Podcast e audiolibri, oralità o trionfo della scrittura?
No, non viviamo nell’era delle immagini. Il fatto che siano dappertutto non è sufficiente a connotare per intero il nostro tempo. Per esempio, non abbiamo mai letto quanto leggiamo adesso, e questo dato da solo dovrebbe bastare a smentire la tesi del predominio assoluto dell’immagine. Nonostante ciò, non viviamo neanche nell’era delle parole scritte. Sarebbe assurdo pensarlo, anche a causa di quello stesso mare di immagini in cui siamo immersi. Viviamo nel tempo della transmedialità, nel nome della quale forme comunicative differenti si mischiano e si intrecciano. Più che un medium specifico, a bombardarci è un assemblaggio promiscuo di modalità espressive.
Fra i vari pezzi che compongono il mosaico mediatico ce n’è però uno che sembra farsi largo rapidamente. Si tratta della voce, della parola detta e ascoltata. È innegabile: l’espressione vocale vive un momento di salute, tanto da far parlare alcuni di un impratichirsi «nell’ormai dimenticata e bistrattata arte dell’ascolto». L’exploit di podcast e audiolibri è ovviamente l’esempio più eclatante di questo fenomeno.
Tuttavia, l’oralità che stiamo sperimentando, pur presentandosi dotata di un sapore così autentico e genuino, nasconde delle zone d’ombra che mi sembra utile indagare. È un’oralità fittizia, che dell’orale riprende soltanto il mezzo materiale, il suono. A reggere le sue manifestazioni c’è invece un’impalcatura cementificatasi in secoli di scritto, e anche sulla facciata esterna fanno spesso capolino gli spettri dell’inchiostro, del carattere tipografico e del testo.
È un’oralità che Walter Ong ebbe a definire «di ritorno» (Ong, 1986, p. 12). Per l’antropologo statunitense l’era in cui viviamo è sì caratterizzata da una moltitudine di espressioni orali, ma la cui esistenza dipende comunque dalla scrittura e dalla stampa (Cfr. ivi p. 29-30). Per Ong quest’epoca è quella «elettronica», connotata, nel 1982 (anno di pubblicazione di Oralità e scrittura) dal telefono, dalla radio e dalla televisione. (ibidem). Oggi, a quarant'anni di distanza, possiamo affermare che l’era elettronica ha moltiplicato gli elementi interni che la caratterizzano. Innanzitutto, grazie all’avvento di internet, ma poi anche per merito di tutte le innovazioni tecnologiche e comunicative che ne sono derivate. Adesso, per quanto riguarda l'oralità, il rischio è che si possano fraintendere la natura e la portata di queste innovazioni.
Il primo grande fraintendimento deriva dal criterio adoperato per categorizzare. Podcast e audiolibri sono spesso accomunati sulla base del mezzo materiale in comune. Entrambi veicolano un messaggio attraverso il parlato. Infatti, nello stesso gruppo viene spesso fatta rientrare anche la radio, con la quale il paragone manifesta già alcune fragilità. Tuttavia, queste fragilità potrebbero e dovrebbero estendersi anche al parallelo fra i podcast (categoria tra l’altro diversificata al suo interno) e gli audiolibri. Trattare tutto alla stessa maniera sarebbe come sviluppare un discorso sull’editoria mettendo nello stesso calderone i romanzi, le guide turistiche e i manuali universitari; o come disquisire dell’audiovisivo senza fare distinzione fra uno spot pubblicitario, un video su Tik Tok e un documentario.
Gli audiolibri, ad esempio, sono a tutti gli effetti dei testi scritti, nel senso che derivano la loro ragion d’essere direttamente dalla testualità. Un audiolibro è una trasposizione. Nonostante nelle trasposizioni ci sia sempre qualcosa che si aggiunge, e qualcosa che si perde, e queste addizioni e sottrazioni cambiano il tono e il significato dell’opera, resta comunque il fatto che la matrice dell’audiolibro è scritta. Lo stesso discorso si può e si deve fare per un certo tipo di podcast: quelli pensati per essere opere chiuse, che raccontano una storia. In questi casi la voce parlante si limita a leggere un testo già definito nei dettagli, tutt’al più accentuando la componente recitativa.
Anche il fatto che grandi aziende del settore come Audible comincino a concepire gli audiolibri direttamente per la fruizione orale non comporta di per sé la presenza di un’oralità più autentica, ma potrebbe più che altro significare un avvicinamento concettuale a questo genere di podcast. Sul piano esperenziale, il criterio di catalogazione non è infatti da ricercare soltanto nel medium comunicativo inteso dal punto di vista materiale, ma anche nel contesto culturale e nell'atto percettivo, che dal medium possono al massimo venire influenzati.
Per esempio, bisognerebbe fare un discorso a parte per un altro genere di trasmissione audio, che pur prendendo il nome di podcast, si differenzia dalla categoria appena descritta, quanto meno nell’uso dell’oralità. Mi riferisco ai programmi concepiti come un dialogo fluido fra i partecipanti, o al massimo come monologo con una certa dose di improvvisazione. Per questo genere di trasmissione, lo script è più un canovaccio che una sceneggiatura vera e propria. Presentatori e ospiti di questo genere di podcast si affidano a qualche generico punto in scaletta, ma poi si lasciano prendere dal fluido e vivo scambio dialogico.
È evidente la differenza che passa, sul piano esperienziale, fra l’ascoltare una puntata di Muschio Selvaggio e una di Demoni urbani, fra Joe Rogan che intervista un suo ospite e il racconto di una storia True crime. Nella prima delle due categorie riemergono delle sfumature di oralità più autentiche, che attingono alle componenti veramente fondamentali dell’oralità e della cultura orale, le quali non si limitano per nulla al semplice uso del sonoro. Questo genere di trasmissioni è l’erede diretto della radio, con l’aggiunta dell’ascolto online e in differita che ne amplifica esponenzialmente le potenzialità.
C'è oralità e oralità, dunque. Un discorso che scenda in profondità su questa tema non può fermarsi alle manifestazioni materiali di un fenomeno, ma deve coinvolgere i paradigmi culturali che sottostanno a queste manifestazioni. Stando sempre a quanto scrive Walter Ong, la cultura orale manifesta una maggiore operatività rispetto a quella scritta. Nello specifico «Le culture orali tendono ad usare i concetti in ambiti di riferimento situazionali e operativi […] molto vicini al mondo umano» (Ong, op. cit. p. 79-80). La parola scritta pone il concetto corrispondente in un mondo altro, sicuramente più comodo e maneggevole, ma senza dubbio privato della sua componente più autentica e viva. La parola scritta, insomma, è oggetto, mentre quella parlata non è neppure soggetto, ma verbo, nel senso più attivo possibile. Questo non vale soltanto per le operazioni linguistiche in sé, ma coinvolge e contribuisce a creare la mentalità che sorregge tutta una cultura.
Dagli studi dello storico e antropologo belga Jan Vansina emerge, per esempio, come nel contesto di una tradizione orale la componente creativa sia demandata almeno in parte all’atto performativo. Per quanto riguarda l’esposizione narrativa è vero che esiste sempre una storia in sé che precede la singola esposizione. Tuttavia, il fatto che tutta la tradizione si basi sull’oralità implica che ogni singola performance sia sempre nuova, e di fatto contribuisca alla creazione della storia stessa (Cfr. Vansina, 1985, p. 35). La parola parlata, insomma, a differenza di quella scritta, non è un concetto morto e a sé stante, ma un elemento organicamente inserito in un contesto di vita.
Tuttavia, con ciò non voglio suggerire una cesura netta fra la cultura orale e quella scritta. Entrambe si compenetrano e influenzano a vicenda, e possono coesistere all’interno di un’unica società. I fenomeni tipici dell’oralità di ritorno, pur manifestando un limite intrinseco, dimostrano comunque la presenza ancora forte della cultura orale nel nostro tempo, e quindi anche di residui importanti della mentalità a essa collegata. Come riporta Ong, anche nella nostra contemporaneità, infatti, la maggior parte delle lingue parlate non ha una letteratura, ma vive e prospera esclusivamente nello scambio orale (Cfr. Ong, op. cit. 25). Proprio lo studio di queste «oralità primarie» contemporanee ci consente di indagare indirettamente la svolta che ha rappresentato la scrittura nelle nostre società. Non è stato soltanto un cambio di materiale (dalla parola parlata alla parola scritta), ma anche un cambiamento sensoriale (dal predominio dell’udito al predominio della vista) e un cambiamento di mentalità.
Non sorprenderà, a questo punto, in che senso si possano intendere gli audiolibri come ultimo ritrovato della testualità. L’audiolibro recupera la parte esclusivamente strumentale dell’oralità ignorando la sua pragmaticità operativa. Questo impedimento è costitutivo, intrinseco alla natura stessa dell’audiolibro. Il telefono, la radio e la televisione, ma anche i podcast dialogati hanno quantomeno al proprio interno un nucleo di autentica oralità, sia pure di ritorno.
Certo, subiscono comunque il difetto di nascere nel contesto di una cultura scritta. Una volta che quest’ultima si è imposta è quasi impossibile un recupero completo della cultura orale. La scrittura, tra l’altro, è alla base del pensiero analitico, mentre le culture orali hanno una mentalità molto più sincretica, basata su schemi di pensiero narrativi, ripetitivi e molto più connessi all’organico che al logico. Tra l'altro, è curioso notare che proprio una mentalità logico-analitica sia stata alla base dei requisiti, tanto tecnologici quanto sociali, necessari al sorgere di tutte queste espressioni orali di ritorno. Senza la logica o la matematica sarebbe stato impossibile pensare le innovazioni che hanno reso possibile il telefono o il web.
Ma a fronte di questa ineliminabile limitazione, l’oralità di ritorno per come la intendeva Ong possiede quanto meno una flebile sfumatura dialogica, il fantasma di una partecipazione. L’audiolibro, invece, è testo che si fa voce. Mentre quei media prospettano un abbandono della parola scritta, per esercitarsi di nuovo all’attività del parlato e del parlante, l’audiolibro solidifica e condensa nel sonoro le pratiche dello scritto. Già nel nome stesso è sottointesa una radicale testualità: sono libri veri e propri che si servono del mezzo audio. Allo stato attuale delle cose non è un appropriarsi del testo da parte dell’orale, ma è un’incursione “predatoria” della scrittura nella viva voce. D’altra parte, lo stesso Ong scriveva chiaramente che «La scrittura […] è un’attività particolarmente appropriativa e imperialistica, che tende ad assimilare il resto a sé.» (Ong, op. cit. p. 31)
Non è un caso che le origini dell’audiolibro, tanto dal punto di vista tecnologico quanto nei termini di fenomeno sociale, siano da iscriversi completamente alla sfera d’influenza del testo scritto. L’audiolibro non è nato per introdurre l’oralità nel testo, ma per rendere accessibile il testo a coloro i quali la testualità era preclusa a causa di un limite fisico. Come riporta Yashvi Peeti, i primi audiolibri vennero creati dall’American Foundation For The Blind nel 1932, e vissero un primo boom nel secondo dopoguerra, quando molti soldati tornarono a casa con delle ferite agli occhi.
Ancora oggi, nonostante la grandissima diffusione anche fra i vedenti, l’esperienza di ascolto di un testo non riesce a slegarsi da temi come la disabilità, l’inclusività e l’accessibilità. Eppure, non è certo l’unico caso in cui uno strumento nato per colmare una lacuna nelle esperienze possibili di una certa pratica si riveli poi in grado di espandere tout court le potenzialità di quella pratica. Per esempio, il gioco Dungeons and Dragons è nato in ambito clinico e psicoterapeutico. Eppure ha appassionato diverse generazioni, e ha dimostrato di essere in grado di aumentare la creatività o di stimolare riflessioni in merito ai mondi narrativi possibili.
Non è una sorpresa che anche laddove il dibattito in merito agli audiolibri smette di vertere in maniera esclusiva sulla questione disabilità, finisce per interessare l’utilità dell’ascolto e i vantaggi che apporta in termini di produttività o time saving. Scrive Sheri-Marie Harrison: «What began as an accessibility tool now dissolves boundaries between private and professional time, between work and consumption». (Harrison, 2020). Sempre più spesso gli audiolibri, anche quelli di narrativa, vengono velocizzati dai lettori fino a 1.75x o 2x. Difficile non scorgere in ciò l’adeguarsi dello strumento a una logica secondo la quale anche il tempo dello svago va ottimizzato. Anche questo approccio è figlio della cultura scritta. L’ossessione per l’ottimizzazione può derivarsi soltanto da una concezione di opera come ente chiuso e interamente assimilabile; come somma di nozioni da apprendere più velocemente possibile e poi archiviare. Un’oralità autentica aderisce invece al motto della lentezza, in quanto consapevole dell’infinita e inesauribile fruizione dell’opera. Paradossalmente da questo punto di vista può essere molto più “orale” la lettura di un romanzo che l’ascolto velocizzato.
Sebbene sia un illustre esemplare di oralità di ritorno o oralità tout court, l’audiolibro tuttavia non sa di esserlo e si concede soltanto a un’interpretazione squisitamente testuale. Ancora una volta le componenti più autentiche dell’oralità (attività, partecipazione, sfumatura, organicità ecc.) vengono completamente ignorate, per preferire elementi figli di una cultura interamente scritta. Il nutrito dibattito internazionale sulla legittimità dell’audiolibro come lettura non fa che confermare l’assoluto predominio di un paradigma ancora del tutto dipendente dal testo scritto. Nonostante la diffusione dello strumento, quest’ultimo ha ancora bisogno di conquistarsi una dignità attraverso il confronto con il suo omologo di carta.
Tuttavia, il fatto che questo sia lo stato attuale dell’audizione non significa che sia destinata a rimanere tale anche in futuro. L’audiolibro può trasformarsi in qualcosa di diverso. Il primo passo è proprio l'affermarsi di creazioni concepite da principio per l’ascolto.
Ma non è assolutamente abbastanza. Un recupero, seppur parziale, di un’oralità autentica deve passare attraverso un cambio di paradigma radicale. A essere messa in discussione deve essere innanzitutto l’aura di sacralità che circonda la letteratura, soprattutto nelle sue due forme maggiormente codificate: il romanzo per la narrativa e il saggio per la non-fiction. Quest’ultime sono modalità espressive inevitabilmente testuali, e per quanto si possa tentare di tradurle a voce, porteranno sempre con sé le strutture, le dinamiche e le caratteristiche proprie del testo. Scriveva Walter Benjamin che «il romanzo si distingue da tutte le altre forme di letteratura in prosa – fiaba, leggenda, e anche dalla novella – per il fatto che non esce da una tradizione orale e non ritorna a confluire in essa. […] Il luogo di nascita del romanzo è l’individuo nel suo isolamento.» (Benjamin, 1995, p. 251). La tradizione orale, invece, è il contrario dell’isolamento. Ogni creazione avviene inevitabilmente in un contesto partecipativo. Proprio in riferimento al contesto narrativo, Vansina scriveva che nessuna storia, nelle tradizioni orali, è stata mai creata da un singolo individuo (Cfr. Vansina, op. cit. p 53). Omero stesso può essere considerato tutt’al più l’autore di due poemi scritti, ma senza dubbio non gli si può attribuire l’autorialità della tradizione orale che li sorregge. Che il romanzo venga tradotto in audio non cambia le cose. Tanto la creazione, quanto la fruizione rimangono avvinghiate alla logica dello scritto e dell’isolamento.
Il recupero di un’oralità più autentica potrebbe dunque conseguire a un recupero delle forme espressive più genuinamente orali, dall’epica al racconto ritmico e partecipato, passando per la retorica e il public speaking. Ciò non significherebbe il soppiantamento dello scritto, ma una sana e genuina convivenza, una restituzione di dignità a una pratica intrinsecamente umana com’è quella dell’oralità. Ancora una volta, saranno le innovazioni tecnologiche e le strutture sociali a creare le condizioni di un ritorno all’oralità. Certo è che l’exploit del mezzo podcast rappresenta una tendenza chiara: se non proprio il recupero di un’oralità ancora più autentica, quanto meno la volontà, inconscia e collettiva, di far sopravvivere e proliferare quelle forme di oralità secondaria che si sono sviluppate grazie all’era elettronica.
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Fonti
W. Benjamin, Der Erzähler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows, in “Orient und Occident. Staat-Gesellschaft-Kirche. Blätter für Theologie und Soziologie” (1936), trad. it. Di R. Solmi, Il narratore: considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995.
W. Ong, Orality and Literacy: The Technologizing of The World (1982), trad. it di A. Calanchi, Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna, 1986.
S. M. Harrison, I’ll Sleep When I am Dead: An Ode to the Audiobook, from The 7 Neoliberal Arts, Post45, 31 agosto 2020.
Y. Peety, What Was the First Audiobook, Bookriot, 6 novembre 2020.
F. Plesnizer, Gli audiolibri e la dimenticata arte dell’ascolto, Charta Sporca, 19 febbraio 2019.
J. Vansina, Oral Tradition as History, The University of Wisconsin Press, Madison, 1985