Città di ordinaria globalizzazione - Singola | Storie di scenari e orizzonti
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Città di ordinaria globalizzazione

Ai tempi della globalizzazione una città, qualunque città, è destinata a diventare una "città integrale".

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Fabio Armao

è professore di Relazioni internazionali al Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio a Torino. È autore di Il sistema mafia (Bollati Boringhieri, 2000), Inside War (De Gruyter, 2015) e L’età dell’oikocrazia: Il nuovo totalitarismo globale dei clan (Meltemi, 2020).

Nel corso del Novecento, il ruolo storico di stimolo giocato dalle città ha subìto un crescente processo di “mummificazione” all’interno delle teorie politiche occidentali. Nelle scienze sociali, così come nel discorso comune e persino nell’immaginario collettivo, la Politica, quella con l’iniziale maiuscola, viene associata allo stato, alla nazione. Eppure il termine stesso “politica” deriva dal greco polis, la città-stato dell’età classica, e al di fuori del contesto urbano non sarebbe stato nemmeno concepibile il fondamento stesso della società civile, cioè quell’idea di cittadinanza che nasce come appartenenza alla civitas romana ben prima che allo stato, ancora di là da venire.

Storicamente, poi, la costruzione di aggregati urbani da parte delle società umane precede di gran lunga la formazione dello stato moderno, che del resto, in Europa, si innesta in una rete geografica già esistente di città a cui, certo, fornisce protezione e infrastrutture, favorendone l’ulteriore sviluppo, ma senza le quali il processo non potrebbe nemmeno avviarsi. Tuttavia, il “rapporto di forze” tra queste due entità si capovolge e si afferma una visione che ne descrive i rapporti nei termini della contrapposizione tra geografia del capitale e geografia della coercizione: alle città tocca il compito di forgiare i destini degli stati fungendo da contenitori e luoghi di distribuzione del capitale, mentre gli stati assumono il ruolo di centri e soggetti del potere coattivo, della forza armata.

Gated community, Israele.

Gated community, Israele.

Negli ultimi decenni, il dibattito sulla globalizzazione sembrava avesse infine contribuito a emancipare la città dallo stato, riportandola al centro della ribalta. Ma, a ben vedere, l’ormai consolidata letteratura sulle “citta globali” si accontenta di ribadirne il protagonismo nelle dinamiche del capitalismo, in quanto luogo privilegiato di inveramento del neoliberalismo, relegando ancora una volta sullo sfondo il problema di come esse operino in qualità di attori politici. Non a caso, la ricerca si concentra soprattutto sulle megalopoli del Nord e del Sud del mondo, magari andando alla vana ricerca di criteri utili a classificarle, a compilare graduatorie delle “top ten”.

In realtà non esiste un modo solo o prefissato di essere città globale. Ogni città ha un proprio modo di “essere-nel-mondo” e dà vita a una molteplicità di pratiche che mischiano e amalgamano in maniera originale elementi diversi, provenienti dall’esterno, per poi rilanciarli nel mondo. In altri termini, la città, come qualunque sistema vivente, riceve input dall’ambiente circostante, tanto locale quanto globale, li elabora al proprio interno e produce output che ritornano nell’ambiente, modificandolo. Quello con cui dobbiamo confrontarci oggi, allora, è sempre più un mondo di “città ordinarie”, tutte complesse e diverse tra di loro, che si trovano integrate in una rete di influenze reciproche e flussi di diversa ampiezza spaziale e che producono assemblaggi originali di processi sociali, economici e politici.

Parafrasando Gramsci, potremmo dire che ai tempi della globalizzazione una città, qualunque città, è destinata a diventare una “città integrale” (l’equazione di Gramsci è “stato = società politica + società civile” o, in altri termini, dittatura ed egemonia), il prodotto dell’interazione dialettica tra coercizione e consenso, fra attori del mondo politico, della sfera economica e della società civile. La città contemporanea vede la compresenza di spazi, tempi e reti di relazioni multipli, che connettono siti e soggetti locali per poi frammentarsi in network globali di varia natura. È sempre più centrale anche nelle dinamiche politiche perché è il luogo privilegiato dei legami faccia a faccia, generati dalla domanda incessante di competenze in settori diversi, ma correlati.

Gated community in Texas, USA.

Gated community in Texas, USA.

In questo contesto di una rete sempre più complessa di città che, ciascuna in maniera diversa e originale, rappresentano altrettanti snodi della globalizzazione, i clan si ritagliano un ruolo da protagonista. Il clan può essere definito come un gruppo di persone che rivendica con successo l’appartenenza a una stessa “famiglia immaginata”, che può basarsi su una presunta consanguineità oppure, più banalmente, sul fatto di risiedere nello stesso luogo, di condividere il lavoro o memorie comuni, amicizia e così via. Il clan, dunque, è un’organizzazione finalizzata a unire e tutelare gli interessi e la sicurezza dei propri membri, e si fonda sul senso soggettivo di appartenenza e identità, ben più che sulla realtà oggettiva di legami di sangue (del resto la possibilità stessa di tracciare il proprio lignaggio, spiegano gli antropologi, si perde già nelle società primitive nel momento in cui un gruppo parentale comincia a espandersi oltre il proprio territorio d’origine e a praticare il matrimonio esogamico – per esigenze di conquista o per mera sopravvivenza).

Oggi il ritorno sulla scena dei clan offre l’opportunità di estendere le pratiche dei contatti face-to-face a qualsiasi settore di qualunque contesto urbano, con un effetto dinamico e incrementale sui processi di comunicazione diretta. I clan rafforzano esponenzialmente le potenzialità delle reti esistenti e ne creano di nuove. Agiscono da moltiplicatori del capitale sociale, ma lo fanno in una forma che, anziché accrescere la coesione, alimenta quei processi di “privatizzazione della comunità” che sono destinati ad aumentare le diseguaglianze.

Tributo a Zafer Eren, boss della mafia turca di Tottenham, ucciso in una faida tra clan. Londra, UK, 2019.

Tributo a Zafer Eren, boss della mafia turca di Tottenham, ucciso in una faida tra clan. Londra, UK, 2019. | Ninachildish / Flickr

Invece di farsi interprete di un’idea sempre più inclusiva di cittadinanza, allora, la città integrale attua sempre più spesso politiche che in ultima analisi esasperano la ghettizzazione delle appartenenze e degli spazi territoriali, offrendo così nuovo alimento ai processi di clanizzazione. Da un lato, per esempio, reclama il diritto a confinare (recludere) i migranti nei centri di accoglienza, o a proporre modelli di sicurezza che si riducono a una militarizzazione crescente del territorio. Dall’altro, promuove una visione di “rigenerazione urbana” che, assecondando gli interessi speculativi dei grandi gruppi immobiliari, ruota attorno alla realizzazione di iconici grattacieli e di gated communities – entrambi modelli abitativi, per definizione, esclusivi. Ma non è tutto.

La città torna ad essere sempre più di frequente luogo effettivo di esercizio del potere coercitivo, ad opera di attori non statali in competizione tra di loro e con gli apparati dello stato – e non soltanto nel Sud del mondo. Così, per fare degli esempi, i clan mafiosi possono esercitare un controllo politico su interi quartieri, anche lontano dal Sud d’Italia (alterando, se necessario, persino le dinamiche elettorali); le gang possono insediarsi nelle periferie urbane, alimentando la conflittualità per il controllo del territorio (a Rio non meno che a Londra); e gruppi (definiti) terroristici possono trasformarsi in partito, garantendo l’amministrazione della giustizia e persino servizi di welfare alle proprie clientele nei campi profughi o nelle troppe città devastate del Medio oriente.

 

A fronte di una simile minaccia, il concetto di sicurezza deve lasciare spazio a quello, più ampio e proattivo, di resilienza. Com’è noto, il termine resilience rinvia alla lotta per l’adattamento all’interno di sistemi complessi, finalizzata alla sopravvivenza o al miglioramento della qualità della vita. Una resilient community è, per definizione, una comunità in grado di resistere, assorbire, adattarsi, risollevarsi rapidamente ed efficacemente dagli effetti di un disastro, naturale o provocato dall’uomo, senza mettere a repentaglio le proprie strutture e i propri servizi.

Finora tale concetto è stato applicato prevalentemente alla prevenzione dai disastri naturali o dal terrorismo. La sfida di gran lunga più urgente, tuttavia, consiste oggi nell’elaborare forme di resilience urbana alla violenza cronica generata proprio dalla presenza sul proprio territorio di gruppi di criminalità organizzata; o, meglio ancora, di strategie di resistenza che consentano alla comunità di riconquistare un controllo autonomo sugli spazi e sulle attività che fanno parte della loro vita quotidiana.

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Globale - 2020
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è professore di Relazioni internazionali al Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio a Torino. È autore di Il sistema mafia (Bollati Boringhieri, 2000), Inside War (De Gruyter, 2015) e L’età dell’oikocrazia: Il nuovo totalitarismo globale dei clan (Meltemi, 2020).

Pubblicato:
05-10-2020
Ultima modifica:
29-09-2020
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