Traumatizzati - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Polizia in assetto antisommossa
Polizia in assetto antisommossa | Copyright: justabigadventure / Pixabay

Traumatizzati

Un'analisi multidisciplinare ci permette di capire come il trauma sia diventato una chiave di lettura del contemporaneo.

Polizia in assetto antisommossa | Copyright: justabigadventure / Pixabay
Matteo Moca

(1990) scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio e Il Riformista. Il suo ultimo libro è Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba).

«SSembra che gli avvenimenti siano più vasti del momento in cui accadono e non possono esservi contenuti interamente» ha scritto Proust in La prigioniera, quinta parte di Alla ricerca del tempo perduto, e questa citazione è stata apposta da Didier Fassin e Richard Rechtman in epigrafe al loro L'impero del trauma. Nascita della condizione di vittima, tradotto da Luigigiovanni Quarta per Meltemi e recentemente pubblicato. Il valore di questa citazione, oltre a essere icastica prova della capacità di Proust di tratteggiare i sentimenti umani, assume un valore importante se si considera che le poche parole dello scrittore francese aprono uno studio ampio, documentatissimo e destinato a rimanere come un punto di confronto imprescindibile per chiunque si interessi al concetto di trauma, un numero ipoteticamente alto di persone in quanto si tratta di un tema dal carattere multidisciplinare che coinvolge tanto le scienze umane, quanto la letteratura, la scienza e la medicina.

E infatti la formazione degli autori di questo libro ne è testimonianza: Didier Fassin è medico e antropologo, mentre Richard Rechtman è psichiatra e psicanalista, entrambi insegnanti all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, i cui campi di ricerca si incrociano e si incontrano nelle politiche della sofferenza e nelle categorie della psichiatria che trovano nel trauma l'origine e l'espressione di tale sofferenza oltre al trauma inteso come categoria della salute mentale spesso discussa e reinventata.

A maggior ragione oggi, quando un evento come la pandemia generata dal Covid 19 continua a gettare ombre inquietanti sulla vita della popolazione mondiale, la definizione di trauma risulta urgente, così come la comprensione di ciò che questo si porta dietro: pare quindi necessario comprendere la funzione pervasiva di questo particolare tipo di ferita, certo non visibile e che non lascia tracce evidenti sui corpi, ma su cui ci troviamo a ragionare regolarmente. Cosa genera però un trauma? Possono essere eventi individuali, ma anche avvenimenti collettivi come attentati o guerre, ciò che nel corso del tempo è però cambiato è la percezione dell'opinione pubblica del trauma: se infatti durante la prima guerra mondiale i soldati che a causa delle violenze che scorrevano davanti ai loro occhi decidevano di lasciare l'esercito erano trattati da codardi e i tanti reduci con sindrome da stress post-traumatico alla stregua di pazzi, oggi sembra scontato, e doveroso, che chi abbia incontrato un evento generante un trauma sia soccorso e aiutato da specialisti.

Fassin e Rechtman muovono dall'evento che ha assunto per una generazione lo stesso valore che aveva avuto per quella precedente la caduta del muro di Berlino, l'attacco alle torri gemelle dell'11 settembre 2001: nei giorni successivi all'attentato contro il World Trade Center si stima che siano intervenuti quasi diecimila specialisti per fornire sostegno psicologico non solo ai sopravvissuti, ma anche ai testimoni o ai semplici cittadini («di qualsivoglia conseguenza umana dell'attentato, la traccia psicologica appare essere oggi la più evidente, la più durevole e la più incontestabile: passato il lutto, resta il trauma»).


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L'impero del trauma
non ruota però solo attorno al concetto di trauma, ma si sofferma altresì sulla figura della vittima, vera e propria nuova categoria politica e filosofica, che nasce nel momento in cui il trauma esce fuori dalle ristrette mura della psichiatria, e scompare il sospetto di «illegittimità» rispetto a ciò questa ha vissuto, e il ruolo di vittima può essere riconosciuto anche attraverso la rivendicazione del trauma. Il libro analizza in maniera sistematica alcuni eventi traumatici mettendo in luce il lavoro degli specialisti e le conseguenze sulle vittime, ma anche la funzione sempre più importante rivestita dalle associazioni delle vittime.

Per esempio gli autori si soffermano sull'attentato del 23 dicembre 1983 presso il ristorante parigino Le Grand Véfour, quando una bomba esplosa davanti alla porta del locale causò numerosi feriti: tra le vittime di questo attentato c'era anche Françoise Rudetzki che per diverse settimane restò tra la vita e la morte e personificò, in un secondo momento, «la determinazione incrollabile di un nuovo militantismo delle vittime». Nel suo libro autobiografico Triple Peine Rudetzki ritorna sul calvario dei suoi lunghi mesi di degenza, ma anche sugli ostacoli sulla via del riconoscimento del suo ruolo di vittima, svelando anche le sofferenze psichiche: «il racconto minuzioso della sua esperienza è il pretesto per rendere conto, al di là di una storia individuale, una verità comune a ogni vittima».

Sempre a Parigi, il 7 gennaio del 2015, ci fu un altro attentato, che portò a dodici morti, quello contro la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo. Anche in questo caso uno dei sopravvissuti, il giornalista e critico letterario Philippe Lançon, ha scritto il racconto autobiografico della sua esperienza, ponendo particolare attenzione a ciò che è accaduto dopo, alle tracce traumatiche, visibili sul suo corpo (durante l'attacco Lançon è stato ferito a una mano, ha perso la parte destra della mandibola, una parte del labbro inferiore e i denti), ma anche a quelle indelebili nella sua mente. In La traversata, questo il titolo di un libro straordinario nel dare la misura di cosa significhi dover convivere con un evento traumatico di tale portata, Lançon ritorna con la mente al momento che ha segnato un cambiamento irreversibile nella sua vita: è una testimonianza interessante anche per il fatto che Lançon affida al mezzo letterario l'alta funzione di interrogarsi sul valore del trauma, su come questo modifichi la percezione di se stessi ma anche quella che hanno gli altri, delle domande destinate a rimanere senza risposta, ma che trovano probabilmente la loro cifra maggiore proprio in questa incertezza e in questa interrogazione radicale.

E sono infatti numerose le opere letterarie che muovono intorno al trauma e al ruolo della vittima, ognuna differente ovviamente per la situazione presentata e per l'elaborazione dell'evento traumatico. Ma oltre che vittime di attentati terroristici, si può anche essere portatori di una malattia che finisce per provocare un trauma non solo per i suoi effetti fisici sul corpo, ma anche per il modo in cui si è considerati nel discorso pubblico. Su questo particolare argomento esiste un libro, Malattia come metafora di Susan Sontag (colpevolmente assente per molto tempo in italiano e adesso disponibile in una nuova traduzione di Paolo Dilonardo insieme a L'Aids e le sue metafore edito da nottetempo), che costituisce un punto di vista imprescindibile per discutere del corpo malato e della condizione di vittima che questo porta con sé.

Negli anni Settanta la scrittrice e critica Susan Sontag si ammala di tumore e, sottoponendosi alle cure in Europa e negli Stati Uniti e incontrando altri malati come lei, inizia a pensare, vedendo lo scoramento e il sentimento quasi di vergogna che loro provano, a come questa malattia, in quanto vera e propria costruzione culturale dal forte valore metaforico, modifichi l'individuo. Sontag analizza infatti le «sinistre metafore architettate per descrivere il paesaggio» della malattia, come il campo semantico rimandi a una guerra e come si sia creata una differenza tra la malattia simbolo dell'Ottocento, la tubercolosi, che oltre a degradare il corpo rafforzava lo spirito dei malati, e il cancro, che invece ha nelle persone affette solo un effetto degradante, considerando che entrambe le malattie sono sovraccaricate «nello stesso modo eclatante, dalle bardature della metafora». Questo libro, che indaga il valore metaforico della malattia non solo attraverso l'esperienza personale, ma anche attraverso saggi, racconti, film e romanzi, è un'acuta indagine sul ruolo che rivestono la parola e i meccanismi del linguaggio nella percezione che si ha della malattia: il risultato è quello di mettere in luce come gli usi metaforici e il lessico guerresco della malattia rappresentino il mezzo attraverso il quale esprimere «le grandi insufficienze della nostra cultura» riguardo alla morte e alle ansie emotive che costellano l'esistenza.

Parigi 2015

Parigi 2015 | Mikael Colville-Andersen / Flickr


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Per tornare però a uno degli eventi trattati anche da Fassin e Rechtman, quello dell'attacco terroristico dell'11 settembre, si può fare riferimento per esempio all'opera L'Ombra delle Torri del fumettista statunitense Art Spiegelman che in quel momento tragico si trovava a passeggiare con la moglie non lontano dal World Trade Center (da quella esperienza nascerà una delle più iconiche illustrazioni di copertina del New Yorker, opera proprio di Art Spiegelman, la pagina completamente nera dove si intravedono le due torri). L'ombra delle torri, pubblicato in italiano da Einaudi, è testimonianza pura di un tentativo di rispondere allo shock attraverso l'arte, narrare la tragedia per mantenerne vivo il valore e, nello stesso tempo, tratteggiare un racconto che incroci l'esperienza individuale con il trauma collettivo, amplificato ovviamente anche dalla pervasività delle immagini sui media che hanno trasformato l'evento in una vera e propria “condizione” comune a chiunque avesse esperito quelle immagini anche a migliaia di chilometri di distanza, creando così un'opera che si presenta come eccezionale tentativo di auto-narrazione post-traumatica.

Ma Spiegelman è anche autore di Maus, un libro che mette in scena gli orrori della Shoah sempre attraverso un fumetto e utilizzando gli animali come protagonisti (nello specifico i nazisti e i tedeschi come gatti e gli ebrei come topi): in Maus Spiegelman racconta la storia del padre, sopravvissuto alla morte ad Auschwitz, provando così a elaborare il trauma delle generazioni successive a quelle di chi è stato direttamente coinvolto nella persecuzione nazista. E gli eventi della Seconda guerra mondiale, in particolare l'esperienza dei lager e dei campi di sterminio, rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per gli studi sul trauma, ma anche per la riflessione filosofica sul rapporto tra le vittime e i carnefici. Nel caso dello stato totalitario nazista, il paradigma biopolitico, ovvero il potere come dominazione sui corpi degli individui, coincide con una tanatopolitica, una politica che ha come base non la vita dell'individuo ma la sua morte, con la divisione del popolo in due parti, gli ariani e i non-ariani, che garantisce un duplice uso del potere che da una parte preserva il bìos della popolazione ariana e dall'altra abbatte il thanatos sulla popolazione non-ariana.

E il campo di concentramento diventa un paradigma dell'esercizio del potere sulla nuda vita nell'accezione di Giorgio Agamben: come nello stato di eccezione, c'è un vuoto di diritto che permette di agire sugli individui in assenza di qualsiasi giurisdizione, garantendo al carnefice l'impunità in quanto è sospesa l'applicazione della legge sull'omicidio. La memoria della Shoah, secondo Fassin e Rechtman costituisce «il punto di partenza dell'affiorare contemporaneo della dimensione collettiva del trauma» anche attraverso la creazione di una memoria collettiva con raccolta di testimonianze (per esempio nell'opera del regista Claude Lanzmann), film come Schindler's list o libri dei sopravvissuti come nel caso di Primo Levi. La Shoah si configura come punto più estremo della violenza e il fatto che la memoria storica emerga dopo un periodo silenzioso ne «attesta precisamente la natura traumatica», un processo che nasce dunque nel lasso di tempo che corre tra l'avvenimento e la sua attualizzazione dolorosa (come aveva già sottolineato Freud, punto di riferimento per gli autori, in L'uomo Mosé e la religione monoteistica dove il dramma fondatore che accade al popolo ebraico ha un lasso di tempo indispensabile per costituirsi come traccia memoriale individuale).

Levi in I sommersi e i salvati illustra come nella vita nei campi di sterminio la soglia che separava l'uomo dal non-uomo venga superata e, con essa, si arrivi anche alla perdita del senso della morte («mancava il tempo – scrive Levi in I sommersi e i salvati – per concentrarsi sull'idea della morte»). In pagine terribili Levi descrive l'impossibilità del suicidio nel campo, non come atto, ma anche come pensiero in potenza, e cerca una possibile spiegazione dei suicidi dopo la liberazione, confrontando lo stato degli uomini prigionieri del campo con quello di uomini liberi: «Il suicidio – scrive Levi – è dell'uomo e non dell'animale, è cioè un atto meditato, una scelta non istintiva, non naturale; ed in Lager c'erano poche occasioni di scegliere, si viveva appunto come animali asserviti, che a volte si lasciano morire, ma non si uccidono». Nella teoria della zona grigia che Levi espone ne I sommersi e i salvati, quella zona d'ombra in cui l'oppresso diventa oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima, assistiamo a una liquefazione dei confini delle cose, a un'impossibilità inarginabile di distinguere tra possibile e impossibile; anche l'uomo, nella sua essenza, viene rapito da questo vortice di ambiguità e trascinato in questo cono d'ombra dove la vita perde i suoi attributi essenziali e la morte smarrisce la sua tragica carica per farsi normalità.

Senza titolo

Senza titolo | Quinn Dombrowski / Flickr

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La vittima è oggi una vera e propria categoria politica e filosofica, ma questo apre anche a letture più complesse sulla sua natura: per esempio nel suo Critica della vittima, edito da nottetempo, il critico letterario Daniele Giglioli scrive in maniera provocatoria ma centrata che «la vittima è l'eroe del nostro tempo», in quanto «essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento». Secondo Giglioli infatti il paradigma vittimario odierno porta a un'estremizzazione di questo aspetto con la legittimizzazione di un discorso soprattutto se passa attraverso la posizione della vittima. Secondo questo schema però, certamente verificabile nel concreto per esempio nello scontro generalizzato tra «loro» e «noi», si vive il rischio concreto di un depotenziamento della vittima perché questa viene intesa come categoria confusa e informe, mentre le vittime, in carne e ossa, esistono nella loro singolarità e rischiano di essere sommerse da questa semplificazione tassonomica.

Alessandro Leogrande, nelle prime pagine del suo libro La frontiera (edito da Feltrinelli), ha descritto i barconi dei migranti: «Quelli che giacciono vicini, quasi abbracciati. Quelli che indossano ancora i giubbotti, i pantaloni, i maglioni. Quelli con le scarpe e quelli scalzi. Quelli impassibili e quelli stropicciati da uno strano sorriso. Sono tutti neri, tutti giovani». In questa descrizione è presente un discorso rivelatorio nonché il simbolo del rischio che si corre nell'appiattimento della categoria della vittima perché la massa indistinta di vittime è reale, è composta da singoli individui, ognuno detentore di precisi diritti.

Nell'ultimo capitolo del loro libro Fassin e Rechtman concentrano la loro attenzione sulla traumatologia dell'esilio e in queste pagine, che condensano parte della riflessione pluridisciplinare degli autori, emerge come uno degli aspetti più importanti di questo libro, oltre alla sensibilizzazione sul concetto di trauma troppo spesso semplificato o deriso, sia anche il valore militante del riconoscimento del trauma non solo a livello politico, ma anche sociale.

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Globale - 2020
Pensiero
Matteo Moca

(1990) scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio e Il Riformista. Il suo ultimo libro è Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba).

Pubblicato:
10-12-2020
Ultima modifica:
10-12-2020
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