Il legame spezzato - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Il legame spezzato

In occasione dell'uscita di “Il giardino di Babilonia”, un ritratto di Bernard Charbonneau, pensatore radicale che si è interrogato sul dominio della tecnica, sulla devastazione dell'ambiente, sulla morte della natura e su un'artificializzazione incontrollata.

Matteo Moca

(1990) scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio e Il Riformista. Il suo ultimo libro è Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba).

Nel saggio La questione della tecnica, Martin Heidegger si interrogava su quale fosse lo statuto della tecnica e quanto questa rischiasse di figurare come un vero e proprio pericolo all'interno della relazione tra l'uomo e il mondo, descrivendo come una minaccia la distorsione che questa può generare in tale rapporto: «E tuttavia, proprio quando è sotto questa minaccia l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa maturare un'ultima ingannevole illusione. È l'illusione per la quale sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso». Qualche anno prima Heidegger, nelle importanti conferenze che tenne a Brema incentrate proprio sulla questione della tecnica come chiave per provare a comprendere il mondo che si trovava a vivere, «si sente in dovere – come sottolinea Franci Volpi – di lanciare l'allarme e reclamare una comprensione adeguata del fenomeno della tecnica» riflettendo, per esempio, sull'uomo moderno che si mostra abile nella costruzione di fabbriche e capannoni industriali, ma è incapace, almeno all'apparenza, di innalzare un tempio o costruire una chiesa. In queste riflessioni di Heidegger, che da questo punto di vista figura senza dubbio come un pensatore importante per una comprensione più ampia e articolata delle direzioni che sta prendendo il vivere contemporaneo, emerge bene come uno dei problemi principali che accompagnano l'uomo nell'asservimento della tecnica è la sproporzione tra ciò che è realmente e ciò che pensa di essere, come se per ovviare alla sua condizione di subalterno all'interno del mondo l'uomo ingannasse sé stesso vestendosi da «signore della terra» e dimenticando, o fingendo di farlo, ciò che è veramente.

Non moltissimi sono stati nella storia del pensiero gli scrittori e i teorici che hanno denunciato questa sproporzione dello sguardo dell'uomo sulla propria posizione nel mondo mettendo in luce come da questo rapporto distorto con il creato vengano fuori, di conseguenza, soprusi, violenze e, più in generale, un'esistenza basata solamente sul proprio tornaconto personale a discapito, e senza alcun interesse, delle persone più fragili, povere e sensibili. Anna Maria Ortese per esempio ha fatto di questa riflessione dolorosa uno dei capisaldi della propria opera narrativa e saggistica mettendo in luce le storture nel vivere comune che genera una simile concezione impropria dell'uomo rispetto alla sua natura, così come Simone Weil, capace di vivere sulla propria pelle questa sproporzione e di restituire in pagine luminose la possibilità di un pensiero differente in particolar modo per ciò che riguarda ciò che, in La persona e il sacro, viene definita la «responsabilità nei confronti di tutti gli esseri umani». Di questa costellazione fa anche parte Bernard Charbonneau, pensatore e insegnante francese nato nel 1910 e morto nel 1996, tra i fondatori dell'ecologia politica, sodale del sociologo e teologo francese Jacques Ellul (autore dell'importante Anarchia e cristianesimo, ma anche di libri sulla tecnica, come Il sistema tecnico. La gabbia delle società contemporanee, in cui Ellul denuncia come questo fattore determinante della società aggredisca la democrazia esaurendo le risorse e appiattendo le differenze) e convinto sostenitore della necessità di unire alla riflessione teorica la pratica di ciò che si professa (uno dei motivi per cui lascerà la rivista “Esprit” di Emmanuel Mounier). Grazie alla preziosa pubblicazione delle Edizioni degli animali di uno dei suoi libri più importanti, Il giardino di Babilonia (tradotto da Simona Mambrini), anche il lettore italiano potrà avviarsi all'interno del percorso filosofico di Charbonneau che in questi saggi si muove attraverso questioni assolutamente attuali e contemporanee con lo sguardo dei veri maestri, di coloro i quali sono in grado di esplorare, come pionieri, territori sconosciuti e di invitare il lettore curioso e appassionato a scoprirli insieme e a coltivarli.

Stampa di Ferdinand Knab (1886)

Stampa di Ferdinand Knab (1886)

Il giardino di Babilonia è infatti un invito continuo che Charbonneau rivolge al lettore affinché possa ritrovare la «prima voltità», per utilizzare una definizione di Bobi Bazlen, nei confronti della natura e di ciò che lo circonda, un libro che è testimonianza profonda e vissuta di ciò che è accaduto e di ciò che potrebbe accadere, e che ha la possibilità di spalancare itinerari nuovi che non possono che generare riconoscenza in chi li scopre al suo fianco. Pubblicato originariamente nel 1969, con riflessioni che già avevano trovato spazio in alcuni saggi dei decenni precedenti come Le sentiment de la nature, force révolutionnaire e Pan se meurt, Il giardino di Babilonia è un saggio che, come sottolinea Fofi nella sua prefazione al volume, esige dal lettore «diligenza e costanza, accostandolo a campi poco frequentati, allora ma anche oggi, dal singolo e da tutti, e però oggi più che mai fondamentali» perché si tratta di argomenti urgenti che riguardano tutta l'umanità. Anche Charbonneau infatti pone la sua attenzione sulla relazione tra l'uomo e la natura denunciando lo squilibrio che comanda la società umana in cui la civiltà industriale e tecnologica non permette all'uomo di stabilire quel rapporto autentico, equilibrato e sintonizzato con la natura, e lo fa senza alcuna idealizzazione di un passato mitico a cui tornare né rifiutando il progresso tecnologico. Ma tra queste pagine, che corrono fluttuanti, precise e prive di compromessi, non si trova alcun pietismo, né infruttuose riflessioni sulla salvaguardia della natura o vani pensieri su un ritorno confuso a una natura idealizzata: Charbonneau, da uomo di pratiche e non solo di teorie, disegna piuttosto un itinerario della società moderna, che sfocia ovviamene nella nostra contemporaneità, dove il rispetto della natura e la ricerca di una nuova e più fruttuosa relazione non si ferma alla necessità di evitare devastazioni e rovine, ma trova la sua forma più pura e profonda nella garanzia e nella difesa della libertà umana. Come sottolinea bene Daniel Cérézuelle, nella sua introduzione intitolata Il senso della terra in Charbonneau, cogliendo in pieno il nocciolo urgente di queste pagine, Charbonneau riconosce il potere «cosmico» della Natura e, di conseguenza, come questa vada oltre l'uomo che può distruggere sé stesso ma non può in alcun modo distruggere la natura che, a discapito di tutto, continuerà sempre a esistere: «la natura è invincibile; l'uomo, al contrario, e soprattutto l'uomo capace di libertà, è fragile».

Il breve testo che dà il titolo al volume, e che si pone in limine al libro come iscrizione poetica, si sofferma sul momento in cui per gli uomini inizia a esistere il concetto di natura, un sentimento, così lo definisce Charbonneau, che sorge quando il legame con il cosmo si spezza: «al principio la natura non esisteva. Nessuno ne parlava, perché l'uomo non se ne era ancora distaccato ed era incapace di concepirla. Individui e società facevano allora un tutt'uno con il cosmo. Una forza onnipresente, sacra perché invincibile, circondava ovunque la debolezza umana». Contemporaneamente, pian piano nel corso dei secoli e con ritmi diversi a seconda delle aree geografiche, il dominio della natura inizia a essere prerogativa dell'uomo e della scienza, «la terra si copre di case e il cielo di fumo» e la campagna comincia a figurare come luogo di fuga rispetto alla città: ma anche lontano dai centri urbani, ricomincia il desiderio di controllo dell'uomo dell'ambiente che lo circonda e la campagna si trasforma pian piano in uno status-symbol, luogo di replicazione, seppur sotto una cortina ingannevole, dello stesso rapporto impari tra uomo e natura. Scrive Charbonneau, che è molto attento a distinguere e raccontare i vari ruoli di chi nella società si occupa del paesaggio, di come cambia la funzione della geografia che da descrizione e profonda comprensione dell'esistente, rischia di trasformarsi in tecnologia e allora il geografo potrebbe alla fine soddisfare un desiderio di potere: «sventra la terra, sposta le popolazioni e, in quanto tecnico specializzato, verrà di conseguenza pagato e rispettato dallo Stato o dalle multinazionali», fino alla mutazione finale: «da semplice medico, il geografo diventerà allora un chirurgo e in futuro avrà a disposizione, a mo' di bisturi, la bomba H». Parlando della Francia, Charbonneau nota come la campagna stia perdendo la sua peculiarità e si stia trasformando in una «periferia rurale», più simile «a Aubervilliers che al Queens» poiché «la bellezza della natura o della campagna è fatta di spazi e ricchezze apparentemente sprecate e ormai tutto deve essere redditizio».

Il teorico francese inquadra questa serie di ragionamenti e letture dello spazio attorno a lui, che trovano dispiegamento in questo libro, attraverso una definizione particolarmente efficace, quella di «Grande Mutazione», intendendo con questa perifrasi l'insieme delle mutazioni che osservava verso la metà del Novecento, temi e questioni che oggi a noi appaiono di tragica e profetica urgenza, come appunto il rapido dissolversi degli ambienti naturali, ma anche la «tecnocratizzazione della vita sociale e politica, la trasformazione della cultura in un'industria dello spettacolo» o la funzione massimizzante della propaganda e dei mass media nell'indirizzare la mentalità delle persone. Si tratta di problemi urgenti che hanno a che fare con il crescente aumento del raggio d'azione degli uomini che porta da una parte alla crescita economica e alla produzione di beni, ma dall'altra si trasforma in un incremento degli apparati di potere sulla società e sul comportamento degli individui. Tra le pieghe e le diverse manifestazioni attraverso le quali la Grande Mutazione mostra le sue conseguenze sull'uomo, sulle sue organizzazione e sull'ambiente, Charbonneau descrive diversi luoghi che testimoniano plasticamente la deriva imboccata, come Venezia, Parigi o le città della Costa Azzurra, passate dal «turismo borghese al turismo di massa», con un aumento quindi vertiginoso dei numeri ma senza alcuna modifica nella capacità di accoglienza: così il viaggio diventa una produzione in serie che offre «ai suoi clienti solo l'ombra dello spettacolo di cui in passato godevano poche migliaia di ricchi viaggiatori». Pure nel viaggio quindi, che Charbonneau ben identifica come uno dei figli maggiori dell'industria del «tempo libero», si rintraccia quindi, soprattutto quando l'autore si sofferma su ambienti della campagna, la costruzione artificiale dell'uomo di un nuovo concetto di natura che non ha nulla a che fare con la sua entità ma è invece la prova del distacco dal Giardino di Babilonia, «qualche albero e dei fiori, caduti dalle mani di Dio e che gli uomini seppero un giorno raccogliere», rimpianto passato di un'unione mitica con la natura: non si rintraccia in questo alcuna vana nostalgia, perché, sottolinea Charbonneau, la natura non è un'invenzione dell'uomo, ma è «qualcosa che è nato spontaneamente dal profondo dell'uomo» ed è quindi parte di sé, non solo attracco sepolto da ritrovare, ma essenza stessa del vivere.

Nelle pagine finali del volume, Charbonneau non si tira indietro rispetto alle critiche che possono essere mosse al suo lungo e articolato ragionamento («chi mi ha seguito fin qui potrebbe pensare che sono incline all'esagerazione, ed è possibile che il corso degli eventi mi dia torto su questo o quel punto» scrive Charbonneau al quale, però, per molti diversi si deve dare ragione) e descrive il «sentimento della natura» come un segnale d'allarme rivolto al nostro corpo e al nostro spirito che ci avverte che è in gioco «l'elementare quanto l'essenziale» perché la natura nella sua essenza più radicale, questa una delle tesi centrali del libro, è garanzia di libertà. Rivendicare la natura è rivendicare una realtà che va oltre le forze e la comprensione dell'uomo, è qualcosa che si stacca dal sentimento di superiorità che l'uomo avverte, è l'invito, come scriveva Heidegger, a ripensare a costruire templi e chiese, a sfuggire al dominio della tecnica per immaginare un mondo diverso dove ogni ambiente non sia, semplicemente, un riflesso finzionale dell'umano. Si tratta quindi di un invito, come quello che con forza emerge dalle pagine di Anna Maria Ortese, dai romanzi e dai racconti dove non esiste una distinzione netta tra il reale e il fantastico, a inserire nuovamente tra gli strumenti umani l'immaginazione come rivendicazione di libertà e, aggiunge Charbonneau, «di una presenza spirituale e dunque fisica»: «come potremmo avere un'anima se non avessimo un corpo, se non potessimo più esercitare i nostri muscoli e i nostri sensi». Henry Corbin, filosofo e orientalista francese, nel suo Corpo spirituale e Terra celeste, si concentra sulla definizione di Mundus Imaginalis, intermediario tra il mondo sensoriale quello intellegibile, «un mondo ontologicamente reale come il mondo dei sensi e dell’intelletto, un mondo che richiede una specifica facoltà percettiva, facoltà che è una funzione cognitiva, un valore noetico, pienamente reale come le facoltà della percezione sensoria o dell’intuizione intellettiva». Provare ad abitare questo spazio liminale, che non deve essere confuso con l'immaginazione che porta invece alla «fantasia», sembra essere uno dei suggerimenti di Charbonneau per tornare a vedere la natura come elemento sacro che è «all'origine della nostra vita, fisica e spirituale», a non ridurre ciò che ci circonda «a uno spettacolo o a una riserva di energie e materie prime» e a prefigurare delle forme di comunità e relazioni diverse in grado di garantire una libertà diversa, più duratura e comunitaria.

Hai letto:  Il legame spezzato
Questo articolo è parte della serie:  Recensioni
Europa - 2022
Pensiero
Matteo Moca

(1990) scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio e Il Riformista. Il suo ultimo libro è Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba).

Pubblicato:
29-07-2022
Ultima modifica:
28-07-2022
;