dallo Yogasutra di Patanjali, sviluppai poi un mio approccio al chakra yoga, buona anticamera delle visualizzazioni più ardite (…) e una volta spurgati dal cattolicesimo in eccesso e integrati col Qoélet, tornavano efficaci gli Esercizi Spirituali di Ignazio da Loyola

– ovvero, se le risposte possono divergere radicalmente, il campo su cui si deve costruire, la natura umana, risponde a certe tecniche allo stesso modo in diverse culture (memo per il futuro: questo tema, delle tecniche, diciamo così, spirituali è un campo su cui dovrei saperne di più).

Tornando alla Verità su tutto, Cleo finisce per ritirarsi in un romitaggio montano, senza acqua né riscaldamento e lì raggiunge o è sul punto di raggiungere un’illuminazione che coinciderebbe con la sua morte se non fosse salvata per caso all’ultimo istante. La sua educazione spirituale e intellettuale prosegue al Paradisino, una minuscola comunità di ritiro e ricerca popolata di personaggi eccentrici in gran parte provenienti dal multiverso santoniano. Ci sono scene che fanno venire in mente etichette critiche udite di sfuggita un tempo, tipo ‘bozzettismo toscano’, e autori che in realtà non si è letto, come Renato Fucini e Alfredo Panzini, come pure termini come ‘cicalata’. Santoni è particolarmente bravo a tenere assieme un radicamento locale molto forte con una visione molto più globale e contemporanea, a tratti pure pop.

Al Paradisino Cleo riscopre le sue doti di organizzatrice e leader, eredità del suo periodo politico. Doti che risultano decisive quando finalmente incontra Kumari Devi e la sua vita cambia radicalmente, di nuovo.

Kumari, che è naturalmente bellissima, è in pratica una aspirante dea, allevata fin dalla nascita a questo fine, con tanto di città utopistica in India che avrebbe dovuto diventare il centro di una nuova umanità riconciliata, anche se agli occhi di Cleo Shaktiville somiglia a una versione in grande delle piccole comunità fallite della Valle dell’Arno. Cleo fa provare l’LSD a Kumari e l’effetto è meraviglioso: ‘le scese dall’occhio destro una lacrima sottile, che i primi raggi fecero scintillare. Non osai chiederle cosa avesse pensato, ma qualche minuto dopo mi disse che aveva capito che aveva fatto bene a non dubitare mai’ – la psichedelia conferma la realtà della fede.

Nasce un amore e Cleo viene coinvolta nella gestione della filiale di Pontremoli della setta e contribuisce a organizzarla e farla crescere. L’unione di rigorose tecniche di illuminazione personale e uso di sostanze allucinogene si rivela vincente. La comunità si espande fino a raggiungere un milione di adepti, con filiali in varie parti del mondo, un mondo che, di suo, sta collassando in un futuro su cui si vorrebbe sapere di più ma che Santoni si limita a evocare con immagini rare ma forti, come quando Cleo torna a Montevarchi e Piazza della Repubblica è ‘irriconoscibile, gli alberi tagliati, l’erba secca e gialla ma alta fin quasi a nascondere i giochi per bambini ormai arrugginiti’. Stilisticamente, le citazioni, presenti fin dall’inizio, diventano sempre più massicce e didattiche, massi morenici di sapienza orientale che bucano che danno un impressione a metà strada fra la poesia e il manuale di istruzioni, senza però cancellare il tono parlato e disinvolto che aveva dominato fino a quel momento che solo si fa più cupo e premonitore.  

Il Kali Yuga, invece, l’era delle tenebre, della discordia e dell’ipocrisia: ecco qualcosa con cui è possibile rapportarsi, qualcosa di sincero. E lo sai quanto durerà? Mancano giusto quattrocentoventiseimilaottocentoottantadue anni. Quanta sensatezza in queste cifre inconcepibili, in questa continua messa in prospettiva dell’uomo e dei suoi secoli, e quanta aderenza all’oggi, a questo mondo nostro, questa nostra piccolissima era, già sfarinata, guasta, sputtanata.

Shaktiville non può quindi evitare la politica: ci sono dissensi e scissioni interne, fra chi vuole mantenere una direzione rigorosamente religiosa e chi vuole farne uno strumento di potere. Non ci può essere salvezza per nessuno se non c’è salvezza per tutti ma non c’è un metodo collaudato per la salvezza collettiva che funzioni come quello per la salvezza individuale. Cleo deve affrontare le dinamiche che conosce così bene sia dalla sua militanza politica che dai suoi studi sociologici e mentre la situazione esterna si fa ogni giorno più pericolosa, con le folle immiserite (le folle immiserite e regredite di quella che un tempo era la ricca Toscana) che in parte vogliono essere salvate e in parte hanno paura di quella cosa strana che cresce in mezzo a loro. I ‘politici’, che vogliono trasformare la comunità in partito e conquistare il potere, vengono scacciati ma questo non salva la comunità dalla furia populista, Kumari va incontro al suo destino fortemente voluto di dea e martire, mentre Cleo, che non accetta l’idea di doversi difendere dalla violenza con la violenza fugge e assiste all’epilogo in televisione.

Cleo non ha rinunciato ai suoi principi ma da quel momento la possibilità del satori scompare, in cambio di una saggezza un po’ triste  e sconfitta che le è costata tutto. Dopo aver vagato per un mondo sempre più disfunzionale e stropicciato torna fra le rovine della comunità di Pontremoli dove viene ritrovata dall’ascoltatrice della sua lunga narrazione (che avevamo sentito per un attimo all’inizio e ritroviamo alla fine solo per sentirsi proporre un po’ di sesso).

Insomma, fin qui tutto bene, il romanzo funziona. C’è qualcosa che non va? L’unica critica che mi viene in mente è un po’ ingiusta. Cioè, Santoni è sostanzialmente riuscito a fare quel che voleva fare, che per me è il punto di tutta la faccenda dello scrivere romanzi. Però mi è venuto in mente Carlo Coccioli, che avevo citato prima come un raro caso di scrittore italiano che prendeva sul serio il buddhismo. Però Coccioli prima aveva preso molto sul serio anche il cristianesimo. Il suo romanzo del 1950 Il cielo e la terra, racconta la vita di un parroco santo, Don Ardito Piccardi, che sarà ucciso dai nazisti durante la guerra. Don Ardito compie miracoli e esorcismi e Coccioli li racconta come tali, senza esitazion’, in particolare la guarigione del piccolo paralitico Gustavino.

Anche Cleo finisce per compiere un miracolo su un bambina ‘che si sarebbe potuta dire viva solo per i piccoli spasmi che a tratti ne scuotevano il corpo pallido, con le labbra blu come quelle di un’annegata e delle occhiaie che erano le orbite di un teschio’ (sì, ci sono anche questi momenti di puro Ottocento) ma non è sicura che sia accaduto davvero e Santoni non se la sente di andare fino in fondo. Magari non vuole, magari non ci crede, però il punto è irrisolto e segna l’inizio del disincanto per Cleo, che non è disposta a credere di poter aver compiuto un miracolo. ‘Guarì? Non guarì? Non è quello il punto… Vuoi delle risposte? Vuoi delle verità? Vuoi sapere cos’è l’assoluto, il brahman? Va bene: ciò che con l’occhio non si vede, ma mediante il quale gli occhi vedono, questo è il brahman’. Questo può forse essere considerato anche un limite di Santoni, troppo moderno, disinvolto e, a suo modo, inserito in un mondo che vuole diverso ma nel quale si sente chiaramente a casa, a differenza di Coccioli che si sentì sempre estraneo e respinto e per questo disposto, spiritualmente, a tutto. Santoni, per il momento, forse non è ancora pronto a mollare del tutto la presa ma in futuro potrebbe esserlo.

Detto questo, se fossi in voi La verità su tutto lo leggerei.

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Questo articolo è parte della serie:  Recensioni
Italia - 2022
Arti
Stefano Trucco

(1962) ha pubblicato i romanzi Fight Night (Bompiani, 2014) e Il Gran Bazar del XX secolo (Aguaplano, 2019), e il racconto lungo 1958. Una storia dell'Età Atomica (Intermezzzi, 2018). Ha contribuito al romanzo collettivo TINA. Storie della Grande Estinzione (Aguaplano, 2020) e all'antologia di fantascienza NeXT-Streams. Visioni di realtà contigue (Kipple, 2018). Vive a Genova dove lavora come bibliotecario.

Pubblicato:
13-05-2022
Ultima modifica:
13-05-2022
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