Antropocene possibile - Singola | Storie di scenari e orizzonti
"Abitudini dei gatti", da un bestiario inglese del tredicesimo secolo
"Abitudini dei gatti", da un bestiario inglese del tredicesimo secolo

Antropocene possibile

Un dialogo sulle nuove visioni del cosmo.

"Abitudini dei gatti", da un bestiario inglese del tredicesimo secolo
Giorgiomaria Cornelio

(1997) è poeta, regista, curatore del progetto ”edizioni volatili”, e redattore di “nazione indiana”. Ha co-diretto la “trilogia dei viandanti” (2016-2020). Suoi interventi sono apparsi su “Le parole e le cose”, “Doppiozero”, “Antinomie”, “Il tascabile” e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore) e La specie storta (Tlon edizioni).

Matteo Meschiari

(1968) è geografo, saggista e scrittore. È professore associato dell'Università di Palermo, dove insegna Geografia e Antropologia. Ha scritto diversi libri, tra cui Artico Nero (2016) e Neghentopia (2017), entrambi pubblicati per Exorma, La Grande Estinzione. Immaginare ai tempi del collasso (Armillaria 2019). Con Antonio Vena ha ideato il progetto TINA-LA GRANDE ESTINZIONE sull’immaginario collettivo nell’Antropocene.

L’Antropocene non è semplicemente una messa in crisi dei contenuti, a cui far fronte attraverso un pantano di scritture piegate ai nuovi temi dell'attualità. Piuttosto, è la sempre maggiore richiesta di una inattualità proliferante, capace di disattendere i luoghi dell'anticipazione, i futuri di cui conosciamo già tutto, le distopie divenute familiari. Nell’Icononologia, il vastissimo repertorio di immagini allegoriche che Cesare Ripa pubblicò alla fine del XVI secolo, l'Enigma viene raffigurato come un uomo mascherato, avvolto da una rete, e con in mano un laccio attorcigliato che sta ad indicare l'insieme di processi tortuosi che vengono richiesti per la costruzione di ogni enigma. Come a dire: l'enigma va messo all'opera... In questo momento, ciò di cui abbiamo bisogno è forse proprio lo sforzo di interagire attivamente con l’oscura rete di tempi e immagini che avvolge l'essere umano, lo riconfigura continuamente, riesce a spaesarlo.

Giorgiomaria Cornelio ne discute con l’antropologo e scrittore Matteo Meschiari, a seguito dell’annuncio del suo nuovo libro, Antropocene Fantastico (Armillaria), che dà anche il titolo a un incontro recentemente organizzato dalla Libreria Teatro Tlon a Parco Appio a Roma.

Cesare Ripa, Enigma, in Iconologia, 1593

Cesare Ripa, Enigma, in Iconologia, 1593

Giorgiomaria Cornelio - In una tua riflessione attorno alla mappa della Contea di Yoknapatawpha che Faulkner disegnò nel 1936 per Assalonne, Assalonne!, scrivi: «di fatto essa non aiuta a orientarsi tra logica spaziale e sequenza narrativa ma rafforza l'ambiguità. È insomma una mappa disegnata per "disorientare". Ricalcata sulla topografia della Contea di Lafayette, Mississippi, in realtà stende su quelle terre una rete mitica che verticalizza la geografia reale. Il compito della mappa, dunque, è moltiplicare i livelli di lettura, provocare brillamenti imprevisti».
Come si elabora una geografia dello spaesamento al tempo dell'Antropocene?

Matteo Meschiari - Spaesamento e appaesamento vanno assieme. Per come sento le cose, oggi siamo in presenza di un continente enorme, inesplorato. Il Continente-Antropocene può essere visto come una waste land, oppure può essere guardato con lo stesso sguardo meravigliato e attonito dei primi europei che hanno attraversato l’Atlantico. Questa volta non colonizzeremo nulla, per fortuna, se non nel senso di una rivoluzione culturale contro la parte reazionaria di noi stessi per salvarci dal collasso, ma le strategie di appaesamento in un luogo spaesante erano, sono, saranno le stesse. Che cosa accade ai primi coloni? Che cosa fanno per portare una particola di “casa”, cioè del già noto, in una configurazione di geologie, biologie e culture profondamente overwhelming?
Ci provarono (ci proveremo) attraverso gesti di familiarizzazione progressiva. La geografia del nuovo mondo nasce attraverso tre paradigmi operativi che sono anche tre modelli cognitivi: cartografare disegnando, dunque traducendo in immagini simboliche il mondo percepito; nominare, cioè topologizzare una topografia dando nomi ai luoghi reali e simbolici; cercare scout nativi, guide, mediatori culturali, che possano traghettare nei due sensi il sapere del presente e il sapere di un dopo che non riusciamo ancora a immaginare. Prima di ogni mappa c’è un’esplorazione narrativa, e secondo me è qui che entrano in gioco poeti e scrittori.

La mappa della Contea di Yoknapatawpha di Faulkner

La mappa della Contea di Yoknapatawpha di Faulkner



GC - Si tende però a negare il valore concreto delle visioni immaginative, privandole di una loro influenza diretta sulla realtà. Il favoloso, ad esempio, è considerato una formula della pura evasione. In un passaggio del Das Allgemeine Brouillon, Novalis diceva invece che «la favola è l'epoca anteriore al mondo» e - con un altro formidabile capovolgimento - che essa è «lo stato di natura della natura».
Il favoloso come scuotimento della falsa naturalità delle cose; come movimento dell'immaginazione che percepisce il grande colloquio dei possibili e la continua metamorfosi delle immagini; aggiungo: il favoloso come tentativo di reagire concretamente a ogni determinazione prestabilita (oggi potremmo dire: alla condanna dei futuri assolutamente catastrofici).
L'Antropocene sarà questo continente dei possibili? La chance per un rinnovamento dell’immaginazione cognitiva?

MM - Sta già accadendo, nel modo più esteso possibile, perché questo rinnovamento dell’immaginazione non investe aree periferiche ma va direttamente al nocciolo della mitopoiesi. L’Antropocene non è una discussione per complessità sul collasso ambientale e sul mutamento climatico, ma è il tentativo di fondare una nuova cosmologia o, meglio, un fascio di nuove cosmologie come scenari alternativi. In bilico tra scienza, geopolitica, reinterpretazione dei big data ed escatologia, l’immaginario collettivo antropocenico è al lavoro già da qualche tempo per delineare delle nuove visioni del cosmo.
Cosmogonie e cosmografie novelle, presenti a ogni strato del grande mare sedimentario della cultura, dalle produzioni pop a quelle più eretiche e raffinate, si stanno autogenerando in un processo che non si limita a registrare l’accadere immaginativo ma che ha il potere di modificare la stessa realtà, perché inventare e raccontare storie ha un impatto di vita sempre più forte. Il problema per chi, intellettuale oggi, non vede o addirittura nega l’inevitabile, è che l’Antropocene, il futuro, il dopo, sono invariabilmente colorati dalle tinte monotone e ipersature della distopia. Il collasso è un dato di fatto, ma non è detto che debba somigliare per forza a un crollo verticale, a un vicolo cieco, a un giardino guasto.



Chiudersi nell’esito monocromatico di un futuro tragico, apocalittico, tossico significa privarci in anticipo di un’alternativa, significa ipotecare per rinuncia, coincide con l’enunciazione di una profezia autoavverante e suicidiaria. Invece credo che lavorare per immagini e narrazioni a un antropocene fantastico e fiabesco possa aprire un ventaglio di possibili. Dalla distopia alla possitopia. Ovviamente, come dici, il fardello vulgato di favoloso e fantastico è quello di un armamentario fatto di unicorni rosa e polvere di fata, ma già le riflessioni di J.R.R. Tolkien sulla fiaba ci sostengono nel non banalizzare una geografia così complessa. Favoloso e fantastico sono al contrario una vocazione verso il primario e il fondamentale a scapito dell’irrisorio e della cronaca. Quindi per me sono la vera grande pista da battere oggi, in un’esplorazione poetica e narrativa fatta per cuori solitari e coraggiosi.

GC - L'estinzione agisce anche sul passato: lo snuda gradualmente; ne mortifica le complesse genealogie. Nonostante questo, le immagini possiedono una loro tenacia danzante che si muove attraverso i secoli; le mappe per i mondi a venire saranno necessariamente anche dispiegamenti dei mondi passati - di quanto in loro non è ancora trascorso del tutto...

MM - Il tempo immaginato è un anello in cui preistoria e fine del tutto coincidono. L’asse di familiarità che lega le origini alla caduta finale è un vecchio modello che però non invecchia. La nostra mente è comparativa, cerca varianti congiuntive e disgiuntive per cosmicizzare il caos, ama riconoscere il noto nell’ignoto, per cui la storia diventa maestra, il passato insegna, il futuro è un ricorso. E un po’ certamente è così. Ma questa idea di tempo circolare evoca nella sua fragilità il supplemento di fragilità che caratterizza l’uomo di oggi nell’Antropocene, un uomo che sente il tempo in frantumi, che vive tra calcinacci di tempo, dentro perturbazioni gassose dell’accadere, tutte visioni infrante che ci impediscono di manipolare il futuro a immagine dei desideri del presente. Più che provare a ricomporre un modello circolare del tempo vorrei che si provasse a slittare poeticamente, intellettualmente, spiritualmente da kronos a kairos, da un tempo esteso a un tempo intenso, un’operazione alchemica che richiede doti poetiche e poietiche, quantomeno sulle compagini più astratte della mente dell’uomo. Stiamo vivendo un cambio di stato cognitivo, con traballamenti vertiginosi e grandi pericoli, ma anche con opportunità narrative e performative enormi. Ragionare sull’estinzione, de-estinguere specie scomparse, cartografare terre e tempi che non esistono più è una parte del grande esercizio di riscrittura del mondo. Un’altra parte invece è inventare mondi di sana pianta, elaborare geografie vicarie in cui fare prove di futuro adesso, subito, senza bruciare nell’attesa.



GC - Da «kronos» a «kairos», quel tempo miracoloso che Cristina Campo, parlando del tappeto volante, chiamò «la momentanea, lampeggiante fissura tra l'ordito e la trama». Vorrei osservare più attentamente la realtà del tappeto orientale: avendo un'origine nomade, esso è rifugio disancorato, che di volta in volta circoscrive il luogo sottratto allo spazio profano; come il libro, è soglia da baciare ad ogni ingresso, paziente cosmogonia portatile, annodata in tempi anche remotissimi: il tappeto di Pazyryk, scoperto in Siberia durante la spedizione Rudenko, risale al V-IV secolo a.C. e conta un totale di 1.250.000 nodi. Nell'antica Persia, a guidare le mani delle bambine nella fabbricazione dei tappeti erano i maestri vagabondi, che sapevano cantare a memoria il musicale schema delle annodature.
Avanzo alcuni interrogativi: le nuove narrazioni possono funzionare come questi tappeti, ovvero come congegni trasfiguranti e mobili, capaci di marcare spazi di alterità nel mondo colonizzato dalla catastrofe? Saranno terre involate oltre l'annuncio della fine?

Il tappeto di Pazyryk

Il tappeto di Pazyryk

MM - Partiamo dal deserto, quello che Deleuze e Guattari descrivono come uno spazio di correnti dissipative, di venti che lisciano le striature delle dune, di tensioni e di rumori. 
Si parla molto del deserto deleuziano ma lo si declina poco nella sua variante antropologica, quella dell’abitare. Deserto, steppa, banchisa hanno generato le tende, microcosmi domestici in cui la circolazione tra il dentro e il fuori era garantita da un dispositivo osmotico: pelle, stuoia, tappeto. Il tappeto è un pavimento fluido, è una parete epiteliale, la membrana contro il mattone, il filtraggio contro l’ermetico. Ora, il romanzo contemporaneo, come metonimia del narrare, è in prevalenza urbano, sedentario, litico. Venendo io, noi, da questo cuore di cultura striata, ho sempre cercato gli spazi letterari lisci, l’antica lirica irlandese, il Kalevala, i canti sciamanici, e credo che sia arrivato il momento di fare urtare il romanzo contemporaneo, la poesia contemporanea, il racconto contemporaneo, il saggio contemporaneo con le facce invisibili ma brucianti dei popoli cacciatori-raccoglitori, riportando la parola alla sua essenza nomade, cosmogonica, visionaria. La via è chiara e tracciata. L’ars poetica è già in Lascaux come in Werner Herzog che filma la grotta Chauvet. È in Tolkien più che in Dick, in Gilgamesh e non in Gadda.
Il mio desiderio è riuscire a dirlo in tempo, perché il collasso non è un orizzonte, è in atto, e la parola poetica, il raccontare sono strumenti di sopravvivenza ora proprio come lo sono stati 30.000 anni fa. Ma il tempo stringe. Gli hunger games urbani proiettati nel presenzialismo in rete stanno distraendo la scrittura e i portatori di parola dall’essenza nomade verso cui stiamo volenti o nolenti ritornando. Chi sarà pronto? Chi avrà arpioni d’osso di parole per i prossimi tempi. Kronos è finito, possiamo affidarci a Kairos, ma solo se ragioneremo su intensità e dissipazione come erano in grado di farlo i Paleoeschimesi a largo di Ellesmere o i primi Polinesiani che ascoltavano con le mani le correnti.

GC - Torno a ribadire quanto abbiamo già in parte discusso: dal momento che il racconto ci offre un orizzonte di sopravvivenza, è arrivata l'ora di riconsiderare la fiction, che nel tempo non ha avuto sempre lo stesso valore (come anche tu hai indicato). A tal proposito, vorrei fare un'ulteriore digressione, rivolgendomi ad uno degli artifici giuridici più largamente impiegati dal diritto romano: la cosiddetta fictio legis, ovvero quella finzione capace di «dominare il reale rompendo apertamente con esso», come spiega Yan Thomas in un suo saggio. Occorrerà fare un breve esempio di questa realtà operativa anche se opposta al "fatto": è noto che i cittadini romani fatti prigionieri dal nemico venivano privati della loro capacità testamentaria. La fictio legis Corneliae sulla convalida dei testamenti dei cittadini morti in prigionia (81 a.c.) permetteva di scavalcare questa privazione attraverso una finzione negativa: si procedeva «come se non fossero caduti nella mani dei nemici» e, in tal modo, il testamento era considerato valido. Conosciamo anche una variante positiva: il momento della cattura dei prigionieri veniva fatto coincidere con il momento del loro decesso, «come se fossero morti nella loro condizione di cittadini».
Ecco manifestato il potere del come se /come se non: una finzione snaturante che oltrepassa l'evidenza del fatto, producendo conseguenze concrete. C'è di più: la fictio legis è stata di frequente considerata un artificio tipico dei sistemi più conservatori, dal momento che permetterebbe di aggirare le norme vigenti senza dover produrre una vera riforma giuridica. Secondo Yan Thomas, questa riflessione ignora il carattere autenticamente radicale della finzione, ossia quello di porsi sempre al di là di ogni ordine fisso delle "cose", in quello scarto dove la realtà, affrancata da se stessa, si rifonda. Questo carattere verrà messo in crisi nel Basso Medioevo, durante quel processo di cristiana naturalizzazione del mondo che decreterà tanto il “miracoloso” quanto “l'impossibile secondo natura”. 
Mi sembra che questa digressione sulla fictio legis sia in qualche modo rivelatoria anche del modo in cui consideriamo attualmente la fiction, e che in essa si possa trovare una maniera per riscattarla: da mezzo per fuggire il fatto senza doverne modificare l'ordine, la finzione si scopre radicale potenza plasmatrice... Non si tratta dunque di ignorare la realtà, ma di riconoscerne l'artificio fondativo?

MM - Il progetto La Grande Estinzione. Per un romanzo diffuso dell’Antropocene che ho avviato poco più di un anno fa con Antonio Vena, si articola e declina in vari interventi un motto concinno a ciò che dici: Fiction is Action. L’idea è semplice: non solo il nuovo tempo del collasso ha bisogno di nuove narrazioni, ma queste narrazioni possono/devono avere il potere di cambiare la realtà. Se cioè esiste una qualche via d’uscita ai crolli dell’Antropocene, crolli cognitivi, crolli economici, crolli culturali, crolli sistemici, è solo diventando storyteller di un nuovo presente/futuro. Non possiamo credere di agire sul reale attraverso i soli strumenti del politico e dell’economico, occorre incistare il cambiamento in strati profondi della mente e ogni pratica-azione è limitata tranne una. Per raggiungere strati di coscienza profondi è necessario affidarsi al tool più evoluto mai elaborato dalla nostra specie, il linguaggio. Ma anche questo non basta. Occorre recuperare al linguaggio qualità primarie, maieutiche, demiurgiche, cosmogoniche, e insomma occorre riancorarlo alla sua essenza non denotativa, ma esplorativa, mantica, onirica. Linguaggio come i bisonti e i cervi di Lascaux, pensieri in forma animale che erano contemporaneamente selvaggina, principi totemici, mappe ecologiche, racconti mitici. Solo il linguaggio, a patto di risvegliarsi alle proprie origini sciamaniche, può garantire questa stratigrafia profonda che oggi ci manca e che ci serve per salvarci. Il “come se” ha origini antropologiche nelle grotte ornate dell’Era glaciale, e da subito l’uomo ha usato la fictio per sondare il reale e a volte per aggirarlo, per rovesciarlo. Le neuroscienze parlano di vicarianza, inventare mondi vicari in cui esercitare possitopie, in cui provare a vivere senza viverci davvero, per apprendere qualcosa di sé e degli altri, per immaginare scenari alternativi. Il romanzo dell'Antropocene non è un racconto distopico, non è climate fiction, non è una produzione Netflix. È un dispositivo cognitivo che lavorando sui generi come specola, sul worldbuilding come simulazione, sul fantastico come straniamento può farci vedere quello che normalmente non vediamo, può farci immaginare quello che normalmente non sappiamo. Non si tratta quindi di letteratura, di romanzo borghese, di editoria, ma di mitopiesi in atto. Né più né meno. E il nostro futuro sarà narrativo in questo senso oppure non sarà.

Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum

Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum

GC - Ecco l’urgenza: impiegare le nostre risorse al di là della miglioria ecologica - questione ancora profondamente antropocentrica -, verso una vera e propria ecosofia; nuove pratiche, che serviranno anche a rimodellare quella plasticità cerebrale di cui proprio le neuroscienze ci offrono oggi un ritratto inedito, fitto di anfratti speculativi nei quali calarci per riportare alla luce ipotesi da tempo scacciate come fantasticherie. L’idea che una partecipazione attiva ai moti delle immagini possa aiutarci a sospendere la falsa immediatezza della “realtà” e ad abbattere le transenne difensive con cui percepiamo ciò che ci sta intorno è una di queste ipotesi (Vittorio Gallese e Michele Guerra parlano di simulazione liberata).
Spingendoci un poco oltre, potremmo considerare gli scenari teorici suggeriti dalle neuroscienze come altri laboratori del favoloso; luoghi dell’eccedenza, dello spossessamento, dell’inappropriabile, che ci proiettano fuori dai nostri limiti… 

MM - le neuroscienze, la psicologia dello sviluppo, l’antropologia evoluzionistica. Oppure, rispettivamente, vicarianza, pensiero magico, animismo. Homo sapiens ha usato e costruito moduli e modelli cognitivi per capire il mondo, per orientare semanticamente i fenomeni, per leggere lo spazio nelle sue articolazioni concettuali ed emozionali. Il comune denominatore è il pensiero narrativo: meglio pensarsi in una storia che in un vuoto gassoso di fenomeni ed epifenomeni. In questo senso, in una sorta di ipernarratologia, la vicarianza è fare worldbuilding per simulare mondi alternativi allo status quo, il pensiero magico fa ponte tra scenari irrelati ordinandoli in azioni/trame sequenziali/nonsequenziali, l’animismo è un racconto complesso che attribuendo personalità ad animali e cose li trasforma in personaggi agenti, in moltiplicatori di prospettive. Non è semplice neuroestetica o darwinismo applicato alla letteratura, è attingere alle radici stesse del comportamento narrativo della nostra specie: the storytelling animal… Ora, nell’imbuto culturale e semantico generato dall’Antropocene, non possiamo più limitarci a ragionare un libro alla volta. Un libro non può più esistere lasciandolo galleggiare solo in una specie di bolla virtuale generata da webinar e uffici stampa da remoto. Un libro oggi può esistere solo se gli si crea un amnios concettuale ed emozionale in cui esistere. Bisogna lavorare moltissimo sul contesto, sulla nicchia di accoglienza, cioè fare pensiero, abbandonando la strategia obsoleta del singolo titolo e ragionando per reti di relazione, per progetti narrativi integrati. Per questo con Antonio Vena parliamo di “romanzo diffuso”. Non solo per erodere il personalismo/individualismo di troppi scrittori generati dalla filosofia neoliberista degli anni Ottanta, che fa ancora presa sulla generazione dei ventenni-quarantenni di oggi, ma anche per generare scritture che si facciano eco tra loro, in una strategia ad alveare, collettiva e monastica, plurale e prosociale. Prendere consapevolezza dell’antropologia profonda del narrare può dare agli scrittori di oggi un impulso per uscire dalla logica solitaria della premialità editoriale, può generare più scritture cosmogoniche che microegoiche, può predisporre la nostra mente a un salto cognitivo che è appunto l’unica cosa reale che potrà salvarci dal collasso.

 

______

Rimandiamo all'intervista a Matteo Meschiari, sempre apparsa su Singola, a questa pagina.

 

Hai letto:  Antropocene possibile
Globale - 2020
Pensiero
Giorgiomaria Cornelio

(1997) è poeta, regista, curatore del progetto ”edizioni volatili”, e redattore di “nazione indiana”. Ha co-diretto la “trilogia dei viandanti” (2016-2020). Suoi interventi sono apparsi su “Le parole e le cose”, “Doppiozero”, “Antinomie”, “Il tascabile” e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore) e La specie storta (Tlon edizioni).

Matteo Meschiari

(1968) è geografo, saggista e scrittore. È professore associato dell'Università di Palermo, dove insegna Geografia e Antropologia. Ha scritto diversi libri, tra cui Artico Nero (2016) e Neghentopia (2017), entrambi pubblicati per Exorma, La Grande Estinzione. Immaginare ai tempi del collasso (Armillaria 2019). Con Antonio Vena ha ideato il progetto TINA-LA GRANDE ESTINZIONE sull’immaginario collettivo nell’Antropocene.

Pubblicato:
11-07-2020
Ultima modifica:
04-06-2021
;