From here to Eternit - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Installazione all'Hangar Bicocca, 2015.
Installazione all'Hangar Bicocca, 2015. | Copyright: Fred Romero / Flickr

From here to Eternit

Teorie e pratiche del post-industriale: sul filo d'acciaio che lega Dino Buzzati, Marc Augé e gli Einstürzende Neubauten.

Installazione all'Hangar Bicocca, 2015. | Copyright: Fred Romero / Flickr
Lara Gigante

una giornalista culturale che si occupa di arti visive contemporanee e linguaggi. Collabora con spazi indipendenti e artisti visivi nella redazione di testi critici e cataloghi. Ha scritto, tra l'altro, su Forme Uniche, ArtsLife e Nido Magazine.

Quando Marc Augè coniò i concetti di non luogo e surmodernità, probabilmente non pensava che oltre a definire nuovi spazi costruiti per un certo progresso economico, stava designando anche l’ispirazione per linguaggi futuri.
Spazi di transito, autostrade, svincoli, aeroporti, grandi centri di produzione industriale contrapposti ai luoghi antropologici, diventano oggetto di una cifra stilistica dalla fine degli anni ’70 ad oggi. Da interventi condizionanti dell’uomo sull’ambiente, detti antropici dalla geografia politica, a nuovi pantheon degli inferi terrestri che l’uomo prima erige, poi abita e infine abbandona. Macerie e rovine esercitano una fascinazione così delirante nell’uomo, da travasarsi nei suoi processi creativi guadagnandosi una propria narrazione, un epos. Molti gli araldi, ma pochi gli abili cantori e aedi, così non è inusitato trovare nel 1962 un intellettuale come Dino Buzzati, che presta la sua penna al manifesto programmatico del siderurgico, Il pianeta acciaio film documentario di Emilio Marsili, per la nascita dell’Italsider, dopo la fusione tra Ilva e Cornegliano, incubatore vivente del dominio del siderurgico.  

Tubi, rotaie, lamiere non c’è minuto della nostra giornata che non abbia a che fare con l’acciaio, l’acciaio ci copre, ci ripara, ci trasporta, ci difende, ci dà da bere, ci sostiene, viaggiamo nell’acciaio, mangiamo con l’acciaio, ci divertiamo con l’acciaio, lavoriamo con l’acciaio, il pianeta acciaio, il dio acciaio, il demonio acciaio, il mostro acciaio, l’imperatore acciaio, signore del mondo d’oggi, senza del quale non ci sarebbero treni né auto né grattacieli, senza del quale non saremmo più capaci nemmeno di respirare.”  

Il progresso sollecita l’immaginazione e l’illusione di una stabilità che estirpi la lentezza rurale in favore di un certo benessere. Una fiducia mal riposta, considerato che di lì a pochi decenni, il mostro Ilva, avrebbe definito il futuro infernale tenuto in serbo per i suoi accoliti. Il risultato: una massa di macerie che ingloba volumi e celebra scarti, in un catechismo perverso di moltiplicazione di non luoghi e soprattutto, negazione di vita.

Un’immagine che, al netto della singolare drammaticità di Taranto, accomuna tutti i margini sociali delle città e del suo infittirsi.


È quanto emerge anche da “Walkscapes: camminare come pratica estetica”, di Francesco Careri, che individua nella città, un caposaldo della cultura postindustriale, o meglio lo “spazio” abile a moltiplicarsi in volumi periferici. 

Sul finire del secolo, la città attuale viene letta attraverso le cosiddette transurbanze, cioè quelle parti della città rimosse, scartate o non controllate, che hanno prodotto un sistema di spazi vuoti, che possono essere visitati solo andando alla deriva”.

Contrapposti ai luoghi antropologici, i non luoghi producono l’alienazione degli individui sprovvisti di possibilità relazionali tra loro, al di fuori di quelle consumistiche. Si verifica un aumento smisurato di spazi, accelerazione di tempi e dilatazione di consumi, propri di una società sempre più complessa e stratificata, identificata con il concetto di eccesso detta, appunto, surmodernità.

Artwork su mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 2010.

Artwork su mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 2010. | Alan / Flickr

Il benessere artificiale che si sviluppa noncurante delle necessarie regolamentazioni ambientali, genera negli individui, un ambivalente sentimento di accettazione e repulsione, che si traduce in un rigurgito creativo proprio delle sottoculture nate sul finire degli anni ’70. La complessità del periodo trova la sua colonna sonora e la sua forma compiuta, oscillando tra una qualità di vita stentata e un senso di svuotamento contenutistico e politico.

Così la musica scivola in dissonanze aritmiche, andando incontro ad una esasperazione del suono patologica, vicina più ad un martirio e ad una conseguente catarsi, interprete esemplare dei sintomi di una società malata. Gli officianti di questa innovazione artistica sono i reietti proprio ai margini, tra le città più industrializzate dell’Inghilterra e della Germania. Ed è tra le maglie della società postindustriale che nascono progetti dai nomi già programmatici e con intenti di antagonismi performativi. Gli “Einstṻrzende Neubauten”, ovvero nuovi edifici che crollano, cantano il collasso, il rifiuto, il riciclo, affermando la marginalità di qua e di là dal muro. Il barocco della siderurgia e il rococò del poliuretano espanso forniscono le “materie prime” con cui suonare l’era della surmodernità. Pezzi di metallo, plastica, vetri, molle, catene, trapani e torce, sono la moderna filarmonica del gruppo. Un rumore visibile, una diretta della catastrofe in corso.

Le torture acustiche cedono il passo ad ulteriori azioni performative. La degenerazione passa attraverso il corpo, inquinando e attraversando le arti performative, come non aveva fatto mai: il disgusto, la noia, l’emarginazione sputano fuori altri gruppi e collettivi che usano i media artistici, per non trattenere le scorie radioattive della società in cui vivono. 

A Londra i “Throbbing Gristle” letteralmente: cartilagine palpitante, con il loro progetto “Coum Transmission” realizzano uno degli art act più radicali di sempre: materiali organici di ogni genere esibiti durante atti autolesionistici con lamette, chiodi arrugginiti e tutta una simbologia caratteristica della body art. Azioni che intendono sovvertire lo stato costituito, distruggendo i valori fondanti della società di massa, attaccandola per liberarla dalla morbosità. La ricerca visiva, affonda nella mescolanza alchemica tra arte, antropologia e sperimentazione e oltrepassa quel labile confine etico, in una iconoclastia degna figlia di divinità del caos di lovecraftiana memoria: “Azathot il dio cieco che gorgoglia e bestemmia al centro dell’universo”. Il suo traguardo è una trans-medialità di cui appariamo ancora debitori.

È in questo clima di rivolta contro una forma di lobotomia collettiva, indotta nella più nota cattedrale di consumo dell’epoca, il fast-food, che nasce Decoder. Il film, autoprodotto e underground, reca il segno di una visione allucinata e profetica, nella Berlino al culmine del suo separatismo freddo e alla vigilia dell’esplosione nucleare di Chernobyl. Le onde sonore utilizzate negli impianti in filodiffusione nei centri commerciali e nei fast- food, servono a controllare la mente con la muzak, un meccanismo di controllo sociale e che vuole manipolare le azioni degli esseri umani. I ribelli, gli stessi militanti dei gruppi performativi e artistici di quegli anni, tra i quali si scorge anche come protagonista una già ben nota Christiane F., un corroso e teleologico W. Burroughs, decodificano un “antimuzak”, per ribaltare il sistema. Dalle macerie di un processo in decomposizione, alla video-arte che celebra la nascita di un linguaggio nuovo, magnetico, informatico, apolide, invisibile. 

La moltiplicabilità convulsa sembra essere la cifra stilistica del postindustriale: non uno ma molti non luoghi. Sono ovunque, visibili, corrotti e squallidi si estendono dalle fabbriche fino ai quartieri vicini, costruendo un paesaggio apocalittico, insignificante e rumoroso. È così che la scoria postindustriale dilaga anche nella Philadelphia di David Lynch. La città che fa da sfondo al suo Eraserhead, è il centro propulsore di un incubo lucido, figlio dei fumi degli stabilimenti. Il protagonista agisce in uno scenario dove esterni ed interni delle case non mostrano differenze.  È l’implosione, il mostro ontologico che ha fagocitato tutto deformando, a sua immagine, anche le stanze, gli appartamenti, i palazzi, in una ossessiva sequenza di muri e mattoni, sottofondo rumore reiterato, vista fabbriche. L’uomo, come il protagonista, padre di una creatura deforme, affronta il suo gene marcescente e le propaggini di una riproduzione mal calcolata che si estende e feconda nel male. Il rapporto tra demiurgo e il suo creato, ormai feto, è all’acme della sua degenerazione, agisce come residuo nucleare. 

Una scena dal film Eraserhead, di David Lynch.

Una scena dal film Eraserhead, di David Lynch.

Una presunta destinazione del genere umano all’indefinito sembrava già formalizzarsi come epifania spettrale, da un’attenta lettura della realtà in fermento per l’avvento della “grande globalizzazione”, nel 1999 in La religione dei consumi di George Ritzer.

I postmodernisti sono del parere che il mondo contemporaneo sia sempre più caratterizzato dalla indifferenziazione: una crescente incapacità a distinguere tra gli oggetti e i luoghi, che si compenetrano tutti, implodono l’uno nell’altro.” 

Non tanto una profezia, quanto un riconoscimento di fenomeni prossimi: una imprevista fusione tra uomo e il suo creato artificiale. Concetto ancora meglio anticipato dall’implosione sociale postulata da Jean Baudrillard, che parla di questo agglutinamento quasi agognato dall’uomo.

È questo il margine entro il quale si consolidano visioni inclini, non solo sensorialmente, ma anche intellettualmente, ad un'attitudine deviata e deviante. Si prediligono scelte trasversali e oblique, dove si trovano compatte profezie terminali e paure ancestrali. Come specchio concavo di una società malata, i malesseri epocali e i fattori di crisi costruiscono nuovi archetipi e arrivano a vertici espressivi con una forza scatenante.

Anche l’arte visiva dilaga fuori con fare eversivo, reduce della prima avanguardia del dopoguerra, rifiuta gli spazi ufficiali e si autodisciplina a ridosso del centro delle città, riutilizzando edifici industriali abbandonati già obsoleti. Si inizia a creare una relazione tra l’oggetto artistico e lo spazio che lo circonda: l’ambiente artificiale e architettonico diventa elemento del processo artistico e  anche dell'allestimento dell’opera. “Arte ambientale”, un’ulteriore rifrazione del non luogo, a cui si vincola il processo artistico che tributa la sua vocazione e nomenclatura al sito in cui nasce: site specific. Lo scenario apocalittico della metà degli anni ’80 è una cornice duttile al punto che l’arte comincia a ricavarsi spazi tra resti e rovine, determinando quella che diventerà una grande tendenza mondiale. È l’ambiente a creare l’arte stessa, in un sistema di interdipendenza, di cui il non luogo si rende capace. Se uscire dai circuiti convenzionali era stato, già sul finire degli anni ‘60, una volontà ben precisa degli artisti negli Stati Uniti, negli anni ’70 e, soprattutto nei decenni seguenti, diviene un fenomeno di cambiamento socioculturale e di significativa ambivalenza. Da una parte, infatti, i recuperi di ex strutture industriali rimasti vuoti dopo la crisi del manifatturiero, comportano nuovi spazi di aggregazione culturale e di sperimentazione di arti, dall’altra sanciscono un legame irreversibile con “l’estetica” post- industriale.

Da Soho, a TriBeCa  fin nell’East Village negli anni Ottanta, questi spazi si configurarono come qualcosa di diverso, alternativo rispetto al neutrale allestimento bianco dei musei dando modo agli artisti di sperimentare. I muri, i soffitti e gli spigoli diventano l’opera d’arte, e come dice Brian O’ Doherty nei suoi i scritti contro il White Cube: “context as content”.

Fontana, Hangar Bicocca, 2017.

Fontana, Hangar Bicocca, 2017. | Anna Ferro / Flickr

Anche in Italia il numero elevato di ex edifici industriali, ancora oggi occupati da spazi artistici, è dovuto a un fenomeno di dismissione di stabilimenti produttivi, dei settori metallurgico e siderurgico, che lasciarono dei veri e propri vuoti nei quartieri cittadini. Durante gli anni ‘80, il problema, non compreso nella sua visione unitaria, porta all’esecuzione di singoli e maestosi progetti di riqualifica, slegati però dal contesto urbanistico della città. Solo negli anni ‘90 si inizia a studiare il fenomeno, predisponendo strumenti e piani operativi più congruenti. Si intuisce inoltre che il fenomeno non era compreso solamente nelle aree metropolitane ma al contrario, si manifestava anche nei piccoli-medi agglomerati urbani e che la dismissione non stava riguardando esclusivamente stabilimenti industriali ma anche ferrovie, porti e in genere, i nodi di comunicazione. Così abbiamo a Milano l’ex sede della Breda, luogo di produzione di macchine ferroviarie, agricole e anche aerei durante la prima guerra mondiale, diventata l'Hangar Bicocca spazio espositivo che ospita in via permanente l'immensa installazione di Anselm Kiefer, nonché mostre temporanee gratuite. Altri esempi sono l'ex Manifattura Tabacchi, diventata cineteca e museo, la Fabbrica del vapore nata dalle ceneri dell'ex Ditta Carminati, Toselli & C. che costruiva i tram della città, fino alle trasformazioni più recenti come il Museo delle culture (Mudec), recuperato negli spazi dell'ex Ansaldo (dove ci sono anche i laboratori della Scala). Anche Torino, che ha puntato molto sulla riconversione dei suoi stabili, vanta la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l'arte contemporanea, ex Fergat che produceva cerchioni per automobili, la Fondazione Merz, anch'essa dedicata all'arte contemporanea, che si trova nell'edificio che ospitava l'ex centrale termica Officine Lancia e le Officine Grandi Riparazioni, esempio di abilità a convertirsi come per la recente pandemia, prestando il suo spazio come presidio sanitario per le terapie sub-intensiva.

Per Venezia non si parla di fabbriche, ma di ex magazzini affiancati e disposti tra le rive del Canal Grande e del Canale della Giudecca. La Punta della dogana nella zona di Dorsoduro a Venezia nasce nel XV secolo e si chiamava Punta del sale. Sono moltissimi gli esempi e arrivano sino a Palermo con le sue officine Ducrot dove si realizzavano idrovolanti e aerei di guerra e che hanno ospitato le opere di Bob Wilson, Richard Long e Carsten Holler.

Installazione di Marzia Migliora, 2011.

Installazione di Marzia Migliora, 2011. | G. Sighele

Convertiti e riconvertibili questi non luoghi, ormai deputati a spazi culturali, scadono facilmente nella contraddizione perché da liberi sono divenuti ufficiali. Il pluralismo culturale rivoluzionario è minacciato da torsioni interne, perché istituzionalizzandosi rischia di essere normalizzato a fenomeno diluito in standard e diktat puramente estetici e soltanto formali. Tuttavia non luogo e surmodernità, noncuranti di questi conflitti, continuano ad infittirsi senza sosta alcuna, creando, producendo, consumando, disfacendo.

Come un nucleare urfaust, il “non luogo” fa da premessa ad una fine del mondo non bene annunciata, sodale in un patto con il diavolo, dalla sua prima comparsa prova e si sperimenta mai estinguendosi. Rinuncia al tempo rigenerandosi in periferie estensibili, reali o virtuali, abita confini non ben precisati. Figlio dell’abominio dell’uomo ne decreta una destinazione infelice con un pianeta giunto al collasso e all’esaurimento delle sue risorse, esaspera e occulta il futuro. Nella fulminante e sincretica visione dell’artista Marzia Migliora, il “non luogo” scrive il suo manifesto, distorcendo il titolo di un ben noto Nick Cave, e fa il suo annuncio programmatico: “from here to Eternit”.

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Globale - 1960-2020
Pensiero
Lara Gigante

una giornalista culturale che si occupa di arti visive contemporanee e linguaggi. Collabora con spazi indipendenti e artisti visivi nella redazione di testi critici e cataloghi. Ha scritto, tra l'altro, su Forme Uniche, ArtsLife e Nido Magazine.

Pubblicato:
24-09-2020
Ultima modifica:
25-09-2020
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