Altro e tempo - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Gustav Klimt, Vita e morte (1910-1915), particolare.
Gustav Klimt, Vita e morte (1910-1915), particolare.

Altro e tempo

La postfazione di Francesca Nodari alla nuova edizione di "Il tempo e l'altro", quattro conferenze del filosofo Emmanuel Levinas.

Gustav Klimt, Vita e morte (1910-1915), particolare.
Emmanuel Levinas

è stato tra i massimi filosofi del Novecento, noto per il suo lavoro nell'ambito dell'esistenzialismo e della fenomenologia, e sul rapporto tra etica, metafisica e ontologia.

Prefazione [1]

Scrivere una prefazione per la riedizione di pagine che si erano date alle stampe trent’anni prima, significa quasi scrivere una prefazione per il libro di un altro. Con la differenza che se ne vedono prima e se ne avvertono più dolorosamente le insufficienze.

Il testo che viene qui presentato riproduce lo stenogramma di quattro conferenze che, sotto il titolo di Le Temps et l’Autre, furono tenute nel 1946-47, durante il primo anno della sua attività, al Collège Philosophique fondato da Jean Wahl in pieno Quartiere Latino. Esso apparve nel 1948 nel volume collettivo intitolato Le Choixle Mondel’Existence, primo dei “Cahiers du Collège Philosophique”, dove eravamo lieti di esser collocati al fianco di Jeanne Hersch, di Alphonse de Waelhens e dello stesso Jean Wahl. Lo stile (o il non stile) parlato di questo scritto è certamente in gran parte la causa di alcune espressioni troppo nette o maldestre. Ci sono inoltre in queste prime prove alcune tesi di cui non sono stati formulati i contesti, né esplorate fino in fondo le aperture, e di cui non è stata articolata sistematicamente la generalizzazione. Una nota preliminare segnalava, fin dal 1948, tutte queste manchevolezze che l’invecchiamento del testo ha probabilmente accentuato [2].

Se tuttavia abbiamo accettato l’idea della sua edizione in volume e abbiamo rinunciato a rinnovarlo, è perché ci sta ancora a cuore il progetto principale di cui esso costituisce – in mezzo a movimenti diversi del pensiero – la nascita e la prima formulazione, e perché la sua esposizione si fa sempre più sicura man mano che ci si addentra in queste pagine troppo frettolose. Il tempo è la limitazione stessa dell’essere finito o è la relazione dell’essere finito con Dio? Relazione che non assicurerebbe tuttavia all’essere un’infinità opposta alla finitezza, né una autosufficienza opposta al bisogno, ma che, al di là della soddisfazione e dell’insoddisfazione, significherebbe il sovrappiù della socialità. Questo modo d’interrogare il tempo ci sembra costituirne, ancora oggi, il problema vivente. Le Temps et l’Autre intravede il tempo non come l’orizzonte ontologico dell’essere dell’essente, ma come modo dell’al di là dell’essere, come relazione del “pensiero” con l’Altro e – attraverso diverse figure della socialità posta di fronte al volto dell’altro uomo: erotismo, paternità, responsabilità per il prossimo – come relazione con il Tutt’Altro, con il Trascendente, con l’Infinito. Relazione o religione che non è strutturata in termini di sapere, cioè di intenzionalità. Quest’ultima implica la rappresentazione e riconduce l’altro alla presenza e alla com-presenza. Il tempo, al contrario, significherebbe, nella sua dia-cronia, una relazione che non compromette l’alterità dell’altro, pur assicurando la sua non indifferenza al “pensiero”.

Come modalità dell’essere finito, il tempo dovrebbe significare, infatti, la dispersione dell’essere dell’essente in momenti che si escludono reciprocamente e che, anzi, quali istanti instabili o infedeli a se stessi, si espellono, ognuno, nel passato, fuori dalla propria presenza, fornendo tuttavia l’idea folgorante di questa presenza, di cui suggerirebbero così e il non senso e il senso, la morte e la vita. Ma, allora, l’eternità – di cui, senza mutuare nulla dalla durata vissuta, l’intelletto pretenderebbe di possedere l’idea a priori, l’idea di un modo di essere in cui il molteplice è uno e che conferirebbe al presente il suo senso pieno – non è forse sempre sospetta di non fare altro che dissimulare la folgorazione – la mezza verità – dell’istante, ritenzionata in un’immaginazione che vuol far credere di essere intemporale e che è capace di illudersi sulla possibilità di riunificare ciò che non è riunificabile? Questa eternità e questo Dio intellettuale non sarebbero forse, in fin dei conti, il risultato della composizione di questi mezzi istanti astratti e incostanti prodotti dalla dispersione temporale, cioè un’eternità astratta e un Dio morto?

La tesi principale intravista in Le Temps et l’Autre consiste, al contrario, nel pensare il tempo non come una degradazione dell’eternità, ma come relazione con ciò che, di per sé inassimilabile, assolutamente altro, non si lascerebbe assimilare dall’esperienza, o con ciò che, di per sé infinito, non si lascerebbe com-prendere; se tuttavia questo Infinito o questo Altro dovesse ancora tollerare che lo si indichi col dito nel dimostrativo ciò, come un semplice oggetto, o che lo si congiunga con un articolo determinativo o indeterminativo affinché prenda corpo. Relazione con l’In-visibile dove l’invisibilità risulta non dall’incapacità della conoscenza umana, ma dall’inettitudine della conoscenza in quanto tale – dalla sua in-adeguazione – all’Infinito dell’assolutamente altro, dal carattere assurdo che assumerebbe qui un evento come la coincidenza. Impossibilità di coincidere, in-adeguazione, che non sono nozioni semplicemente negative, ma che hanno un senso nel fenomeno della non coincidenza dato nella dia-cronia del tempo. Il tempo significa questo sempre della non coincidenza, ma anche questo sempredella relazione – dell’aspirazione e dell’attesa: filo più tenue di una linea ideale e che la diacronia non recide; essa lo preserva nel paradosso di una relazione, differente da tutte le altre relazioni della nostra logica e della nostra psicologia, le quali, a titolo di comunanza ultima, conferiscono, come minimo, la sincronia ai loro termini. Qui, relazione senza termini, attesa senza atteso, aspirazione insaziabile. Distanza che è anche prossimità – la quale non è una coincidenza o un’unione fallita, ma significa – l’abbiamo detto – tutto il sovrappiù o tutto il bene di una socialità originaria. Che la dia-cronia sia più di un sincronismo, che la prossimità sia più preziosa del fatto di essere dato, che la fedeltà all’ineguagliabile sia migliore di una coscienza di sé, non sta forse qui la difficoltà e la grandezza della religione? Tutte le descrizioni di questa “distanza-prossimità” possono essere d’altronde solo approssimative o metaforiche, poiché la dia-cronia del tempo ne è e il senso non figurato, il senso proprio, e il modello [3].

Il “movimento” del tempo inteso come trascendenza all’Infinito del “tutt’Altro”, non si temporalizza in maniera lineare, non ha il carattere rettilineo del raggio intenzionale. Il suo modo di significare, segnato dal mistero della morte, devia nel momento in cui entra nell’avventura etica della relazione con l’altro uomo [4].

La trascendenza temporale è stata descritta nel nostro saggio del 1948 soltanto per accenni che si mantengono, al più, su di un livello preparatorio. Essi sono guidati dall’analogia fra la trascendenza significata dalla dia-cronia e la distanza dell’alterità d’altri [autrui] [5], come anche dall’insistenza sul legame – non paragonabile a quello che collega i termini di qualsiasi relazione – che attraversa l’intervallo di questa trascendenza.

Non abbiamo voluto modificare l’itinerario che l’espressione di queste idee aveva seguito in questo libro. Ci è sembrato che desse una testimonianza di un certo clima di apertura offerto dalla Montagne Sainte-Geneviève all’indomani della Liberazione. Il Collège philosophique di Jean Wahl ne era il riflesso e uno dei centri d’irradiazione. Là echeggiava la sonorità inimitabile del dire sublime e ispirato di Vladimir Jankélévitch, che proferiva l’inaudito del messaggio bergsoniano, e formulava l’ineffabile, e riempiva fino all’inverosimile la sala del Collège Philosophique; era là che Jean Wahl rendeva omaggio alla molteplicità delle tendenze nell’ambito della “filosofia vivente” e sottolineava l’affinità privilegiata della filosofia e delle diverse forme dell’arte. Gli piaceva seguire il passaggio dall’una alle altre. Con tutto il suo modo di essere sembrava invitare alla “sperimentazione intellettuale” audace e a delle esplorazioni arrischiate. La fenomenologia husserliana e, grazie a Sartre e a Merleau-Ponty, la filosofia dell’esistenza e anche le prime formulazioni dell’ontologia fondamentale di Heidegger promettevano allora possibilità filosofiche inedite. Le parole che designavano ciò di cui gli uomini si erano sempre preoccupati, ma che non avevano mai osato immaginare all’interno di un discorso speculativo, assumevano la dignità di categorie. Era possibile senza mezzi termini – e spesso senza precauzioni – e prendendosi qualche licenza nei confronti delle regole accademiche, ma anche sottraendosi alla tirannia delle parole d’ordine correnti, darsi – e proporre ad altri – idee “da sviscerare”, “da approfondire” o “da esplorare”, come le chiama spesso Gabriel Marcel nel suo Journal Métaphysique.

È nello spirito di quegli anni d’apertura che conviene leggere in Le Temps et l’Autre i diversi temi attraverso i quali procede – con qualche deviazione – la nostra tesi principale; ciò che è detto della soggettività: sovranità dell’Io sull’il y a [6] anonimo dell’essere, rovesciamento immediato del Sé sull’Io, oppressione dell’Io a causa dell’ingombro del Sé e, così, materialità materialistica e solitudine dell’immanenza, irremissibile peso dell’essere nel lavoro, nella pena e nella sofferenza; ciò che è detto, poi, del mondo: trascendenza degli alimenti e delle conoscenze, esperienza in seno al godimento, sapere e ritorno a sé, solitudine nella luce del sapere che dissolve in sé tutto ciò che è altro, solitudine della ragione essenzialmente una; ciò che è detto, allora, della morte, che non è puro nulla, ma mistero che non può essere assunto e, in questo senso, eventualità dell’evento sul punto di fare irruzione nello Stesso dell’immanenza, di interrompere la monotonia e il tic-tac degli istanti isolati – eventualità del tutt’altro, dell’avvenire, temporalità del tempo, dove la dia-cronia descrive proprio la relazione con ciò che resta assolutamente al di fuori; ciò che è detto, infine, del rapporto con altri [autrui], con la femminilità, con il figlio, della fecondità dell’Io, modalità concreta della diacronia, articolazioni o digressioni inevitabili della trascendenza del tempo: né estasi, dove lo Stesso si dissolve nell’Altro, né sapere, dove l’Altro appartiene allo Stesso – relazione senza relazione, desiderio insaziabile o prossimità dell’Infinito. Tesi che non sono state riprese tutte più tardi nella loro forma primitiva, che hanno potuto rivelarsi da allora in poi inseparabili da problemi più complessi e più originari e bisognose di un’espressione meno improvvisata e soprattutto di un pensiero differente.

Vorremmo sottolineare due punti che ci sembrano importanti nelle ultime pagine di queste antiche conferenze. Essi riguardano il modo in cui vi è tentata la fenomenologia dell’alterità e della sua trascendenza.

L’alterità umana non è pensata a partire dall’alterità puramente formale e logica mediante la quale si distinguono gli uni dagli altri i termini di ogni sorta di molteplicità (dove ciascuno di essi è altro già in quanto portatore di attributi differenti o, in una molteplicità di termini uguali, ciascuno di essi è l’altro dell’altro a causa della sua individuazione). La nozione di alterità trascendente – quella che dischiude il tempo – è ricercata innanzitutto a partire da una alterità-contenuto, a partire dalla femminilità. La femminilità – e bisognerebbe vedere in che senso questa stessa cosa può dirsi della mascolinità o della virilità, cioè della differenza dei sessi in generale – ci è apparsa come una differenza che va al di là delle differenze, non soltanto come una qualità differente da tutte le altre, ma come la qualità, appunto, della differenza. Idea che dovrebbe render possibile la nozione della coppia nella sua distinzione rispetto a ogni sorta di dualità puramente numerica, la nozione di socialità a due, che è probabilmente necessaria all’eccezionale epifania del volto – nudità astratta e casta – che si distacca dalle differenze sessuali, ma che è essenziale all’erotismo, e in cui l’alterità – intesa ancora una volta come qualità, e non come distinzione semplicemente logica – è sostenuta dal “non uccidere” che il silenzio stesso del volto dice. Significativa irradiazione etica all’interno dell’erotismo e della libido, mediante i quali l’umanità entra nella società a due e la sostiene, autorizzando, forse, a mettere per lo meno in discussione il semplicismo del panerotismo contemporaneo.

Vorremmo sottolineare infine una struttura della trascendenza che in Le Temps et l’Autre è stata colta a partire dalla paternità: la possibilità offerta al figlio, posta al di là di ciò che può essere assunto dal padre, resta ancora sua in un certo senso. Proprio nel senso del legame di filiazione. Sua – o non indifferente – una possibilità che un altro assume: mediante il figlio una possibilità al di là del possibile! Non indifferenza che non scaturisce dalle regole sociali che reggono i legami di parentela, ma che fonda probabilmente queste stesse regole. Non indifferenza grazie alla quale è possibile all’Io l’al di là del possibile. Ciò che, a partire dalla nozione – non biologica – della fecondità dell’Io, mette in discussione l’idea stessa del potere, com’è incarnata nella soggettività trascendentale, centro e sorgente di atti intenzionali.

Emmanuel Levinas

Emmanuel Levinas

I

L’oggetto e il piano

Lo scopo di queste conferenze consiste nel mostrare che il tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri [autrui].

Questa tesi non ha nulla di sociologico. Non si tratta di dire in che modo il tempo è suddiviso e organizzato grazie alle nozioni che ci derivano dalla società, in che modo la società ci permette di farci una rappresentazione del tempo. Non si tratta della nostra idea del tempo, ma del tempo in se stesso.

Per sostenere questa tesi sarà necessario, da un lato, approfondire la nozione di solitudine ed esaminare, dall’altro, le possibilità che il tempo offre alla solitudine.

Le analisi che stiamo per intraprendere non saranno antropologiche, ma ontologiche. Siamo convinti, infatti, che esistono problemi ontologici e strutture ontologiche. Non nel senso che i realisti attribuiscono all’ontologia, nel loro limitarsi alla pura e semplice descrizione dell’essere dato. Si tratta di affermare che la nozione dell’essere non è affatto vuota, che ha la sua peculiare dialettica e che nozioni come quella della solitudine o della società appaiono a un certo momento di questa dialettica, che la solitudine e la società non sono nozioni soltanto psicologiche, come il bisogno che si può avere di altri [autrui] o come la prescienza o il presentimento o l’anticipazione dell’altro, che sono impliciti in questo bisogno. Vogliamo presentare la solitudine come una categoria dell’essere, mostrare il suo posto in una dialettica dell’essere o, piuttosto – poiché il termine di dialettica ha un senso più determinato – il posto della solitudine nell’economia generale dell’essere.

Rifiutiamo perciò, in partenza, la concezione heideggeriana che esamina la solitudine nel contesto di una relazione preliminare con l’altro. Incontestabile in una prospettiva antropologica, la concezione ci sembra ontologicamente oscura. La relazione con altri [autrui] è certamente posta da Heidegger come struttura ontologica del Dasein: in pratica, essa non gioca alcun ruolo né all’interno del dramma dell’essere, né nell’ambito dell’analitica esistenziale. Tutte le analisi di Sein und Zeit hanno per oggetto o l’impersonalità della vita quotidiana o il Dasein solitario. D’altra parte, il carattere tragico della solitudine deriva forse dal nulla, o dalla privazione di altri [autrui] che la morte sottolinea? Qui c’è per lo meno un’ambiguità. Noi vi cogliamo un invito a superare la definizione della solitudine per mezzo della socialità e la definizione della socialità per mezzo della solitudine. Infine l’altro, in Heidegger, appare nella situazione essenziale del Miteinandersein – essere reciprocamente l’uno con l’altro... La preposizione mit (con) descrive qui la relazione. Si tratta, perciò, di un’associazione basata sul fianco a fianco, intorno a qualcosa, intorno a un termine comune e, più esattamente, per Heidegger, intorno alla verità. Non è la relazione del faccia a faccia. Ognuno si porta dietro tutto in questa relazione, fuorché il fatto privato della propria esistenza. Noi speriamo di mostrare, da parte nostra, che non tocca alla preposizione mit il compito di descrivere la relazione originaria con l’altro.

Il nostro modo di procedere ci condurrà a delle analisi che saranno forse abbastanza ardue. Esse non avranno il pathosbrillante delle analisi antropologiche. Ma, in compenso, potremo dire della solitudine qualcosa di diverso dalla sua infelicità e dalla sua opposizione alla società, a quella società di cui si dice abitualmente la felicità nella sua opposizione alla solitudine.

Risalendo così alla radice ontologica della solitudine, speriamo di intravedere in che cosa questa solitudine può essere superata. Diciamo subito ciò che questo superamento non sarà. Non sarà una conoscenza, perché nella conoscenza l’oggetto, che lo si voglia o no, si dissolve nel soggetto e la dualità sparisce. Non sarà un’estasi, perché, nell’estasi, il soggetto si dissolve nell’oggetto e si ritrova nella sua unità. Questi rapporti approdano tutti alla sparizione dell’altro.

È a questo punto che ci imbatteremo nel problema della sofferenza e della morte. Non perché si tratta di tematiche molto belle e suscettibili di analisi brillanti e alla moda; ma perché nel fenomeno della morte la solitudine si trova sul limitare di un mistero. Mistero che non conviene intendere negativamente come ciò che è sconosciuto, e di cui dovremo stabilire il significato positivo. Questa nozione ci permetterà di cogliere nel soggetto un rapporto che non si ridurrà al ritorno puro e semplice della sua solitudine. Di fronte alla morte, che sarà mistero e non necessariamente nulla, non si produce la dissoluzione di un termine nell’altro. Mostreremo infine in che modo la dualità che s’annuncia nella morte diviene relazione con l’altro e tempo.

Ciò che queste analisi possono contenere di dialettico non è, in ogni caso, hegeliano. Non si tratta di passare per una serie di contraddizioni, né di conciliarle fermando la Storia. È, al contrario, in direzione di un pluralismo che non si risolve in unità che vorremmo incamminarci; e, se questo si può osare, vorremmo rompere con Parmenide.


La solitudine dell’esistere

In che cosa consiste il carattere lacerante della solitudine? È banale dire che non esistiamo mai al singolare. Siamo circondati da esseri e da cose con cui ci teniamo costantemente in relazione. Per mezzo della vista, del tatto, della simpatia, del lavoro in comune, noi siamo insieme con gli altri. Tutte queste relazioni sono transitive: io tocco un oggetto, io vedo l’Altro. Ma io non sono l’Altro. Sono da solo. È dunque l’essere in me, il fatto che esisto, il mio esistere che costituisce l’elemento assolutamente intransitivo, qualcosa ch’è senza intenzionalità, senza rapporto. Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. In questo senso, essere significa isolarsi per il fatto di esistere. Io sono monade in quanto sono. È a causa del mio esistere che io sono senza porte né finestre, e non per un contenuto qualsiasi che in me sarebbe incomunicabile. Se è incomunicabile, lo è perché è radicato nel mio essere, che è quanto di più privato c’è in me. In modo che ogni ampliamento della mia conoscenza, dei miei mezzi d’espressione non incide sulla mia relazione col mio esistere, relazione interiore per eccellenza.

È parso che la mentalità primitiva – o per lo meno l’interpretazione che ne ha data Lévy-Bruhl – scuotesse le fondamenta dei nostri concetti perché sembrava introdurre l’idea di un’esistenza transitiva. Si aveva l’impressione che il soggetto, per mezzo della partecipazione, non si limitasse a vedere l’altro, ma fosse l’altro. Nozione, questa, più importante, per la mentalità primitiva, di quella del prelogico o del mistico. Tuttavia essa non ci libera dalla solitudine. Una coscienza moderna, comunque, non rinuncerebbe così a buon mercato al suo segreto e alla sua solitudine. E nella misura in cui l’esperienza della partecipazione può essere attuale, coincide con la fusione estatica. Essa non mantiene a sufficienza la dualità dei termini. Arriviamo al monismo se abbandoniamo la monadologia.

L’esistere rifiuta ogni sorta di rapporto, ogni sorta di molteplicità. Non riguarda nessun altro all’infuori dell’esistente. La solitudine non appare dunque come l’isolamento di fatto di un Robinson, né come l’incomunicabilità di un contenuto di coscienza, ma come l’unità indissolubile fra l’esistente e l’atto del suo esistere. Cogliere l’esistere all’interno dell’esistente significa rinchiuderlo nell’unità e lasciar sfuggire Parmenide a ogni sorta di parricidio che i suoi discendenti sarebbero tentati di commettere contro di lui. La solitudine sta proprio nel fatto che ci sono esistenti. Concepire una situazione in cui la solitudine è superata significa sondare il principio del legame che unisce l’esistente al suo esistere. Significa andare verso l’evento ontologico nel cui contesto l’esistente acquisisce l’esistenza. Chiamo ipostasi l’evento mediante il quale l’esistente acquisisce il suo esistere. La percezione e la scienza partono sempre dagli esistenti già dotati della loro esistenza privata. Questo legame fra ciò che esiste e il suo esistere è indissolubile? È possibile risalire all’ipostasi?


L’esistere senza esistente

Torniamo ancora a Heidegger. Vi è ben nota la sua distinzione – di cui ho già fatto uso – fra Sein e Seiendes, essere ed essente, ma che per ragioni di eufonia preferisco tradurre con esistere ed esistente, senza attribuire a questi termini un significato specificamente esistenzialistico. Heidegger distingue i soggetti e gli oggetti – gli esseri che sono, gli esistenti – dal loro stesso atto di essere. Gli uni si esprimono per mezzo di sostantivi o di participi sostantivati, l’altro per mezzo di un verbo. Questa distinzione, posta fin dall’inizio di Sein und Zeit, permette di eliminare certi equivoci sorti nel corso della storia della filosofia, allorché si partiva dall’esistenza per arrivare all’esistente che possiede l’esistenza nella sua pienezza, cioè Dio.

Questa distinzione heideggeriana è per me la cosa più profonda di Sein und Zeit. Ma in Heidegger, c’è distinzione, non c’è separazione. L’esistere è sempre colto all’interno dell’esistente e, per l’esistente che è l’uomo, il termine heideggeriano di Jemeinigkeit esprime proprio il fatto che l’esistere è sempre posseduto da qualcuno. Non credo che Heidegger possa ammettere un esistere senza esistente, che gli sembrerebbe assurdo. Tuttavia c’è una nozione – quella di Geworfenheit – “espressione di un certo Heidegger”, secondo Jankélévitch – che viene tradotta abitualmente con derelizione o con abbandono. Si insiste così su una conseguenza della Geworfenheit. Bisogna tradurre Geworfenheit con il “fatto-d’esser-gettato-dentro”... l’esistenza. Come se l’esistente non potesse apparire se non entro un’esistenza che lo precede, come se l’esistenza fosse indipendente dall’esistente e l’esistente che vi si trova gettato non potesse mai divenire padrone dell’esistenza. È proprio per questo che c’è derelizione e abbandono. Così si fa strada l’idea di un esistere che si fa senza di noi, senza soggetto, di un esistere senza esistente. Jean Wahl direbbe certamente che l’esistere senza esistente è solo una parola. Il termine “parola” è certo fastidioso perché è peggiorativo. Ma sono in definitiva d’accordo con Jean Wahl. Solo che bisognerebbe prima determinare il posto della parola nell’economia generale dell’essere. Direi anche volentieri che l’esistere non esiste. È l’esistente ciò che esiste. E il fatto di ricorrere, per comprendere ciò che esiste, a ciò che non esiste, non costituisce affatto una rivoluzione in filosofia. La filosofia idealistica è stata in definitiva una maniera di fondare l’essere su qualcosa che non è essere.

In che modo potremo accostarci a questo esistere senza esistente? Immaginiamo il ritorno al nulla di tutte le cose, esseri e persone. Incontreremo forse il puro nulla? Dopo questa distruzione immaginaria di tutte le cose, rimane non qualche cosa, ma il fatto che c’è [il y a]. L’assenza di tutte le cose ritorna come una presenza: come il luogo in cui tutto è sprofondato, come una densità d’atmosfera, come una pienezza del vuoto o come il mormorio del silenzio. Dopo questa distruzione delle cose e degli esseri, c’è, impersonale, il “campo di forze” dell’esistere. Qualcosa che non è né soggetto, né sostantivo. Il fatto dell’esistere che s’impone, quando non c’è più nulla. Ed è anonimo: non c’è nulla e nessuno che prenda quest’esistenza su di sé. È impersonale come “piove”, o “fa caldo”. Esistere che ritorna qualunque sia la negazione con la quale lo si neghi. C’è come l’irremissibilità dell’esistere puro.

Nell’evocare l’anonimato di questo esistere, non penso affatto a quel fondo indeterminato di cui si parla nei manuali di filosofia e dal quale la percezione ritaglia le cose. Quel fondo indeterminato è già un essere – un essente – un qualche cosa. Rientra già nella categoria del sostantivo. Ha già quella personalità elementare che caratterizza ogni esistente. L’esistere a cui stiamo tentando di accostarci è l’atto stesso di essere, che non può essere espresso con un sostantivo, che è verbo. Questo esistere non può semplicemente essere affermato, perché ciò che si afferma è sempre un essente. Ma s’impone perché non lo si può negare. Al di là di ogni negazione, questa atmosfera d’essere, quest’essere come “campo di forze” riappare, come il contesto di ogni affermazione e di ogni negazione. Esso non è mai legato a un oggetto che è, ed è per questo che lo chiamiamo anonimo.

Accostiamoci a questa situazione da un altro punto di vista. Consideriamo l’insonnia. In questo caso, non si tratta di un’esperienza immaginaria. L’insonnia è caratterizzata dalla coscienza che questa situazione non finirà mai, cioè che non c’è più alcun mezzo per ritrarsi dalla vigilanza alla quale si è costretti. Vigilanza senz’alcuno scopo. Nel momento in cui vi si è inchiodati, è già perduta ogni consapevolezza del suo punto di partenza o del suo punto d’arrivo. Il presente saldato al passato è puro e semplice retaggio di questo passato; non rinnova nulla. È sempre lo stesso presente o lo stesso passato che dura. Un ricordo! E sarebbe già una liberazione nei confronti di questo passato. Qui, il tempo non ha un punto di partenza, nulla si allontana o si attenua. Soltanto i rumori esterni che possono scandire l’insonnia introducono qualche punto di partenza in questa situazione senza inizio né fine, in questa immortalità a cui non si può sfuggire, del tutto simile all’il y a, all’esistenza impersonale di cui abbiamo appena parlato.

Con una vigilanza che esclude ogni possibilità di ricorrere al sonno caratterizzeremo appunto l’il y a e il modo in cui l’esistere si afferma nel suo stesso annientamento. Vigilanza, senza scampo nell’inconscio, senza possibilità di ritrarsi nel sonno come in un dominio privato. Questo esistere non è un in sé, che è già la pace; è esattamente assenza di qualunque sé, un senza sé. Si può anche caratterizzare l’esistere con la nozione di eternità, poiché l’esistere senza esistente non ha nessun punto di partenza. Un soggetto eterno è una contradictio in adiecto, poiché soggetto è già un cominciamento. Il soggetto eterno non solo non può cominciare nulla fuori di sé, ma è in sé impossibile, poiché come soggetto dovrebbe essere cominciamento ed escludere l’eternità. L’eternità non è in quiete, perché non ha soggetto che l’assuma su di sé.

Questo rovesciamento del nulla in esistere si può ancora trovarlo in Heidegger. Il nulla heideggeriano è caratterizzato da una sorta di attività e di essere: il nulla nullifica. Non sta fermo. In questa produzione del nulla, esso si afferma.

Ma se si dovesse cercare una somiglianza fra la nozione dell’il y a e un grande tema della filosofia classica, penserei a Eraclito. Non al mito del fiume in cui non è possibile bagnarsi due volte, ma alla sua versione del Cratilo, di un fiume in cui non ci si bagna neppure una volta sola; in cui non può costituirsi la stabilità stessa dell’unità, forma di ogni esistente; fiume in cui scompare l’ultimo elemento di stabilità in rapporto al quale il divenire può essere compreso.

L’esistere senza esistente, che io chiamo il y a, è il contesto all’interno del quale si produrrà l’ipostasi.

Ma prima di parlarne, vorrei insistere ancora sulle implicazioni di questa concezione. Essa consiste nello sviluppare una nozione di essere senza nulla, che non lascia aperture, che non permette di sfuggire. E questa impossibilità del nulla toglie al suicidio, che è l’ultima forma di dominio che si possa esercitare sull’essere, la sua funzione di dominio. Non si è più padroni di nulla, perciò si è nell’assurdo. Il suicidio appariva come l’ultima difesa contro l’assurdo. Suicidio nel senso lato del termine, che comprende anche la lotta disperata ma lucida di un Macbeth che combatte anche quando ha riconosciuto l’inutilità del combattimento. Questo potere, questa possibilità di trovare un senso all’esistenza grazie alla possibilità del suicidio, è un fatto costante della tragedia; il grido di Giulietta nel terzo atto di Romeo e Giulietta: “Mi rimane il potere di morire”[7], è ancora un trionfo sulla fatalità. Si può dire che la tragedia, in generale, non è soltanto la vittoria del destino sulla libertà, perché con la morte assunta nel momento della pretesa vittoria del destino, l’individuo si sottrae al destino. Ma proprio per questo Amleto è al di là della tragedia o è la tragedia della tragedia. Egli sa che il “non essere” è probabilmente impossibile, e non è più in grado di dominare l’assurdo, neppure col suicidio. La nozione dell’essere irremissibile e senza uscita costituisce l’assurdità intrinseca dell’essere. L’essere è il male, non perché finito, ma perché senza limiti. L’angoscia, secondo Heidegger, è l’esperienza del nulla. Non è forse, al contrario – se con la morte si intende il nulla –, il fatto che è impossibile morire?

Può ancora sembrare paradossale il fatto di caratterizzare l’il y a con la vigilanza, come se si attribuisse una coscienza al puro evento dell’esistere. Ma bisogna chiedersi se la coscienza si lascia definire dalla vigilanza, se la coscienza non è, piuttosto, la possibilità di sottrarsi alla vigilanza; se il senso proprio della coscienza non consiste per caso nell’essere una vigilanza posta a ridosso di una possibilità di dormire; se il particolare modo d’essere dell’io non consiste nel potere di uscire dalla situazione della vigilanza impersonale. Effettivamente, la coscienza partecipa già alla vigilanza. Ma ciò che la caratterizza in modo particolare è il fatto di riservarsi sempre la possibilità di ritrarsi “dietro”, per dormire. La coscienza è il potere di dormire. Questa fuga nel pieno è in un certo senso il paradosso stesso della coscienza.


L’ipostasi

Questo significa che la coscienza è una rottura della vigilanza anonima dell’il y a, ch’essa è già ipostasi, ch’essa si riferisce a una situazione in cui un esistente si mette in rapporto con il suo esistere. Non potremo evidentemente spiegare perché questo fatto si produce: non esiste fisica in metafisica. Possiamo soltanto mostrare qual è il significato dell’ipostasi.

L’apparizione d’un “qualche cosa che è” costituisce una vera e propria inversione all’interno dell’essere anonimo. Esso porta l’esistere in sé come attributo, è padrone di questo esistere come il soggetto è padrone dell’attributo. L’esistere è suo ed è proprio a causa di questo dominio sull’esistere, dominio di cui vedremo subito i limiti, è proprio a causa di questo dominio geloso e indivisibile sull’esistere, che l’esistente è solo. Più esattamente, l’apparizione di un esistente è la costituzione stessa di un dominio, di una libertà all’interno di un esistere che, di per se stesso, resterebbe per sua natura anonimo. Perché possa esserci un esistente all’interno di questo esistere anonimo, è necessario che in esso divenga possibile l’atto di partire da sé e di ritornare a sé, cioè l’opera stessa dell’identità. Per l’effetto della sua identificazione, l’esistente si è già richiuso in se stesso; è monade e solitudine.

L’evento dell’ipostasi è il presente. Il presente parte da sé, meglio ancora, è l’atto di partire da sé. Nella trama infinita, senza inizio né fine, dell’esistere, esso è lacerazione. Il presente lacera e riannoda; comincia; è il cominciamento per eccellenza. Ha un passato, ma sotto forma di ricordo. Ha una storia, ma non è la storia.

Porre l’ipostasi in termini di presente non significa ancora introdurre il tempo nell’essere. Dandoci il presente, non ci diamo un’estensione di tempo ricavata dal contesto della serie lineare di una durata, e neppure un punto di questa serie. Non si tratta di un presente ritagliato in un tempo già costituito precedentemente, di un elemento del tempo, ma della funzione del presente, della lacerazione ch’esso opera all’interno dell’infinito impersonale dell’esistere. È come uno schema ontologico. Da un lato è un evento, non ancora qualcosa: esso non esiste; ma è un evento dell’esistere grazie al quale qualcosa nasce a partire da sé. Da un lato, è ancora un puro evento che deve essere espresso con un verbo; e tuttavia c’è come una trasformazione in questo esistere, già qualche cosa, già un esistente. È essenziale cogliere il presente al limite dell’esistere e dell’esistente dove, funzione dell’esistere, esso si trasforma già in esistente.

Proprio perché il presente è un modo di realizzare l’“a partire da sé”, esso è sempre evanescenza. Se il presente durasse, avrebbe ricevuto la sua esistenza da qualche cosa che precede. Avrebbe beneficiato di un’eredità. Ma esso è qualcosa che proviene da sé. È possibile provenire da sé soltanto se non si riceve nulla dal passato. L’evanescenza sarebbe dunque la forma essenziale del cominciamento.

Ma in che modo questa evanescenza può approdare a qualcosa? Situazione dialettica che descrive, invece di escluderlo, un fenomeno che s’impone ora: l’“io”.

I filosofi hanno sempre riconosciuto all’“io” un carattere anfibico: esso non è una sostanza, è tuttavia un esistente per eccellenza. Definirlo con la spiritualità significa non dire nulla, se spiritualità equivale a un insieme di proprietà. Significa non dire nulla sul suo modo d’esistenza, sull’assolutezza che nell’io non esclude un potere di rinnovamento totale. Dire che questo potere ha un’esistenza assoluta significa perlomeno trasformare in sostanza questo potere. Al contrario, colto al limite dell’esistere e dell’esistente, nella sua funzione d’ipostasi, l’io si colloca immediatamente al di fuori dell’opposizione del variabile e del permanente, come al di fuori delle categorie dell’essere e del nulla. Il paradosso non è più tale se si capisce che l’“io” non è all’origine un esistente, ma il modo d’esistere per eccellenza, ch’esso, a rigor di termini, non esiste. Certo il presente e l’“io” si trasformano in esistenti e con essi si può comporre un tempo, si può avere il tempo come un esistente. E si può avere, di questo tempo ipostatizzato, un’esperienza kantiana o bergsoniana. Ma si tratta allora dell’esperienza di un tempo ipostatizzato, di un tempo che è. Non è più il tempo nella sua funzione schematica fra l’esistere e l’esistente, il tempo come evento puro dell’ipostasi. Nell’istante in cui poniamo il presente come il dominio dell’esistente sull’esistere e cerchiamo il passaggio dall’esistere all’esistente, ci troviamo collocati su di un piano di ricerca che non si può più qualificare in termini di esperienza. E se la fenomenologia non è altro che un metodo di esperienza radicale, ci troveremo al di là della fenomenologia. L’ipostasi del presente è d’altronde solo un momento dell’ipostasi; il tempo può indicare una relazione diversa fra l’esistere e l’esistente. Esso ci apparirà appunto, in seguito, come l’evento stesso della nostra relazione con altri [autrui] e ci permetterà di approdare così a un’esistenza pluralistica, che supera l’ipostasi monistica del presente.

Presente, “io”: l’ipostasi è libertà. L’esistente è padrone dell’esistere. Esercita sulla sua esistenza il virile potere del soggetto. Ha qualche cosa in suo potere.

Prima forma di libertà. Non è ancora la libertà del libero arbitrio, ma la libertà del cominciamento. È a partire da qualche cosa, ora, che c’è esistenza. Libertà implicita in ogni soggetto, nel fatto stesso che c’è soggetto, che c’è essente. Libertà del potere stesso dell’esistente sull’esistere.


Solitudine e ipostasi

La solitudine è stata caratterizzata all’inizio di questo studio come l’unità indissolubile fra l’esistente e il suo esistere. Questo significa che essa non dipende da una presupposizione qualsiasi dell’altro. Non appare come una privazione della relazione con altri [autrui], data preliminarmente. Essa scaturisce dall’opera dell’ipostasi. La solitudine è la stessa unità dell’esistente, il fatto che c’è qualche cosa nell’esistere a partire da cui si fa l’esistenza. Il soggetto è solo perché è uno. È necessario che ci sia una solitudine perché si dia la libertà del cominciamento, il dominio dell’esistente sull’esistere, cioè, in definitiva, perché ci sia l’esistente. La solitudine non è dunque soltanto disperazione e abbandono, ma anche virilità e fierezza e sovranità. Caratteri, questi, che l’analisi esistenzialistica della solitudine, condotta esclusivamente in termini di disperazione, è riuscita a cancellare, facendo cadere nella dimenticanza tutti i motivi della letteratura e della psicologia romantica e byroniana che esaltano la solitudine fiera, aristocratica, geniale.


Solitudine e materialità

Ma questo dominio del soggetto sull’esistere, questa sovranità dell’esistente, implica un rovesciamento dialettico.

L’esistere è dominato dall’esistente, identico a se stesso, cioè solo. Ma l’identità non è soltanto l’atto di partire da sé; essa è anche un tornare a sé. Il presente consiste in un ritorno inevitabile a sé. Il prezzo della posizione dell’esistente sta proprio nel fatto ch’esso non può distaccarsi da sé. L’esistente si occupa di sé. Questa maniera di occuparsi di sé è la materialità del soggetto. L’identità non è una relazione inoffensiva con sé, ma un asservimento a sé; è la necessità di occuparsi di sé. Il cominciamento è appesantito da se stesso; è un presente di essere e non di sogno. La sua libertà è immediatamente limitata dalla sua responsabilità. È questo il suo grande paradosso: un essere libero è già non più libero perché è responsabile di se stesso.

Libertà nei confronti del passato e dell’avvenire, il presente è un asservimento in rapporto a sé. Il carattere materiale del presente non dipende dal fatto che il passato gli pesi o che il suo avvenire lo preoccupi. Esso dipende dal presente in quanto presente. Il presente ha lacerato la trama dell’esistere infinito; ignora la storia; comincia a partire da adesso. E malgrado ciò, o a causa di ciò, si ritrova impegnato in se stesso e perciò sperimenta una responsabilità, si rovescia in materialità.

Nelle descrizioni psicologiche e antropologiche, questo si esprime con il fatto che l’io è già inchiodato a sé, che la libertà dell’io non è leggera come la grazia, ma già un peso, che l’io è irrimediabilmente sé. Non faccio un dramma di una tautologia. Il ritorno dell’io su di sé non è propriamente una serena riflessione e neppure il risultato di una riflessione puramente filosofica. La relazione con sé è, come nel romanzo di Blanchot Aminadab, la relazione con un doppio incatenato a me, doppio vischioso, pesante, stupido ma assieme al quale l’io si ritrova proprio perché è io. Assieme a... che si manifesta nel fatto che è necessario occuparsi di sé. Ogni opera che si intraprende è una baraonda. Io non esisto come un essere spirituale, come un sorriso o un vento che soffia, non sono libero da responsabilità. Il mio essere si carica di un avere: sono oppresso dall’ingombro di me stesso. L’esistenza materiale è proprio questo. Di conseguenza, la materialità non esprime la caduta contingente dello spirito nella tomba o nella prigione di un corpo. Essa accompagna – necessariamente – la nascita del soggetto, nella sua libertà di esistente. Comprendere così il corpo a partire dalla materialità – evento concreto della relazione fra Io e Sé – significa ricondurlo a un evento ontologico. Le relazioni ontologiche non sono legami disincarnati. La relazione fra Io e Sé non è un’inoffensiva riflessione del pensiero su di sé. È tutta la materialità dell’uomo.

La libertà dell’Io e la sua materialità sono perciò inseparabili.

La prima forma di libertà, che scaturisce dal fatto che nell’esistere anonimo nasce un esistente, comporta in un certo senso un prezzo da pagare: l’irrevocabilità dell’io inchiodato a sé. Questa irrevocabilità dell’esistente, che costituisce la tragicità della solitudine, è appunto la materialità. La solitudine non è tragica perché è privazione dell’altro, ma perché è chiusa nella prigionia della sua identità, perché è materia. Spezzare le catene della materia significa spezzare l’irrevocabilità dell’ipostasi. Significa essere nel tempo. La solitudine è un’assenza di tempo. Il tempo dato, ipostatizzato a sua volta, oggetto di esperienza, il tempo che dev’essere percorso, attraverso il quale il soggetto si trascina dietro la sua identità, è un tempo incapace di sciogliere il nodo dell’ipostasi.

 

II

La materia è il destino infelice dell’ipostasi. Solitudine e materialità sono inseparabili. La solitudine non è un’inquietudine superiore che si manifesta a un essere quando tutti i suoi bisogni sono soddisfatti. Non è l’esperienza privilegiata dell’essere per la morte, ma la compagna, se così si può dire, dell’esistenza quotidiana assillata dalla materia. E nella misura in cui le cure materiali scaturiscono dalla stessa ipostasi ed esprimono proprio l’evento della nostra libertà di esistenti, la vita quotidiana, lungi dal costituire una caduta, lungi dall’apparire come un tradimento nei confronti del nostro destino metafisico, nasce dalla nostra solitudine, costituisce il compimento stesso della solitudine e il tentativo infinitamente grave di sopperire alla sua miseria profonda. La vita quotidiana è una preoccupazione della salvezza.


La vita quotidiana e la salvezza

Non si può forse risolvere in questo modo una contraddizione di cui tutta la filosofia contemporanea costituisce il gioco? La speranza di una società migliore e la disperazione della solitudine, fondate entrambe su esperienze che pretendono di essere evidenti, appaiono in un antagonismo insormontabile. Fra l’esperienza della solitudine e l’esperienza sociale non c’è soltanto opposizione, ma antinomia. Ognuna di esse rivendica per sé la dignità di esperienza universale e riesce a rendere conto dell’altra, a farla apparire come una degradazione d’una esperienza autentica.

Nello stesso ambito del costruttivismo ottimistico della sociologia e del socialismo, il sentimento della solitudine rimane e costituisce una minaccia. Esso permette di denunciare come divertissement pascaliano, come puro e semplice oblio della solitudine, le gioie della comunicazione, le opere collettive e tutto ciò che rende il mondo abitabile. Il fatto di trovarvisi installati, di occuparsi delle cose, di attaccarsi a esse e anche l’aspirazione a dominare le cose, non viene soltanto svalutato nell’esperienza della solitudine, ma viene anche interpretato per mezzo di una filosofia della solitudine. La cura delle cose e dei bisogni sarebbe una caduta, una fuga dinanzi alla finalità ultima implicita in questi stessi bisogni, una incoerenza, una non verità, fatale, certo, ma segnata dal marchio dell’inferiore e del riprovevole.

Ma l’inverso è ugualmente vero. In mezzo alle angosce pascaliane, kierkegaardiane, nietzscheane e heideggeriane, ci comportiamo come dei borghesi disgustosi. A meno che non siamo fuori senno. Nessuno vorrà proporre la follia come una via di salvezza. Il buffone, il folle della tragedia shakespeariana è colui che sente e dice con lucidità l’inconsistenza del mondo e l’assurdità delle situazioni; ma egli non è il personaggio principale della tragedia, non ha nulla da superare. Egli è, nel mondo dei re, dei principi e degli eroi, l’apertura attraverso la quale questo mondo è percorso dal soffio della follia; ma egli non è la tempesta che spegne le luci e strappa i drappeggi. Ci si affanni pure a qualificare in termini di caduta, di vita quotidiana, di animalità, di degradazione e di sordido materialismo, l’insieme delle preoccupazioni che riempiono le nostre lunghe giornate e che ci strappano alla nostra solitudine per gettarci nelle relazioni con i nostri simili: queste preoccupazioni non hanno in tutti i casi nulla di futile. Si può ben pensare che il tempo autentico è originariamente un’estasi, ma si finisce per comprarsi l’orologio; malgrado la nudità dell’esistenza, è necessario, nella misura del possibile, essere vestiti con decenza. E quando si scrive un libro sull’angoscia, lo si scrive per qualcuno, si passa attraverso tutte le fasi che separano la redazione dalla pubblicazione e ci si comporta, talvolta, come mercanti di angoscia. Il condannato a morte mette a posto il suo abbigliamento in occasione del suo ultimo viaggio, accetta un’ultima sigaretta, e trova prima della salva una battuta eloquente.

Obiezioni facili che ricordano quelle che certi pensatori realisti rivolgono agli idealisti, quando rimproverano loro di mangiare e di respirare in un mondo illusorio. Obiezioni, in questo caso, meno trascurabili; esse non contrappongono un modo di vivere a una metafisica, ma un modo di vivere a una morale. Ciascuna delle esperienze antagoniste è una morale. Esse si rimproverano a vicenda, non l’errore, ma l’inautenticità. C’è qualcosa di diverso dall’ingenuità nella smentita che le masse oppongono alle élite quando si preoccupano di pane più che di angoscia. Di qui, l’accento di grandezza che impressiona in un umanesimo che parte dal problema economico, di qui la possibilità stessa, racchiusa nelle rivendicazioni della classe operaia, di assurgere alla dignità di umanesimo. Per un comportamento che fosse semplicemente una caduta nell’inautentico o un divertissement, o un’esigenza legittima della nostra animalità, tutto questo sarebbe inesplicabile.

La solitudine e le sue angosce sono per un socialismo costruttivo e ottimistico una posizione da struzzo in un mondo che richiede solidarietà e lucidità, epifenomeno – fenomeno di lusso o di scarto – di un periodo di trasformazione sociale; sogno insensato di un individuo squilibrato, una lussazione nel corpo sociale. Ed è con un diritto uguale a quello di cui si avvale la filosofia della solitudine, che l’umanesimo socialista può attribuire la qualifica di menzogna e di chiacchiera, e persino di mistificazione e di falsa eloquenza, di fuga davanti all’essenziale e di corruzione, all’angoscia della morte e della solitudine.

Antinomia che oppone il bisogno di salvarsi e quello di appagarsi: Giacobbe ed Esaù. Ma il rapporto autentico fra salvezza e appagamento non è quello che ha creduto di cogliere l’idealismo classico e che l’esistenzialismo moderno mantiene immutato malgrado tutto. La salvezza non presuppone l’appagamento del bisogno, come una forma superiore che richiedesse di assicurarsi della solidità delle sue basi. Il tran tran della nostra vita quotidiana non è certamente una pura e semplice conseguenza della nostra animalità costantemente superata dall’attività dello spirito. Ma l’inquietudine della salvezza non nasce neppure nel dolore del bisogno che ne sarebbe la causa occasionale, come se la povertà o la condizione del proletario fosse l’occasione per intravedere la porta del Regno dei Cieli. Non pensiamo che l’oppressione da cui è schiacciata la classe operaia serva soltanto a farle fare un’esperienza pura dell’oppressione per risvegliare in essa, al di là della liberazione economica, la nostalgia di una liberazione metafisica. La lotta rivoluzionaria risulta deviata dal suo significato autentico e dalla sua intenzione reale quando serve soltanto come base per la vita spirituale o quando, con le sue crisi, deve risvegliare delle vocazioni. La lotta economica è già immediatamente una lotta per la salvezza perché è fondata nella dialettica stessa dell’ipostasi, grazie alla quale si costituisce la prima forma di libertà.

Nella filosofia di Sartre il presente ha un’aria vagamente angelica. Dal momento che tutto il peso dell’esistenza è rigettato sul passato, la libertà del presente si colloca già al di sopra della materia. Riconoscendo proprio nel presente e nella libertà del suo inizio tutto il peso della materia, noi vogliamo nello stesso tempo riconoscere alla vita materiale e la sua capacità di trionfare sull’anonimato dell’esistere e la tragica irrevocabilità alla quale essa si lega con la sua stessa libertà.

Collegando la solitudine alla materialità del soggetto – dove la materialità è il suo asservimento a se stesso – siamo in grado di comprendere in che senso il mondo e la nostra esistenza nel mondo costituiscono un tentativo fondamentale del soggetto di superare il peso ch’esso rappresenta per se stesso, un tentativo di superare la sua materialità, cioè di sciogliere il legame fra il sé e l’io.


La salvezza per mezzo del mondo; gli alimenti

Nell’esistenza quotidiana, nel mondo, la struttura materiale del soggetto si trova, in una certa misura, superata: fra l’io e il sé appare un intervallo. Il soggetto identico non ritorna a sé immediatamente.

Da Heidegger in poi siamo abituati a considerare il mondo come un insieme di utensili. Esistere nel mondo significa agire, ma agire in modo tale che in fin dei conti l’azione ha per oggetto la nostra stessa esistenza. Gli utensili rinviano gli uni agli altri per rinviare infine alla nostra cura di esistere. Spingendo l’interruttore di una stanza da bagno, dischiudiamo il problema ontologico nella sua interezza. Ciò che sembra esser sfuggito a Heidegger – se è vero tuttavia che qualche cosa sia potuta sfuggire a Heidegger su questi argomenti – è che prima di essere un sistema di utensili, il mondo è un insieme di alimenti. La vita dell’uomo nel mondo non va al di là degli oggetti che lo riempiono. Forse non è esatto dire che viviamo per mangiare, ma non è più esatto dire che mangiamo per vivere. La finalità ultima del mangiare è contenuta nel cibo. Quando si aspira il profumo di un fiore, è all’odore che si limita la finalità dell’atto. Andare a passeggio significa prendere aria, non per la salute, ma per l’aria. Sono gli alimenti che caratterizzano la nostra esistenza nel mondo. Esistenza estatica – esser fuori di sé – ma limitata all’oggetto.

Relazione con l’oggetto che si può caratterizzare con il godimento. Ogni forma di godimento è una maniera di essere, ma anche una sensazione, cioè luce e conoscenza. Assorbimento dell’oggetto, ma distanza nei confronti dell’oggetto. Al godere appartiene essenzialmente un sapere, una luminosità. Perciò, il soggetto, davanti agli alimenti che si offrono, è nello spazio, a distanza da tutti gli oggetti che gli sono necessari per esistere. Mentre nell’identità pura e semplice dell’ipostasi, il soggetto s’invischia in se stesso, nel mondo, invece del ritorno a sé, c’è “rapporto con tutto ciò che è necessario per essere”. Il soggetto si separa da se stesso. La luce è la condizione di una tale possibilità. In questo senso la nostra vita quotidiana è già una maniera di liberarsi dalla materialità iniziale per mezzo della quale si realizza il compimento del soggetto. Essa contiene già un oblio di sé. La morale delle “nourritures terrestres” è la prima morale. La prima forma di abnegazione. Non l’ultima, ma è necessario passare attraverso di essa[8].


Trascendenza della luce e della ragione

Ma l’oblio di sé, la luminosità del godimento non rompe l’attaccamento irremissibile dell’io al sé se si separa questa luce dall’evento ontologico della materialità del soggetto nel cui contesto esso si colloca e se, sotto il nome di ragione, si eleva questa luce al rango di un assoluto. L’intervallo dello spazio, che è dato dalla luce, è istantaneamente assorbito dalla luce. La luce è ciò per mezzo di cui qualcosa è altro da me, ma già come se uscisse da me. L’oggetto illuminato è qualcosa che si incontra, ma, nello stesso tempo proprio per il fatto che è illuminato, lo si incontra come se uscisse da noi[9]. Non ha una estraneità intrinseca. La sua trascendenza è avvolta nell’immanenza. È in compagnia di me stesso che io mi ritrovo nella conoscenza e nel godimento. L’esteriorità della luce non è sufficiente per la liberazione dell’io prigioniero di sé.

La luce e la conoscenza ci apparvero al loro livello all’interno dell’ipostasi e della dialettica ch’essa introduce: una maniera, per il soggetto liberato dall’anonimato dell’esistere, ma inchiodato a se stesso a causa della sua identità di esistente (cioè materializzato), di prendere le distanze in rapporto alla sua materialità. Ma separata da questo evento ontologico, separata dalla materialità, alla quale altre dimensioni di liberazione sono promesse, la conoscenza non è in grado di superare la solitudine. La ragione e la luce di per se stesse danno compimento alla solitudine dell’essente in quanto essente, realizzano il suo destino d’essere il solo e unico punto di riferimento per tutto.

Inglobando il tutto nella sua universalità, la ragione si ritrova a sua volta nella solitudine. Il solipsismo non è né un’aberrazione, né un sofisma: è la struttura stessa della ragione. Non a causa del carattere “soggettivo” delle sensazioni ch’essa combina, ma a causa dell’universalità della conoscenza, cioè del carattere illimitato della luce e dell’impossibilità per qualsiasi cosa di essere al di fuori. Perciò la ragione non trova mai un’altra ragione a cui parlare. L’intenzionalità della coscienza permette di distinguere l’io dalle cose, ma non elimina il solipsismo, poiché il suo elemento, la luce, ci rende padroni del mondo esterno, ma è incapace di mostrarci in esso un nostro simile. L’oggettività del sapere razionale non toglie nulla al carattere solitario della ragione. Il rovesciamento possibile dell’oggettività in soggettività è il tema principale dell’idealismo, che è una filosofia della ragione. L’oggettività della luce è proprio la soggettività. Ogni oggetto può essere detto in termini di coscienza, può cioè esser messo in luce.

La trascendenza dello spazio può essere garantita come qualcosa di reale soltanto se è fondata su una trascendenza senza ritorno al punto di partenza. La vita può diventare il cammino della redenzione soltanto se nella sua lotta con la materia incontra un evento che impedisca alla sua trascendenza quotidiana di ricadere su di un punto, sempre lo stesso. Per cogliere questa trascendenza che sostiene quella della luce, che fornisce al mondo esterno una esteriorità reale, bisogna tornare alla situazione concreta in cui la luce è data nel godimento, cioè all’esistenza materiale.

 

III

Ci siamo occupati del soggetto solo; solo per il fatto stesso che è esistente. La solitudine del soggetto dipende dalla sua relazione con l’esistere, di cui è il padrone. Questo dominio sull’esistere è il potere di cominciare, di partire da sé; partire da sé non per agire, non per pensare, ma per essere.

Abbiamo mostrato poi che la liberazione nei confronti dell’esistere anonimo, che si compie nell’esistente, diventa un asservimento a sé, l’asservimento stesso dell’identificazione. Concretamente, la relazione dell’identificazione è l’oppressione dell’io a causa dell’ingombro del sé, la cura che l’io si prende di sé, o la materialità. Astrazion fatta da qualsiasi relazione con un avvenire o con un passato, il soggetto s’impone a sé, e questo si compie proprio nella libertà del suo presente. La sua solitudine non consiste inizialmente nel fatto che è senza soccorso, ma nel fatto che è gettato in pasto a se stesso, che s’invischia in se stesso. La materialità è proprio questo. Perciò nell’istante stesso della trascendenza del bisogno, che pone il soggetto di fronte agli alimenti, di fronte al mondo come alimento, essa gli offre una liberazione nei confronti di se stesso. Il mondo offre al soggetto la partecipazione all’esistere sotto forma di godimento, gli permette di conseguenza di esistere a distanza da sé. Il soggetto è assorbito nell’oggetto ch’esso assorbe, e si tiene tuttavia a distanza nei confronti di questo oggetto. Il godimento è sempre anche sensazione, cioè conoscenza, e luce. Non sparizione di sé, ma oblio di sé e come una prima forma di abnegazione.


Il lavoro

Ma questa trascendenza istantanea che si realizza per mezzo dello spazio non conduce fuori dalla solitudine. La luce, che rende possibile l’incontro con l’altro da sé, lo rende possibile in modo tale che questo altro sembra già uscire da me. La luce, la chiarezza: è proprio questo l’intelligibilità; essa fa derivare tutto da me, riduce ogni esperienza a un dato di reminiscenza. La ragione è sola. E in questo senso, la conoscenza non incontra mai nel mondo qualcosa di autenticamente altro. È questa la profonda verità dell’idealismo. Con ciò si annuncia una differenza radicale fra l’esteriorità spaziale e l’esteriorità che esiste fra gli istanti, cioè nel rapporto fra gli uni e gli altri.

Nella concretezza del bisogno, lo spazio, che ci allontana da noi stessi, è sempre da conquistare. Bisogna attraversarlo, bisogna prendere l’oggetto, cioè bisogna lavorare con le proprie mani. In questo senso, “chi non lavora, non mangia” è una proposizione analitica. Gli utensili e la fabbricazione degli utensili perseguono l’ideale chimerico della soppressione delle distanze. Nella prospettiva che si apre sull’utensile a partire dall’utensile moderno – la macchina –, si è colpiti molto più dalla sua funzione che consiste nel sopprimere il lavoro che dalla sua funzione di strumento, a cui si è limitata l’analisi di Heidegger.

Ora, nel lavoro – cioè nello sforzo, nella sua pena, e nel suo dolore –, il soggetto ritrova il peso dell’esistenza implicito nella sua stessa libertà di esistente. La pena e il dolore: ecco i fenomeni ai quali si riduce in ultima analisi la solitudine dell’esistente e che andremo adesso a esaminare.


La sofferenza e la morte

Nella pena, nel dolore, nella sofferenza, ritroviamo, allo stato puro, l’irrevocabilità che costituisce la tragedia della solitudine. Irrevocabilità che l’estasi del godimento non riesce a superare. Due punti devono essere sottolineati: è sul dolore del bisogno e del lavoro, e non sull’angoscia del nulla, che si baserà la prosecuzione della nostra analisi della solitudine; è sul dolore chiamato, con leggerezza, fisico che insisteremo, poiché in esso il coinvolgimento nell’esistenza è senz’alcun equivoco. Mentre nel dolore morale è possibile mantenere un atteggiamento di dignità e di compunzione e di conseguenza è già possibile liberarsi, la sofferenza fisica, in tutte le sue gradazioni, è un’impossibilità di distaccarsi dall’istante dell’esistenza. Essa è l’irrevocabilità stessa dell’essere.

Il contenuto della sofferenza si identifica con l’impossibilità di distaccarsi dalla sofferenza. E questo non significa definire la sofferenza con la sofferenza, ma insistere sull’implicazione sui generis che ne costituisce l’essenza. C’è nella sofferenza l’assenza di ogni rifugio. Essa è il fatto di essere direttamente esposti all’essere. È fatta dell’impossibilità di fuggire e di tirarsi indietro. Lo strazio della sofferenza sta interamente in questa impossibilità di ritirata. Essa è il fatto di esser presi nella stretta della vita e dell’essere. In questo senso, la sofferenza è l’impossibilità del nulla.

Ma c’è nella sofferenza, insieme all’appello a un nulla impossibile, la prossimità della morte. Non c’è soltanto il fatto di sentire e di sapere che la sofferenza può concludersi con la morte. Il dolore in se stesso comporta una specie di parossismo, come se qualcosa di più lacerante ancora della sofferenza stesse sul punto di prodursi, come se malgrado l’assenza di ogni riparo che costituisce la sofferenza, ci fosse ancora lo spazio aperto per un evento, come se si dovesse ancora stare in pena per qualcosa, come se fossimo nell’imminenza di un evento situato al di là di quello che si è svelato fino in fondo nella sofferenza. La struttura del dolore, che consiste nel suo stesso attaccamento al dolore, va oltre i suoi limiti, ma fino a un ignoto che è impossibile tradurre in termini di luce, che è refrattario, cioè, a quell’intimità del sé all’io nella quale si risolvono tutte le nostre esperienze. L’ignoto che caratterizza la morte e che non si dà di primo acchito come nulla, ma è correlativo a un’esperienza dell’impossibilità del nulla, significa non che la morte è una regione dalla quale nessuno è mai tornato e che di conseguenza resta sconosciuta di fatto; l’ignoto della morte significa che la relazione con la morte non può accadere nella luce; che il soggetto è in relazione con ciò che non viene da lui. Potremmo dire che è in relazione col mistero.

Questo modo caratteristico della morte di annunciarsi nella sofferenza, al di fuori di ogni possibilità di luce, è un’esperienza della passività del soggetto che fino ad allora era stato attivo, che continuava a essere attivo anche quando veniva sopravanzato dalla sua stessa natura, ma conservava intatta la sua capacità di assumere la sua situazione di fatto. Ho detto: un’esperienza della passività. Si fa per dire, poiché esperienza significa già sempre conoscenza, luce e iniziativa; poiché esperienza significa anche ritorno dell’oggetto verso il soggetto. La morte intesa come mistero va al di là dell’esperienza compresa in questo modo. Nel sapere, ogni sorta di passività è, per la mediazione della luce, attività. L’oggetto che incontro è compreso e, in definitiva, costruito da me, mentre la morte annuncia un evento che il soggetto non è in grado di dominare, un evento in rapporto al quale il soggetto non è più soggetto.

Rileviamo subito ciò che questa analisi della morte nel contesto della sofferenza presenta di particolare in rapporto alle celebri analisi heideggeriane dell’essere per la morte. L’essere per la morte, nell’esistenza autentica di Heidegger, è una lucidità suprema e, perciò, una virilità suprema. È l’assunzione dell’ultima possibilità dell’esistenza da parte del Dasein, che rende appunto possibili tutte le altre possibilità[10], che rende di conseguenza possibile il fatto stesso di cogliere una possibilità, cioè l’attività e la libertà. La morte è, in Heidegger, evento di libertà, allorché, nella sofferenza, il soggetto ci sembra giungere al limite del possibile. Esso si trova assoggettato, sopravanzato e in qualche modo passivo. La morte è in questo senso il limite dell’idealismo.

Mi chiedo persino com’è stato possibile che il tratto principale della nostra relazione con la morte sfuggisse all’attenzione dei filosofi. Non è dal nulla della morte, di cui precisamente non sappiamo niente, che l’analisi deve partire, ma da una situazione in cui qualcosa di assolutamente inconoscibile appare; assolutamente inconoscibile, cioè estraneo a ogni possibilità di luce, poiché rende impossibile qualsiasi forma di assunzione di possibilità, ma in cui noi stessi siamo afferrati.


La morte e l’avvenire

È questa la ragione per cui la morte non è mai una realtà presente. È un truismo. L’adagio antico: “Se ci sei tu, non c’è la morte; se c’è la morte, non ci sei tu”, che aveva lo scopo di dissipare il timore della morte, se ne lascia sfuggire senza dubbio tutto il paradosso, perché cancella la nostra relazione con essa, che è una relazione unica con l’avvenire. Ma almeno questo adagio ha il merito di insistere sull’eterno avvenire della morte. Il fatto ch’essa si sottragga a ogni presente non dipende dalla nostra evasione di fronte alla morte e da un imperdonabile divertissement nell’ora suprema, ma dal fatto che la morte è inafferrabile, dal fatto che essa segna la fine della virilità e dell’eroismo del soggetto. L’adesso è il fatto che io sono padrone, padrone del possibile, padrone di afferrare il possibile. La morte non è mai adesso. Quando la morte è presente, io non sono più presente, non perché sono nulla, ma perché non sono in grado di afferrare. La mia sovranità, la mia virilità, il mio eroismo di soggetto non possono essere virilità né eroismo in rapporto alla morte. Nella sofferenza, in seno alla quale abbiamo colto la vicinanza della morte – e ancora sul piano del fenomeno – c’è questo rovesciamento dell’attività del soggetto in passività. Non nell’istante della sofferenza, in cui, preso nella stretta dell’essere, lo afferro ancora, in cui sono ancora soggetto della sofferenza, ma nel pianto e nel singhiozzo, nei quali si capovolge la sofferenza. Là dove la sofferenza raggiunge la sua purezza, dove non c’è più nulla fra noi ed essa, la suprema responsabilità di questa assunzione estrema si rovescia in suprema irresponsabilità, in infanzia. È questo il singhiozzo e per questo, appunto, esso annuncia la morte. Morire significa tornare a questo stato di irresponsabilità, significa identificarsi con la scossa infantile del singhiozzo.

Mi permetterete di tornare ancora una volta a Shakespeare, di cui ho abusato nel corso di queste conferenze. Ma a me sembra talvolta che tutta la filosofia non sia altro che una meditazione di Shakespeare. L’eroe della tragedia non assume forse la morte? Mi permetterò di analizzare brevissimamente la fine di Macbeth. Macbeth apprende che il bosco di Birnam sta marciando sul castello di Dunsinane, e questo è il segno della disfatta: la morte si avvicina. Quando questo segno si realizza, Macbeth dice: “Soffia, vento! Vieni, naufragio!”. Ma subito dopo: “Suona la campana di allarme, ecc... Morremo almeno con l’armatura addosso”. Prima della morte, si combatterà. Il secondo segno della disfatta non si è ancora prodotto. Le streghe non avevano forse predetto che un uomo nato da una donna non poteva nulla contro Macbeth? Ma ecco Macduff che non è nato da una donna. La morte è per adesso. “Maledetta sia la lingua che mi parla in questo modo”, grida Macbeth a Macduff che gli rende noto il suo potere su di lui, “poiché ha scoraggiato la parte migliore dell’uomo che sono... Non combatterò con te”.

Ecco la passività di cui si parlava, che appare quando non c’è più speranza. Ecco ciò che ho chiamato la fine della virilità. Ma immediatamente la speranza rinasce, ed ecco le ultime parole di Macbeth: “Benché il bosco di Birnam sia venuto a Dunsinane e io abbia te di fronte, te, che non sei nato da donna, tenterò tuttavia la mia ultima possibilità”.

C’è sempre, prima della morte, un’ultima possibilità, che l’eroe tenta di afferrare, e non la morte. L’eroe è colui che riesce a vedere sempre un’ultima possibilità; è l’uomo che si ostina a trovare delle possibilità. La morte non è dunque mai assunta; essa viene.

Il suicidio è un concetto contraddittorio. L’eterna imminenza della morte fa parte della sua essenza. Nel presente, dove si afferma la sovranità del soggetto, c’è speranza. La speranza non si aggiunge alla morte con una specie di salto-mortale[11], con una specie di incoerenza; essa si trova nel margine stesso che, nel momento della morte, è dato al soggetto che sta per morire. Spiro-spero. Di questa impossibilità di assumere la morte, Amleto è precisamente una lunga testimonianza. Il nulla è impossibile. Esso avrebbe lasciato all’uomo la possibilità di assumere la morte, di strappare alla schiavitù dell’esistenza una sovranità suprema. “To be or not to be” è una presa di coscienza di questa impossibilità di annientarsi.


L’evento e l’altro

Che cosa possiamo ricavare da questa analisi della morte? Essa diventa il limite della virilità del soggetto, di quella virilità che è stata resa possibile per mezzo dell’ipostasi all’interno dell’essere anonimo, e che si è manifestata nel fenomeno del presente, nella luce. Non che esistano imprese impossibili al soggetto, che i suoi poteri siano in qualche modo finiti; la morte non annuncia una realtà contro la quale non possiamo nulla, contro la quale la nostra potenza è insufficiente; realtà che superano le nostre forze appaiono già nel mondo della luce. Nell’approssimarsi della morte, l’importante è che a un certo momento non possiamo più potere; ed è proprio per questo che il soggetto perde la sua stessa sovranità di soggetto.

Questa fine della sovranità indica che noi abbiamo assunto l’esistere in modo tale che può accaderci un evento che non siamo più in grado di assumere, neppure nel modo in cui, sempre sommerso dal mondo empirico, lo assumiamo per mezzo della visione. Un evento ci accade senza che noi possiamo disporre assolutamente di nulla “a priori”, senza che ci sia possibile avere il minimo progetto, come si usa dire oggi. La morte è l’impossibilità di avere un progetto. Questo modo di presentarsi della morte indica che siamo in relazione con qualcosa che è assolutamente altro, qualcosa che ha in sé l’alterità non come una determinazione provvisoria, che può essere da noi assimilata per mezzo del godimento, ma qualcosa la cui esistenza stessa è fatta di alterità. La mia solitudine, così, non è confermata dalla morte, ma è spezzata dalla morte.

In tal modo, diciamolo subito, l’esistenza si fa pluralistica. Il plurale non è qui una molteplicità di esistenti, ma appare proprio all’interno dell’atto di esistere. Nello stesso esistere dell’esistente, fino ad allora gelosamente assunto dal soggetto solo ed espresso per mezzo della sofferenza, s’insinua una pluralità. Nella morte, l’esistere dell’esistente si aliena. Certo, l’Altro che si annuncia non possiede questo esistere allo stesso modo in cui lo possiede il soggetto; il suo potere sul mio esistere è misterioso; non sconosciuto, ma inconoscibile, totalmente refrattario alla luce. Ma questo indica appunto che l’altro non è in nessun modo un altro me stesso, che partecipa insieme con me a un’esistenza comune. La relazione con l’altro non è un’idillica e armoniosa relazione di comunione, né una simpatia grazie alla quale, mettendoci al suo posto, lo riconosciamo come simile a noi ma esterno a noi; la relazione con l’altro è una relazione con un Mistero. È la sua esteriorità, o piuttosto la sua alterità, che costituisce tutto il suo essere, poiché l’esteriorità è una proprietà dello spazio e riconduce il soggetto a se stesso per mezzo della luce.

Di conseguenza, solo un essere che è arrivato alla contrazione spasmodica della sua solitudine attraverso la sofferenza e alla relazione con la morte, si pone su un terreno in cui la relazione con l’altro diventa possibile. Relazione con l’altro che non si identificherà mai con il fatto di cogliere una possibilità. Bisognerebbe caratterizzarla con termini che vadano al di là delle relazioni che descrivono la luce. Penso che la relazione erotica ce ne fornisca il prototipo. L’Eros, forte come la morte, ci fornirà la base dell’analisi di questa relazione con il mistero. A patto di esporlo in termini totalmente differenti rispetto a quelli del platonismo, che è un mondo della luce.

Ma è possibile ricavare da questa situazione della morte, in cui il soggetto non ha più alcuna possibilità da cogliere, un altro carattere dell’esistenza in relazione all’altro. Ciò di cui non è possibile appropriarsi in nessun modo è l’avvenire; l’esteriorità dell’avvenire è totalmente differente dall’esteriorità spaziale proprio per il fatto che l’avvenire è assolutamente sorprendente. L’anticipazione dell’avvenire, la proiezione dell’avvenire, accreditate come l’aspetto essenziale del tempo da tutte le teorie da Bergson a Sartre, non sono altro che il presente dell’avvenire e non l’avvenire autentico; l’avvenire è ciò di cui non è possibile appropriarsi, ciò che cade su di noi e s’impadronisce di noi. L’avvenire è l’altro. La relazione con l’avvenire è la relazione stessa con l’altro. Parlare di tempo in un soggetto solo, parlare di una durata puramente individuale, ci sembra impossibile.


Altro e altri
[Autre et autrui]

Abbiamo appena mostrato nella morte la possibilità dell’evento. E abbiamo contrapposto questa possibilità dell’evento, nel cui ambito il soggetto non è più padrone dell’evento, alla possibilità dell’oggetto, di cui il soggetto è sempre il padrone, e con il quale, in definitiva, è sempre solo. Abbiamo caratterizzato questo evento come mistero, proprio perché non era possibile anticiparlo, cioè impadronirsene; perché non poteva entrare in un presente o perché vi entrava come ciò che non può entrarvi. Ma la morte, così delineata in termini di alterità, come alienazione della mia esistenza, potrà ancora essere la mia morte? Se essa apre una via d’uscita alla solitudine, non si limiterà forse a schiacciare questa solitudine, a schiacciare la stessa soggettività? C’è infatti nella morte un abisso fra l’evento e il soggetto al quale esso accadrà. L’evento di cui non è possibile impadronirsi, in che modo potrà ancora accadere a me? Quale potrà essere la relazione dell’altro con l’essente, con l’esistente? In che modo l’esistente potrà esistere come mortale e tuttavia perseverare nella sua “personalità”, conservare la sua conquista sull’“il y a” anonimo, la sua sovranità di soggetto, la sua conquista della soggettività? Potrà l’essente entrare in relazione con l’altro senza lasciar schiacciare dall’altro il suo sé?

Questo problema dev’esser posto innanzitutto, perché è il problema della conservazione dell’io nella trascendenza. Se l’uscita dalla solitudine dev’essere qualcosa di diverso dal dissolvimento dell’io nel termine verso il quale si proietta, e se, d’altra parte, il soggetto non può assumere la morte come assume l’oggetto, in quale forma potrà realizzarsi questa conciliazione fra l’io e la morte? In che modo l’io potrà assumere la morte senza tuttavia assumerla nello stesso tempo come una possibilità? Se di fronte alla morte non si può più potere, in che modo si potrà ancora restare se stessi dinanzi all’evento ch’essa annuncia?

Lo stesso problema è implicito in una descrizione fedele del fenomeno stesso della morte. L’aspetto patetico del dolore non consiste soltanto nell’impossibilità di sottrarsi all’esistenza, nel fatto di esser presi nella sua stretta, ma anche nel terrore che si ha di uscire da quella relazione di luce di cui la morte annuncia il superamento. Noi preferiamo come Amleto quest’esistenza nota a un’esistenza ignota. Come se l’avventura nella quale l’esistente è entrato per opera dell’ipostasi fosse la sua unica risorsa, l’unico rifugio contro ciò che c’è di intollerabile in questa avventura. C’è nella morte la tentazione del nulla di Lucrezio, e il desiderio dell’eternità di Pascal. Non si tratta di due atteggiamenti distinti: noi vogliamo morire ed essere nello stesso tempo.

Il problema non consiste nello strappare un’eternità alla morte, ma nel permettere di accoglierla, di conservare all’io, in mezzo a un’esistenza in cui un evento gli accade, la libertà acquisita grazie all’ipostasi. Situazione che si può qualificare come un tentativo di vincere la morte, in cui l’evento accade e in cui, nello stesso tempo, il soggetto, senza accoglierlo come si accoglie una cosa, un oggetto, può tuttavia porsi di fronte all’evento.

Abbiamo appena descritto una situazione dialettica. Ora dobbiamo mostrare una situazione concreta in cui questa dialettica si realizza. Metodo sul quale ci è impossibile fornire qui spiegazioni ulteriori e a cui abbiamo costantemente fatto ricorso. È evidente in tutti i casi che non è fenomenologico fino in fondo.

Questa situazione in cui l’evento accade a un soggetto che non l’assume, che non può potere nulla nei suoi confronti, ma in cui tuttavia esso gli è in un certo modo di fronte, è la relazione con altri [autrui], il faccia a faccia con altri [autrui], l’incontro con un volto che, nello stesso tempo, dà e sottrae altri [autrui]. L’altro “assunto” è altri [autrui].

Dirò nella mia ultima conferenza il significato di quest’incontro.


Tempo e altri [autrui]

Spero di poter mostrare che questa relazione è totalmente differente da ciò che ci viene proposto sia da parte esistenzialista che da parte marxista. Oggi, vorrei almeno indicare il riferimento del tempo a questa situazione di faccia a faccia con altri [autrui].

L’avvenire offerto dalla morte, l’avvenire dell’evento non è ancora il tempo. Perché, per divenire un elemento del tempo, questo avvenire che non è di nessuno, questo avvenire che l’uomo non può assumere, deve tuttavia entrare in relazione con il presente. Quale sarà il legame fra i due istanti, tra i quali c’è tutto l’intervallo, tutto l’abisso che separa il presente e la morte, quel margine insignificante ma insieme infinito dove c’è sempre abbastanza spazio per la speranza? Non si tratta certamente di una relazione di pura e semplice contiguità, che trasformerebbe il tempo in spazio, ma non si tratta neppure dello slancio del dinamismo e della durata, poiché per il presente questo potere di essere al di là di se stesso e di sconfinare nell’avvenire ci sembra escluso proprio dal mistero della morte.

La relazione con l’avvenire, la presenza dell’avvenire nel presente sembra ancora realizzarsi nel faccia a faccia con altri [autrui]. La situazione del faccia a faccia sarebbe la realizzazione stessa del tempo; lo sconfinamento del presente nell’avvenire non fa parte del modo d’essere di un soggetto solo, ma è la relazione intersoggettiva. La condizione del tempo sta nel rapporto fra esseri umani o nella storia.

 

IV

Nell’ultima conferenza, ero partito dalla sofferenza, intesa come l’evento in cui l’esistente è arrivato a realizzare fino in fondo la sua solitudine, cioè tutta l’intensità del suo legame con se stesso e tutta l’irrevocabilità della sua identità, e in cui nello stesso tempo esso si trova in relazione con l’evento che non assume, nei confronti del quale è pura passività, che è assolutamente altro, nei confronti del quale non può più potere. Questo carattere futuro della morte determina per noi l’avvenire, l’avvenire nella misura in cui non è presente. Determina ciò che nell’avvenire va al di là di ogni anticipazione, di ogni proiezione, di ogni slancio. Partire da una simile nozione dell’avvenire per comprendere il tempo significa che il tempo non si presenterà mai più come un’“immagine mobile dell’eternità immobile”.

Quando si toglie al presente ogni capacità di anticipazione, l’avvenire perde tutta la sua connaturalità con il presente. Esso non è sepolto in seno a un’eternità preesistente, dalla quale noi verremmo a prenderlo. È assolutamente altro e nuovo. Ed è così che si può comprendere la realtà stessa del tempo, l’assoluta impossibilità di trovare nel presente l’equivalente dell’avvenire, la mancanza di ogni capacità di far presa sull’avvenire.

Certo, la concezione bergsoniana della libertà per mezzo della durata tende allo stesso scopo. Ma essa lascia al presente un potere sull’avvenire: la durata è creazione. Per criticare questa filosofia senza morte, non basta collocarla nel contesto di tutta quella corrente della filosofia moderna che fa della creazione l’attributo principale della creatura. Si tratta di mostrare che la creazione stessa presuppone un’apertura su un mistero. L’identità del soggetto di per se stessa è incapace di produrla. Per sostenere questa tesi abbiamo insistito sull’esistere anonimo e irremissibile che costituisce una specie di universo pieno, sull’ipostasi che approda al dominio di un esistente sull’esistere, ma che per ciò stesso si chiude nell’irrevocabilità dell’identità che la sua trascendenza spaziale non è in grado di disfare. Non si tratta di contestare il fatto dell’anticipazione al quale le descrizioni bergsoniane della durata ci hanno abituati; si tratta di mostrarne le condizioni ontologiche; esse costituiscono il modo d’essere piuttosto che l’opera di un soggetto in relazione con il mistero, che è, se così si può dire, la dimensione stessa che si apre a un soggetto chiuso in se stesso. È proprio questa la ragione per cui l’opera del tempo è profonda. Essa non è semplicemente il rinnovamento per mezzo della creazione: quest’ultima resta legata al presente, non riesce a dare al creatore null’altro se non la tristezza di Pigmalione. Più che il rinnovamento dei nostri stati d’animo, delle nostre qualità, il tempo è essenzialmente una nuova nascita.


Potere e relazione con altri [autrui]

Ne riprenderò la descrizione. L’avvenire della morte, la sua estraneità non lascia al soggetto nessuna iniziativa. C’è un abisso fra il presente e la morte, fra l’io e l’alterità del mistero. Non è sul fatto che la morte pone fine all’esistenza, sul fatto che è fine e nulla, che abbiamo insistito, ma sul fatto che l’io è assolutamente senza iniziativa di fronte a essa. Vincere la morte non è un problema di vita eterna. Vincere la morte significa avere con l’alterità dell’evento una relazione che deve essere ancora personale.

Quale sarà dunque questa relazione personale, che è qualcosa di diverso dal potere del soggetto sul mondo, e che è in grado tuttavia di salvaguardare la personalità? In che modo si potrà dare del soggetto una definizione che si fondi in un certo senso sulla sua passività? Ci sarà nell’uomo una sovranità diversa da quella virilità, da quel potere di potere, di impadronirsi del possibile? Se la troveremo, il legame stesso del tempo consisterà proprio in essa, in questa relazione. Ho detto l’ultima volta che questa relazione è la relazione con altri [autrui].

Ma la soluzione non consiste nel ripetere i termini del problema.

Si tratta di precisare quale può essere questa relazione con altri [autrui]. Mi si è obiettato che nella mia relazione con altri [autrui], non è soltanto il suo avvenire ciò che io incontro, che l’altro in quanto esistente ha già un passato per me e che, di conseguenza, non ha il privilegio dell’avvenire. Questo mi permetterà di affrontare la parte principale della mia esposizione di oggi. Io non definisco l’altro per mezzo dell’avvenire, ma l’avvenire per mezzo dell’altro, poiché lo stesso avvenire della morte lo abbiamo visto consistere nella sua alterità totale. Ma la mia risposta principale consisterà nel dire che la relazione con l’altro colta al livello della nostra civiltà è un’articolazione ulteriore della nostra relazione originaria; articolazione ulteriore per nulla contingente, fondata essa stessa nella dialettica interna della relazione con altri [autrui]. Non potrò svilupparla oggi. Dirò soltanto che questa dialettica appare quando si spingono più a fondo tutte le implicazioni dell’ipostasi delineate molto schematicamente fino a questo punto, e, in particolare, quando si mostra, accanto alla trascendenza verso il mondo, la trascendenza dell’espressione che fonda la contemporaneità della civiltà e la reciprocità di ogni relazione. Ma questa trascendenza dell’espressione presuppone da parte sua l’avvenire dell’alterità alla quale mi limiterò questa volta.

Se la relazione con l’altro comporta qualcosa di più rispetto alle relazioni con il mistero, ciò dipende dal fatto che ci si è accostati all’altro nella vita corrente, in cui la sua solitudine e la sua alterità congenita sono già velate dalla decenza. L’uno è per l’altro ciò che l’altro è per l’uno; non c’è per il soggetto un posto eccezionale. L’altro è conosciuto, per mezzo della simpatia, come un altro me stesso, come l’alter ego. Nel romanzo di Blanchot Aminadab, questa situazione è spinta fino all’assurdo. Fra le persone che si aggirano nella strana abitazione in cui si svolge l’azione, dove non c’è nessuna attività da svolgere, dove esse abitano soltanto, dove, cioè, esistono, questa relazione sociale diventa la reciprocità totale. Gli esseri non sono intercambiabili, ma reciproci, o piuttosto sono intercambiabili perché sono reciproci. E per questo la relazione con l’altro diventa impossibile.

Ma già nello stesso ambito della relazione con l’altro che caratterizza la nostra vita sociale, l’alterità appare come relazione non reciproca, appare cioè situata al di là della contemporaneità. Altri in quanto altri [Autrui en tant qu’autrui] non è soltanto un alter ego; è ciò che io non sono. Lo è non a causa del suo carattere, o della sua fisionomia, o della sua psicologia, ma a causa della sua stessa alterità. È, per esempio, il debole, il povero, “la vedova e l’orfano”, mentre io sono il ricco o il potente. Si può dire che lo spazio intersoggettivo non è simmetrico. L’esteriorità dell’altro non è dovuta semplicemente allo spazio che separa ciò che concettualmente rimane identico, né a una differenza qualsiasi secondo il concetto che si manifesterebbe per mezzo dell’esteriorità spaziale. La relazione dell’alterità non è né spaziale, né concettuale. Durkheim si è lasciato sfuggire la specificità dell’altro quando si chiede per quale prerogativa altri [autrui] piuttosto che me è l’oggetto d’una azione virtuosa. Fra la carità e la giustizia la differenza essenziale non dipende forse dalla preferenza che la carità ha per l’altro, mentre dal punto di vista della giustizia nessuna preferenza è più possibile?


L’eros

Proprio nella vita civile si trovano le tracce di questa relazione con l’altro che bisogna cercare nella sua forma originaria. Esiste una situazione in cui l’alterità dell’altro appare nella sua purezza? Esiste una situazione in cui l’altro non possieda l’alterità soltanto come il rovescio della sua identità, in cui non obbedisca soltanto alla legge platonica della partecipazione, secondo la quale ogni termine contiene qualcosa dello stesso e proprio per questo anche qualcosa dell’altro? Non ci potrebbe forse essere una situazione in cui l’alterità caratterizzi un essere a titolo positivo, come un’essenza? Di che genere è l’alterità che non entra assolutamente nell’opposizione delle due specie del medesimo genere? Io penso che il contrario assolutamente contrario, la cui contrarietà non è modificata in nulla dalla relazione che si può stabilire fra esso e il suo correlativo, la contrarietà che permette al termine di restare assolutamente altro, è la femminilità.

Il sesso non è una differenza specifica qualunque. Esso si situa al di fuori della divisione logica in generi e in specie. Questa divisione non arriva certamente mai a raggiungere un contenuto empirico. Ma non è questo il senso in cui non permette di render conto della differenza dei sessi. La differenza dei sessi è una struttura formale, che però divide la realtà in un altro senso e condiziona la possibilità stessa di intendere la realtà in termini di molteplicità, contro l’unità dell’essere proclamata da Parmenide.

La differenza dei sessi non è neppure una contraddizione. La contraddizione dell’essere e del nulla conduce l’uno all’altro, non lascia posto alla distanza. Il nulla si trasforma in essere, ed è questo che ci ha condotti alla nozione di “il y a”. La negazione dell’essere avviene sul piano dell’esistere anonimo dell’essere in generale.

La differenza dei sessi non è neppure la dualità di due termini complementari, poiché due termini complementari presuppongono una totalità preesistente. Ora, dire che la dualità sessuale presuppone una totalità significa porre in partenza l’amore in termini di fusione. Il carattere patetico dell’amore consiste nella dualità insuperabile degli esseri. È una relazione con ciò che si sottrae per sempre. La relazione non neutralizza ipso facto l’alterità, ma la conserva. L’aspetto patetico del piacere sessuale sta nel fatto di essere in due. L’altro in quanto altro non è qui un oggetto che diventa nostro o che finisce per identificarsi con noi; esso, al contrario, si ritrae nel suo mistero. Questo mistero della femminilità – della femminilità che è altro per essenza – non si riferisce neppure a una qualche concezione romantica della donna misteriosa, sconosciuta o incompresa. Se, certamente, per sostenere la tesi della posizione eccezionale della femminilità nell’economia dell’essere, mi riferisco volentieri ai grandi temi di Goethe o di Dante, a Beatrice e all’Ewig Weibliches (eterno femminino), al culto della donna nella cavalleria e nella società moderna (che non si spiega evidentemente solo con la necessità di dare manforte al sesso debole), se, più precisamente, penso alle pagine mirabilmente ardite di Léon Bloy, nelle sue Lettres à sa Fiancée, non voglio ignorare le pretese legittime del femminismo, che presuppongono tutta l’esperienza acquisita dalla civiltà. Voglio dire semplicemente che questo mistero non deve essere compreso nel senso etereo di certa letteratura; che nella materialità più brutale, più sfacciata o più prosaica dell’apparizione della femminilità, non vengono eliminati né il suo mistero, né il suo pudore. La profanazione non è una negazione del mistero, ma una delle relazioni possibili con esso.

Ciò che mi sta a cuore in questa concezione della femminilità, non è soltanto l’inconoscibilità, ma un modo di essere che consiste nel sottrarsi alla luce. La femminilità è nell’esistenza un evento differente da quello della trascendenza spaziale o dell’espressione, che vanno in direzione della luce. È una fuga dinanzi alla luce. Il modo di esistere della femminilità consiste nel nascondersi, e questo fatto di nascondersi è appunto il pudore. Perciò questa alterità della femminilità non consiste in una pura e semplice esteriorità oggettuale. Non è fatta neppure di un’opposizione di volontà. L’altro non è un essere che incontriamo, che ci minaccia o che vuole impadronirsi di noi. Il fatto che è refrattario al nostro potere non implica una potenza più grande della nostra. È l’alterità che determina tutta la sua potenza. Il suo mistero costituisce la sua alterità. Precisazione fondamentale: io non pongo altri [autrui] innanzitutto in termini di libertà, caratteristica nella quale è implicito in partenza lo scacco della comunicazione. Poiché con una libertà non può esserci altra relazione se non quella della sottomissione e dell’asservimento. In ambedue i casi, una delle due libertà è annientata. La relazione fra padrone e servo può essere colta al livello della lotta, ma allora diventa reciproca. Hegel ha mostrato appunto in che modo il padrone diventa il servo del servo e il servo il padrone del padrone.

Ponendo l’alterità d’altri [autrui] in termini di mistero, definito a sua volta dal pudore, non la pongo in termini di libertà identica alla mia e alle prese con la mia, non pongo un altro esistente di fronte a me, ma pongo l’alterità. Esattamente come nel caso della morte, non è con un esistente che abbiamo a che fare, ma con l’evento dell’alterità, con l’alienazione. Non è la libertà ciò che caratterizza l’altro in primo luogo, da cui poi verrà dedotta l’alterità; è l’alterità ciò che l’altro ha in sé come essenza. Ed è per questo che abbiamo cercato questa alterità nella relazione assolutamente originale dell’eros, relazione che è impossibile tradurre in termini di potere e che non bisogna tradurre in quel modo, se non si vuole falsare il senso della situazione.

Stiamo descrivendo dunque una categoria che non rientra nell’opposizione essere-nulla, né nella nozione di esistente. Essa è un evento all’interno dell’esistenza, che è differente rispetto all’ipostasi, per mezzo della quale nasce un esistente. Mentre l’esistente si realizza nel “soggettivo” e nella “coscienza”, l’alterità si realizza nella femminilità. Termine di uguale dignità, ma di senso opposto rispetto alla coscienza. La femminilità non si realizza come essente in una trascendenza diretta verso la luce, ma nel pudore.

Il movimento è dunque qui inverso. La trascendenza della femminilità consiste nel ritrarsi altrove, movimento opposto al movimento della coscienza. Ma non è, per questo, inconscio o subconscio, e non vedo altra possibilità se non quella di chiamarlo mistero.

Mentre nel porre altri [autrui] in termini di libertà, nel pensarlo in termini di luce, siamo obbligati a confessare lo scacco della comunicazione, noi abbiamo confessato soltanto lo scacco del movimento che tende a impadronirsi di una libertà o a possederla. Solo mostrando ciò per cui l’eros differisce dal possesso e dal potere possiamo ammettere una comunicazione nell’eros. Esso non è né una lotta, né una fusione, né una conoscenza. Bisogna riconoscere il suo posto eccezionale fra le relazioni. È la relazione con l’alterità, con il mistero, cioè con l’avvenire, con ciò che, all’interno di un mondo, dove tutto è presente, non è mai presente, con ciò che può non esser presente quando tutto è presente. Non con un essere che non è presente, ma con la dimensione stessa dell’alterità. Là dove tutte le possibilità sono impossibili, là dove non si può più potere, il soggetto è ancora soggetto grazie all’eros. L’amore non è una possibilità, non è dovuto alla nostra iniziativa, è senza ragione, c’invade e ci ferisce e tuttavia l’io sopravvive in esso.

Una fenomenologia del piacere sessuale, che potrò appena accennare in questa sede – il piacere sessuale non è un piacere come un altro, poiché non è un piacere solitario come il mangiare e il bere –, sembra confermare i nostri punti di vista sul ruolo e sul posto eccezionale della femminilità, e sull’assenza di ogni sorta di fusione nell’eros.

La carezza è un modo di essere del soggetto, in cui il soggetto nel contatto con un altro va al di là di questo contatto. Il contatto in quanto sensazione fa parte del mondo della luce. Ma ciò che è accarezzato non è, a rigor di termini, toccato. Non è la dolce morbidezza o il calore della mano data nel contatto ciò che cerca la carezza. Questo cercare della carezza costituisce la sua essenza per il fatto che la carezza non sa che cosa cerca. Questo “non sapere”, questa confusione fondamentale è il suo carattere essenziale. È come un gioco con qualcosa che si sottrae, e un gioco assolutamente senza progetto né piano, non con ciò che può diventare nostro e identificarsi con noi, ma con qualcosa d’altro, sempre altro, sempre inaccessibile, sempre a venire. La carezza è l’attesa di questo avvenire puro, senza contenuto. Essa è fatta di questa fame crescente, di promesse sempre più ricche, che dischiudono prospettive nuove sull’inafferrabile. Essa si alimenta di una fame che rinasce all’infinito. Questa intenzionalità del piacere sessuale, intenzionalità unica dell’avvenire in quanto tale, e non attesa di un fatto futuro, è sempre sfuggita all’analisi filosofica. Freud stesso non dice della libido molto più della sua ricerca del piacere, allorché considera il piacere come semplice contenuto, a partire dal quale si comincia l’analisi, ma che non viene analizzato in se stesso. Freud non cerca il significato del piacere così inteso nell’economia generale dell’essere. La nostra tesi, che consiste nell’affermare il piacere sessuale come l’evento stesso dell’avvenire, dell’avvenire puro di qualsiasi contenuto, del mistero stesso dell’avvenire, cerca di rendere conto del suo posto eccezionale.

È possibile caratterizzare questo rapporto con l’altro che si realizza per mezzo dell’eros in termini di scacco? Ancora una volta, sì, se si adotta la terminologia delle descrizioni correnti, se si vuol caratterizzare la dimensione erotica con l’“afferrare”, il “possedere” o il “conoscere”. Non c’è nulla di tutto questo o c’è lo scacco di tutto questo nell’eros. Se si potesse possedere, afferrare e conoscere l’altro, esso non sarebbe l’altro. Possedere, conoscere, afferrare sono sinonimi di potere.

D’altronde, il rapporto con l’altro viene cercato generalmente in termini di fusione. Ho voluto appunto contestare che la relazione con l’altro sia una fusione. La relazione con altri [autrui] è l’assenza dell’altro; non assenza pura e semplice, non l’assenza del puro nulla, ma assenza in un orizzonte di avvenire, un’assenza che è il tempo. Orizzonte dove potrà costituirsi una vita personale in seno all’evento trascendente, ciò che abbiamo chiamato sopra la vittoria sulla morte, e di cui dobbiamo dire qualcosa per terminare.


La fecondità

Torniamo alla preoccupazione che ci ha condotti dall’alterità della morte all’alterità della femminilità. Dinanzi a un evento puro, dinanzi a un avvenire puro, che è la morte, dove l’io non può potere nulla, cioè dove non può più essere io, noi cercavamo una situazione in cui gli fosse tuttavia possibile restare io, e abbiamo chiamato vittoria sulla morte questa situazione. Ancora una volta, non si può qualificare questa situazione in termini di potere. In che modo potrò continuare a essere un io nell’alterità di un tu, senza dissolvermi in questo tu, e senza perdermici? In che modo l’io potrà restare io in un tu, senza essere tuttavia l’io che io sono nel mio presente, cioè un io che ritorna fatalmente a sé? In che modo l’io potrà diventare altro nei confronti di se stesso? Questo è possibile in un modo soltanto: con la paternità.

La paternità è la relazione con un estraneo che, pur essendo altri [autrui], è me; la relazione dell’io con un me stesso, che è tuttavia estraneo a me. Il figlio infatti non è semplicemente opera mia, come un poema o come un oggetto da me costruito; non è neppure mia proprietà. Né le categorie del potere, né quelle dell’avere sono in grado di designare la relazione col figlio. Né la nozione di causa, né la nozione di proprietà permettono di cogliere il fatto della fecondità. Io non ho mio figlio; io sono in qualche modo mio figlio. Solo che le parole “io sono” hanno qui un significato differente rispetto al significato eleatico o platonico. C’è una molteplicità e una trascendenza in questo verbo esistere, una trascendenza che manca persino alle analisi esistenzialistiche più ardite. D’altra parte, il figlio non è un evento qualsiasi che mi accade, come, per esempio, la mia tristezza, la mia sventura o la mia sofferenza. Si tratta di un io, si tratta di una persona. Infine, l’alterità del figlio non è quella di un alter ego. La paternità non è una simpatia grazie alla quale io posso mettermi al posto del figlio. È per il mio essere che io sono mio figlio e non per la simpatia. Il ritorno dell’io a sé che comincia con l’ipostasi non è dunque senza remissione, grazie alla prospettiva di avvenire dischiusa dall’eros. Invece di ottenere questa remissione mediante la dissoluzione impossibile dell’ipostasi, la si realizza per mezzo del figlio. Non è dunque secondo la categoria della causa, ma secondo la categoria della paternità che si realizza la libertà e si compie il tempo.

La nozione di élan vital di Bergson che unifica nello stesso movimento la creazione artistica e la generazione – ciò che noi chiamiamo la fecondità – non tiene conto della morte, ma soprattutto tende verso un panteismo impersonalistico nel senso che non sottolinea a sufficienza la contrazione e l’isolamento della soggettività, momento ineluttabile della nostra dialettica. La paternità non è semplicemente un rinnovamento del padre nel figlio e la sua fusione con lui, essa è anche l’esteriorità del padre in rapporto al figlio, un modo di esistere pluralistico. La fecondità dell’io deve essere apprezzata nel suo giusto valore ontologico, ciò che non è ancora stato fatto mai fino a ora. Il fatto che è una categoria biologica non neutralizza per nulla il paradosso del suo significato, anche psicologico.

Ho cominciato con la nozione della morte, con la nozione della femminilità, sono approdato a quella del figlio. Non ho seguito un modo di procedere di tipo fenomenologico. La continuità del discorso è quella di una dialettica che parte dall’identità dell’ipostasi, dall’asservimento dell’io al sé e va verso la conservazione di questa identità, la conservazione dell’esistente, ma con la preoccupazione di liberare l’io nei confronti di sé. Le situazioni concrete che sono state analizzate rappresentavano la realizzazione di questa dialettica. Molti momenti intermedi sono stati saltati. L’unità di queste situazioni – la morte, la sessualità, la paternità – è apparsa fino a ora soltanto in rapporto alla nozione del potere che queste situazioni escludono.

Era questo il mio scopo principale. Mi premeva di far risaltare che l’alterità non è assolutamente l’esistenza di un’altra libertà a fianco della mia. Su quest’ultima ho un potere, mentre quella mi è assolutamente estranea, senza relazione con me. La coesistenza di diverse libertà è una molteplicità che lascia intatta l’unità di ciascuna; oppure questa molteplicità si riunifica in una volontà generale. La sessualità, la paternità e la morte introducono nell’esistenza una dualità che interessa l’esistere stesso di ciascun soggetto. L’esistere stesso si reduplica. La concezione eleatica dell’essere è superata. Il tempo costituisce non la forma decaduta dell’essere, ma il suo stesso evento. La concezione eleatica dell’essere domina la filosofia di Platone, nella quale la molteplicità era subordinata all’uno e in cui il ruolo della femminilità era pensato all’interno delle categorie di passività e di attività, era ridotto alla materia. Platone non ha colto la femminilità nella sua connotazione specificamente erotica. Non ha lasciato, nella sua filosofia dell’amore, alla femminilità una funzione diversa da quella di offrire un’immagine dell’Idea, la quale soltanto può essere oggetto d’amore. Il carattere tutto particolare della relazione dell’uno con l’altro passa inosservato, Platone costruisce una Repubblica che deve imitare il mondo delle Idee; fa la filosofia di un mondo della luce, di un mondo senza tempo. A partire da Platone, l’ideale della socialità verrà sempre cercato in un ideale di fusione. Si penserà che nella sua relazione con l’altro, il soggetto tende a identificarsi con lui, dissolvendosi in una rappresentazione collettiva, in un ideale comune. È la collettività che dice “noi”, che, rivolta verso il sole intelligibile, verso la verità, sente l’altro a fianco a sé, e non di fronte a sé. Collettività che si stabilisce necessariamente intorno a un terzo termine che fa da intermediario. Il Miteinanderseinè pur sempre anch’esso la collettività del “con” ed è intorno alla verità che si rivela nella sua forma autentica. È collettività intorno a qualcosa di comune. Perciò, come in tutte le filosofie della comunione, la socialità in Heidegger si ritrova all’interno del soggetto solo ed è in termini di solitudine che viene condotta l’analisi del Dasein, nella sua forma autentica.

A questa collettività del fianco a fianco, ho tentato di contrapporre la collettività dell’“io-tu”, non assumendola tuttavia nel senso di Buber, presso il quale la reciprocità è ancora il legame fra due libertà separate, e presso cui il carattere ineluttabile della soggettività isolata è sottovalutato. Ho cercato la trascendenza temporale di un presente verso il mistero dell’avvenire. Essa non è una partecipazione a un terzo termine, sia esso una persona, una verità, un’opera, una professione. È una collettività che non è una comunione. Essa è il faccia a faccia senza intermediario, e ci è fornita nell’eros dove, nella prossimità dell’altro, è integralmente mantenuta la distanza, il cui carattere patetico è fatto contemporaneamente di questa prossimità e di questa dualità.

Ciò che viene presentato come lo scacco della comunicazione nell’amore costituisce proprio la positività della relazione; questa assenza dell’altro è proprio la sua presenza come altro.

Al cosmo, che è il mondo di Platone, si oppone il mondo dello spirito, dove le implicazioni dell’eros non si riducono alla logica del genere, dove l’io si sostituisce allo stesso e altri [autrui] all’altro.


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Note

[1] Le Temps et l’Autre, apparso per la prima volta nel 1948, nel volume collettivo a cui l’autore stesso si riferisce poco sotto (il testo levinasiano vi compariva alle pp. 125-196; il volume fu pubblicato dalla casa editrice Arthaud, Grenoble-Paris), fu successivamente riedito in volume autonomo nel 1979 (Fata Morgana, Montpellier), con l’aggiunta della presente Prefazione. Il testo è stato ulteriormente riproposto in volume autonomo nel 1983 (Presses Universitaires de France, Paris) in un’edizione perfettamente conforme, anche nella numerazione delle pagine, a quella del 1979 [N.d.T.].

 

[2]  Ecco il testo integrale della nota preliminare in questione, che figurava a p. 125 del volume collettivo citato: “Nel rileggere il testo stenografico delle nostre conferenze, abbiamo avvertito le loro manchevolezze ancor più che nel momento in cui le pronunciavamo. Quanti punti dovrebbero essere sviluppati o preparati, quante affermazioni richiederebbero di essere ricollocate all’interno degli orizzonti dai quali sono state distaccate! Ma questo implicherebbe un libro e noi abbiamo scelto il male minore; senza resistere completamente alla tentazione di comunicare alcune idee che – soprattutto nelle ultime conferenze – ci stanno a cuore” [N.d.T.].

 

[3] Le negazioni che ricorrono nella descrizione di questa “relazione con l’infinito” non si limitano al senso formale e logico della negazione, non costituiscono una teologia negativa! Esse dicono tutto ciò che un linguaggio logico – la nostra lingua – può esprimere, con il dire e il disdire, della dia-cronia che si mostra nella pazienza dell’attesa, che è lo stesso... trascorrere interminabile del tempo, che non si riduce all’anticipazione (la quale sarebbe già una maniera di “render presente”), che non implica una rappresentazione dell’atteso o del desiderato (questa rappresentazione sarebbe una pura e semplice “presentificazione”). L’atteso, il desiderato sarebbero già termini; l’attesa e l’aspirazione sarebbero finalità e non rapporto con l’Infinito.

[4] Cfr. il nostro Autrement qu’être ou au delà de l’essence (1974) e, più in particolare, il nostro studio Dieu et la philosophie apparso nel 1975 in “Le Nouveau Commerce”, n. 30-31. Autrement qu’être ou au delà de l’essence (M. Nijhoff, La Haye, 1974) è stato tradotto in italiano con il titolo di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, da Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello, con un’Introduzione di S. Petrosino, dall’editrice Jaca Book di Milano nel 1983. Dieu et la philosophie è confluito successivamente in E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, pp. 93-127 (edizione italiana a cura di S. Petrosino dal titolo: Di Dio che viene all’idea, tr. it. di G. Zennaro, contenente anche un Colloquio con E. Levinas, a cura di S. Petrosino e J. Rolland, Jaca Book, Milano 1986) [N.d.T.].

[5] L’espressione francese autrui, pronome indefinito invariabile, che rifiuta in ogni caso l’articolo, sia quello determinativo che quello indeterminativo, indica nel francese corrente l’altro uomo, l’altro uomo in quanto tale, in quanto differente da me, in definitiva, il prossimo, come oggetto di considerazione giuridica o morale. Nella lingua filosofica di Levinas, dove assume i connotati di un vero e proprio termine-chiave, autrui, né determinato, né indeterminato, bensì indeterminabile o inafferrabile con gli strumenti del pensiero, è l’interlocutore del soggetto, dell’io, dello stesso, all’interno di una relazione etica sempre originariamente duale (non per nulla il suo nome deriva da una trasformazione del latino alter, che è propriamente un altro di fronte a uno solo, a differenza di alius, che è un altro di fronte a molti). Abbiamo tradotto costantemente autrui alla lettera, cioè con l’italiano altri, inteso come pronome indefinito invariabile di terza persona singolare riferito solo a persona, nonostante il suo impiego piuttosto infrequente nella nostra lingua, che, anzi, sembra particolarmente adatto a suggerire quel carattere di eccezionalità e di extra-ordinarietà che l’autore intende attribuire all’alterità umana. Il termine francese autre, che invece ammette sia l’articolo che il plurale, e indica, nella lingua corrente e nel lessico filosofico di Levinas, un’alterità molto più generica, essendo applicabile indifferentemente a persona o a cosa, è stato reso anch’esso costantemente alla lettera, con l’italiano altro (al singolare o al plurale, con o senza l’articolo determinativo o indeterminativo, a seconda dei casi). Ci è sembrato opportuno, comunque, segnalare sempre, fra parentesi quadre, il ricorrere nel testo del termine autrui, anche per dissipare l’ambiguità dell’italiano altri, che, in alcuni casi, cioè ove il contesto non offra indicazioni inequivoche, può essere confuso con il plurale maschile del pronome indefinito altro[N.d.T.].

[6] Espressione impersonale, composta dalla terza persona singolare del verbo avere (il a) e dal pronome avverbiale y(l’italiano ci), che, nel francese corrente, indica, globalmente, il corrispettivo del nostro c’è. Nella lingua filosofica di Levinas, a partire dal 1947 e un po’ in tutte le epoche successive del suo itinerario di ricerca, essa viene usata, oltre che nel suo senso corrente, anche in un significato del tutto particolare, che viene illustrato ampiamente alle pp. 15 e ss del nostro testo, assurgendo così al rango di vero e proprio “termine tecnico”. L’espressione è stata da noi lasciata costantemente in francese quando è usata nel suo senso filosofico, anche in considerazione del fatto che essa compare, in questo caso, sempre fra virgolette o in corsivo nel testo levinasiano, assumendo anche una forma grammaticalmente sostantivata (l’“il y a”, il “c’è”) [N.d.T.].

 

[7] La traduzione italiana della presente citazione shakespeariana e di tutte le altre che si presenteranno successivamente è esemplata soprattutto, dopo una verifica dell’originale inglese e delle più recenti versioni italiane, sulle scelte linguistiche implicite nella trasposizione francese del testo di Shakespeare. Questo permetterà al lettore italiano di cogliere con la massima precisione possibile il senso dell’uso particolare che l’autore fa del testo shakespeariano all’interno del suo discorso filosofico, senso che risulterebbe irrimediabilmente incomprensibile a partire da altre traduzioni autorizzate dallo stesso testo [N.d.T.].

[8]  Questa concezione del godimento in termini di uscita da sé si oppone al platonismo. Platone fa un calcolo quando denuncia i piaceri misti; essi sono impuri poiché presuppongono una mancanza che viene colmata senza che nessun guadagno reale sia registrato. Ma non conviene valutare il godimento in termini di profitti e di perdite; bisogna esaminarlo nel suo divenire, nel suo evento, in rapporto al dramma dell’io che si inscrive nell’essere, gettato in una dialettica. Tutta l’attrattiva delle nourritures terrestres, tutta l’esperienza della giovinezza si oppone al calcolo platonico.

[9] Cogliamo l’occasione per tornare su un punto trattato in questa stessa sede da Alphonse de Waelhens nella sua bella conferenza. Si tratta di Husserl. De Waelhens ritiene che la ragione che spinge Husserl a passare dall’intuizione descrittiva all’analisi trascendentale dipende dall’identificazione fra intelligibilità e costruzione; poiché la pura e semplice visione non è intelligibilità. Sono convinto, al contrario, che la nozione husserliana della visione implichi già l’intelligibilità. Vedere significa già rendere proprio e in un certo senso trarre dal proprio fondo l’oggetto che si incontra. In questo senso, la “costituzione trascendentale” non è altro che un modo di vedere in piena chiarezza. È un perfezionamento della visione.

[10]  La morte in Heidegger non è, come dice Jean Wahl, “l’impossibilità della possibilità”, ma “la possibilità dell’impossibilità”. Questa distinzione, che sembra un bizantinismo, ha un’importanza fondamentale.

[11]  In italiano nel testo [N.d.T.].

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Europa - 1946-1948
Pensiero
Emmanuel Levinas

è stato tra i massimi filosofi del Novecento, noto per il suo lavoro nell'ambito dell'esistenzialismo e della fenomenologia, e sul rapporto tra etica, metafisica e ontologia.

Pubblicato:
02-06-2022
Ultima modifica:
02-06-2022
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