L'unico animale sulla Terra - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Cefalopode
Cefalopode | Copyright: Ruth Hartnup / Flickr

L'unico animale sulla Terra

La newsletter culturale più discussa degli ultimi anni si è "evoluta" nel libro scritto a quattro mani da De Giuli e Porcelluzzi. "Medusa" è una narrazione complessa sul mondo di oggi, tra catastrofe, pluralità e speranza.

Cefalopode | Copyright: Ruth Hartnup / Flickr
Intervista a Matteo De Giuli e Nicoló Porcelluzzi
di Tiziano Cancelli
Matteo De Giuli

è senior editor del Tascabile di Treccani. Scrive per diverse riviste culturali, cartacee e online. Ha collaborato con Rai3 e Radio3.

Nicoló Porcelluzzi

è redattore del Tascabile di Treccani e autore di podcast. Ha scritto per Internazionale e altre riviste.

Tiziano Cancelli

si occupa per diverse testate di filosofia e culture digitali. È autore di How to accelerate. Introduzione all'accelerazionismo (Tlon, 2019). Vive a Roma.

Di fronte alla fine delle cose ci sono tre emozioni fondamentali: disperazione, rassegnazione, speranza. Medusa, prima newsletter e da pochi giorni anche libro, è una storia che si snoda attraverso queste tre emozioni: pandemie, roghi, alluvioni e catastrofi, in un alternarsi di consapevolezza e negazione, sono tutte tappe di un racconto di viaggio che dalle parole di Nicolò Porcelluzzi e Matteo De Giuli arriva al cuore di chiunque si trovi oggi a vivere in un mondo infetto, infinitamente complesso, difficile. Come sostenuto dal filosofo Timothy Morton, la crisi climatica è un iperoggetto: un conglomerato, forse infinito, di dati, rilevazioni e statistiche che si trasformano in pericoli lontani e disastri imminenti, disseminati in maniera caotica nello spazio e nel tempo. Di fronte all’enormità di quell’impensabile che è il cambiamento climatico, l’unico mezzo a disposizione per navigare questi tempi incerti è il fuoco del racconto: la creazione di una storia capace di restituire senso e prospettiva, di includere umani, animali, rocce, piante, funghi, batteri e tutte le forme di esistenza che insistono, resistono e non si rassegnano a scomparire docili nella notte. Medusa è un libro che tenta di dare forma all’ultimo rito collettivo rimasto, quello del raccontare la catastrofe in cui viviamo, ignari.

Tiziano Cancelli - Raccontare il cambiamento non è facile, ma ancor più difficile è unire due voci che raccontino l’evento che dà il via alla trasformazione. Com’è stato scrivere questo libro a quattro mani e quanto è stato difficile trovare una voce capace di rispecchiare contemporaneamente le vostre e quelle dei lettori?

Matteo De Giuli - La scelta di usare la prima persona singolare non è stata sofferta. Anzi, il momento in cui abbiamo deciso di unire le nostre due voci è stato anche il momento in cui ho "visto" per la prima volta il libro, in cui ho capito che saremmo riusciti a scriverlo, dopo anni che ci pensavamo e prendevamo appunti e riscrivevamo indici e percorsi che dopo un po' non ci convincevano più. All'atto pratico è stato semplice: ormai ci leggiamo e ci editiamo da tanti anni, e credo che i nostri stili si siano anche influenzati a vicenda nel tempo. Se riapro il libro, ci sono delle parti che non saprei dire da chi sono state scritte. Aggiungici poi che usare questa voce unica per un saggio narrativo sull'Antropocene, la crisi climatica, il rapporto con il non umano, credo che abbia avuto un effetto benefico, che non ci aspettavamo: usare la prima persona singolare comune ha fatto sì che nessuno di noi due potesse costruire il proprio io, non c'è il personaggio narcisistico vero-ma-fittizio dell'autore che è tipico di questo tipo di libri, c'è una sorta di dissoluzione dell'ego che però mi sembra preservi la parte più intima ed esistenziale dei nostri pensieri, e quindi i dubbi, le paure, la curiosità, il risentimento.

Cattlefish

Cattlefish | Richard / Flickr


TC - Scrivere un libro a quattro mani necessità una dose di equilibrio da non sottovalutare: in un passaggio del libro citate la famosa annotazione di Kafka sulla dichiarazione di guerra fra Russia e Germania. Dove, se c’è, vedete il punto di equilibrio fra panico escatologico e lezioni di nuoto? È davvero ancora possibile parlare di equilibrio in un mondo che, cognitivamente, crolla?

MDG - Usiamo quella citazione dai diari di Kafka (“La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio, lezione di nuoto”) per raccontare l’inevitabile paralisi, emotiva e di pensiero, che colpisce chiunque davanti alla Storia, quando le vicende personali e quotidiane finiscono schiacciate dalle guerre, le pandemie, i timori per la fine del mondo. In generale il concetto di equilibrio mi sembra troppo spesso un’illusione. Sul Tascabile abbiamo pubblicato qualche tempo fa un articolo di Marco Ferrari che spiega perché non si possa davvero parlare di equilibrio neanche nelle scienze naturali, che smonta insomma la retorica dell’“equilibrio della natura”, termine abusato che è in realtà più che altro una sorta di versione ecologica dell’invenzione della tradizione. Perché tutto è sempre in divenire, anche negli ecosistemi. La stessa cosa vale nella vita delle persone: non esiste un equilibrio che non sia instabile, locale, destinato a mutare. Qui dovrei citare Eraclito ma mi viene più naturale citare Battiato e Sgalambro che citano Eraclito... “passano gli anni, i treni, i topi per le fogne, i pezzi in radio, le illusioni, le cicogne… cambiano i regni, le stagioni, i presidenti; le religioni, gli urlettini dei cantanti”.

La crisi climatica sta già stravolgendo gli equilibri a cui eravamo abituati negli ultimi decenni. Con ogni probabilità, soprattutto nei paesi ricchi, si dovrà accettare di vivere un po' meno comodi, lo stile di vita delle persone cambierà. Ma la fine del mondo c’è sempre stata, come diceva Ernesto De Martino, padre dell’antropologia italiana, che citiamo molto nel libro. La Storia è fatta di apocalissi culturali, di mondi che finiscono. Proprio in questi giorni sto ascoltando un podcast storico interessante, di Luca Misculin, sul collasso delle società mediterranee nel 1200 a.C di cui si sa ancora poco. Anche per questo abbiamo aggiunto la parentesi nel sottotitolo: storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo). Dalla fine di un mondo può ancora nascere qualcosa. La crisi climatica sta portando danni irreversibili alle altre specie animali e vegetali, oltre che a milioni di esseri umani, danni che bisogna mitigare e fermare il prima possibile, ovviamente. Ma gli attivisti sanno che non basterà limitarsi a tamponare i sintomi, che bisognerà risalire alle cause della patologia. Chiedono giustizia climatica, cambiamenti sociali, ridistribuzione delle risorse e del benessere. Di solito gli viene risposto che sono ingenuità giovanili, obiettivi vaghi, utopistici e irrealizzabili, ma in fondo tutti i movimenti che hanno cambiato la storia si sono fissati obiettivi che fino a quel momento sembravano irricevibili.

TC - Il libro è il frutto di anni di lavoro e studio che provengono dalla newsletter di Medusa; dare a questi temi la forma di un libro è stato come vederli per la prima volta?

MDG - Per noi è stato molto naturale, perché quattro anni fa abbiamo aperto la newsletter proprio come laboratorio di scrittura. Sapevamo sin da subito che avremmo fatto un libro, e sapevamo che non volevamo una semplice raccolta dei numeri della newsletter, non avrebbe avuto senso. Così negli anni abbiamo pubblicato prove, schegge, tentativi: ogni numero della newsletter era una potenziale pagina del libro, anche se forse non sembrava così agli iscritti (perché nella newsletter alla fine scrivevamo quello che ci andava in quel momento, non siamo andati in nessun ordine logico o tematico). Poi quando ci siamo sentiti finalmente pronti per il libro abbiamo radunato molte delle cose che avevamo già scritto – dopo averne scartate molte altre –, le abbiamo limate, corrette, riscritte, intrecciate, riordinate secondo un filo rosso e abbiamo completato il discorso, e quindi il libro, con quello che serviva a chiudere i buchi nella narrazione (e mancava ancora molto). Da fuori può sembrare un percorso di ingegneria inversa tortuoso, un po’ folle. Forse lo è. Ma ci ha aiutato a giocare e allenare lo sguardo, cambiare idea sulle cose, cambiare stile e approcci, e nel frattempo ci siamo trovati a crescere assieme a una comunità di lettori che in quattro anni è diventata piuttosto grande per un progetto tutto sommato “indie” come il nostro, e con un approccio poco giornalistico, e su un tema non proprio digeribile. In generale non so se sia un metodo di scrittura che consiglierei a chiunque, ma per noi per questa volta è stato anche utile, forse a maggior ragione per far sedimentare temi così complessi.

TC - In un passaggio del libro parlate della necessità di mostrare le regole d’ingaggio della società, quanto sono cambiate secondo voi queste regole alla luce degli ultimi due anni?

NP - È una domanda molto utile, e molto difficile. La pagina del libro a cui ti riferisci cerca di rispondere a un’altra domanda difficile, ovvero, quale letteratura può aiutarci, in mezzo a questa confusione? Una letteratura capace di ricostruire gli anni che abbiamo appena vissuto ha bisogno di tempo, di distanza per trovare il giusto peso e la giusta misura dei fatti; tutto sta in quel “giusto”: dev’essere sindacato da chi scrive. Come MEDUSA ci troviamo coinvolti – volentieri – nella temperie di Not, un editore (e una rivista, e quindi una comunità di lettori, nel caso di Not molto presenti) che vive di un’estetica precisa; per ragioni di spazio, semplifichiamola come acida e weird, strana insomma, e uncanny (cioè “perturbante”, la parola d’ordine della Letteratura Fantastica italiana, come in accademia è sempre stato chiamato il weird). Ecco, anche nel caso degli anni pandemici, la mia sensazione è che la letteratura weird, ma anche fantascientifica tout court, sia molto più pronta e prona a raccontare l’indicibile, l’indicibile della minaccia invisibile e irreale del virus, le coreografie frenetiche di società sconvolte, eccetera eccetera. Ma non si tratta della produzione letteraria che, in linea di massima, preferiamo. Siamo dei noiosi che preferiscono il romanzo borghese a China Mieville: lì dentro ci troviamo più realtà, psicologica prima di tutto. Cito un pezzo del libro al volo, per riprendere la tua domanda:

“Lo scrittore preferito di Engels era Balzac, non Černyševskij, che scriveva il suo prezioso Che fare? chiuso in un carcere siberiano: in altre parole, per raccontare la realtà – e trasformarla – la letteratura non deve essere costretta all’apologia marxista, alla beatificazione anticapitalista, anzi; deve mostrare le regole d’ingaggio per quello che sono, cioè la coreografia sociale per come appare, con le sue storture, le sue certezze feroci, le sue assurde convenzioni.”

Tutto questo discorso, com’è ovvio, si è limitato alla letteratura, escludendo altre forme collettive di risposta, come serie Netflix scritte da un algoritmo, la nicchia dei podcast indie, i rave... Noi, in fondo, abbiamo scritto un libro perché ci occupiamo di libri.

Limacus flavus

Limacus flavus | Jacinta Lluch Valero / Flickr

MDG - In generale diffidiamo della letteratura che dice di avere uno scopo.  Ci siamo accorti che gli scrittori che citiamo di più nel libro sono Paolo Volponi, Anna Maria Ortese, Gadda... italiani del dopoguerra che scrivono, anche, del rapporto tra umano e non umano, ma non lo fanno in maniera programmatica, non usano la natura come un’etichetta, o Un Tema. In più sono scrittori che vivono una trasformazione – il Boom italiano, la grande accelerazione, il passaggio da una civiltà contadina alla modernità, l’industria – che è la radice dei cambiamenti che stiamo vivendo oggi.

NP - Detto questo, facendo il punto sulla risposta, non abbiamo ancora risposto alla parte centrale della tua domanda: come stanno cambiando le norme sociali, le abitudini, negli ultimi due anni? Non abbiamo un’idea precisa di questi cambiamenti ma, come tutti, certi giorni ci sembra di vivere una realtà che fa sembrare 1984 un libro per bambini, tra controlli biometrici, coprifuoco, e neolingue mediatiche nate per indorare pillole, simulare e dissimulare, rassicurare terrorizzando. Altri giorni, magari con un po’ di sole, magari al parco in mezzo a degli sconosciuti, ci tenta una certa tenerezza per il genere umano, per le sue storture che non cambiano mai, di epoca in epoca.

Borrelia hermsii

Borrelia hermsii | NIH / Flickr

TC - Trovo che una delle parti più ispirate del libro sia quella che affronta la questione animale: perché secondo voi è ancora così difficile legare la questione animale al disastro climatico?

NP - Forse è una questione culturale – ma intendo: del mondo culturale e dei media –, perché di ricerche e pubblicazioni che intrecciano le due questioni ce ne sono. Se si raccontassero di più, arriverebbero anche dove hanno più peso, nelle scuole. Ci troviamo a citare spesso un saggio di Elizabeth Kolbert, per esempio, che consigliamo anche in questa sede: La sesta estinzione. Leggendolo, ed è un libro adatto a tutte e tutti, si raccolgono una serie estenuante di prove dell’intreccio tra emergenza climatica (scioglimento dei ghiacciai, acidificazione degli oceani, riduzione degli habitat, contaminazione delle risorse idriche, eccetera) e la scomparsa di migliaia di specie animali ogni anno che passa. Parlare di animali non significa parlare di qualcosa di altro, delle lune… lo scriviamo anche nel libro, una certa idea dell’animale che si accompagna da sempre a una certa idea di dominio umano sul pianeta  – gli animali come esseri inerti e stupidi, al mondo per essere sfruttati – è un corollario del capitalismo fallocratico colonialista, certo, che trova appiglio però in una risposta al trauma delle nostre origini, buie e inconcepibili: a me viene sempre in mente una citazione di Meneghello, dove si immagina di fare il telefono senza fili con i suoi antenati… fino ad arrivare al Meneghello-scimiotto, che avrà sempre un figlio capace di capirlo. Ci crediamo più intelligenti degli animali senza sapere cosa sia, davvero, l’intelligenza; il mondo naturale la nasconde e declina in tutto quello che ci circonda.

Cerambicidi

Cerambicidi | Hafiz Issadeen / Flickr

TC - Sempre parlando del rapporto fra esseri umani e altri animali: seguendo Safina sostenete la necessità di invertire l’equazione in base alla quale ci diciamo umani, non la razionalità ma il suo contrario, la stravaganza e l’invisibile. Che forma assume quest’inversione nella vita di tutti i giorni?

NP - È una bella domanda, di quelle che meriterebbero più spazio, più tempo. La nostra sopravvivenza dipende da costruzioni sociali, questo lo sappiamo: sappiamo anche che gli animali non sono così diversi, da noi (il gruppo serve a proteggersi, cibarsi, imparare i trucchi). Uguagliare però un alveare a – per esempio – una chat di Twitch mi sembrerebbe una pessima idea: siamo l’unico animale sulla Terra (che tristezza formulare una premessa del genere… ma è così) che si è dimostrato capace di costruire reti meta-simboliche, dove i simboli stanno per altri simboli, dove il linguaggio mostrandosi nasconde spesso quello che vuole intendere. Riprendo quella pagina del libro: pensiamo a internet, al gaming, alle “apericene”: siamo (uso un plurale che include gli autori dell’articolo e i lettori di Singola) decisamente stravaganti. Però poi c’è l’invisibile. C’è quella frase di Wittgenstein sui leoni, cosa direbbero se potessero parlare… forse parlerebbero di cibo tutto il giorno. Le costruzioni sociali complesse ci permettono di fare discorsi forse un po’ più interessanti, curiosi, a volte graziati da una strana speranza poetica… Ecco, ci auto-appendiamo a qualcosa di invisibile, che è la nostra differenza dagli animali, che sono uguali a noi.



TC - Le città sono i luoghi più popolati del pianeta, e quotidianamente danno forma alla vita di miliardi di persone: secondo voi è davvero possibile ripensare questi luoghi in maniera diversa e più selvaggia o forse non resta che accettare l’impossibilità di trasformarli e quindi guardare a ciò che sta fuori da essi?

NP - Cosa intendiamo per selvaggio? Le città nascono per fuggire dal selvaggio; a dirti la verità, nei mesi invernali la trovo un’ottima idea. Questa fuga ovviamente comporta un accumulo di sprechi e intossicazioni, una realtà desolante, problemi. Per ripensarle tocca concentrarci sull’idea del “vivibile”, ascoltare chi lavora per un’aria più respirabile, del cibo sano a un prezzo popolare, un’educazione che non abbandona nessuno. E queste, nel linguaggio politico e mediatico e aziendale, che ormai si soffocano nell’intreccio, sono le “mission”, le “sfide che ci aspettano” nei prossimi decenni: sono “temi” che “fanno da volano” a profonde trasformazioni dello spazio urbano. Sto usando la lingua di plastica per scherzare di queste semplificazioni ma, per quanto logore, dietro al vuoto di queste parole c’è il vero. La città non smette mai di trasformarsi, è il palinsesto delle evoluzioni sociali. Invece di una resa, allora, vedo (o mi piace vedere?) la città come un campo di conflitti distribuiti a livelli quasi corpuscolari, dal palazzo che rifiuta la telecamera del controllo facciale al municipio che pianta qualche albero in più, al consigliere che protesta contro le piste ciclabili… Che ci piaccia o meno, il futuro sembra prevedere città sempre più grandi, più popolose: sono i nodi dove si accumula capitale, dove la provincia (anche molto lontana) investe i suoi averi, che siano i figli o i mutui per le case da affittare. Forse, nei prossimi decenni, vivere in città o farne a meno diventerà una questione etica; forse invece, come oggi, ci guiderà il caso, che spesso è il lavoro.

TC - Come spiegate bene, viviamo intrappolati fra il sentimento di un collasso in corso e la paura di riconoscerlo a pieno. Vedete un’uscita da questo vicolo cieco? E se sì, quali pratiche di con-vivenza con il collasso riuscite a individuare?

MDG - Mi viene da rispondere che non abbiamo soluzioni, abbiamo in generale poche certezze. Medusa è un libro pieno di dubbi e contraddizioni, e sono felice sia uscito fuori così. È un libro anche impegnato se vuoi, ma non è un libro prescrittivo, non è un manifesto politico.

NP - MEDUSA stessa, intesa come newsletter e progetto multidisciplinare, è la migliore pratica che siamo riusciti a mettere insieme, finora.

Galla su una foglia di quercia

Galla su una foglia di quercia | hedera.baltica / Flickr


TC - Credo che l’ostacolo più grande davanti alle trasformazioni sia il dolore, come vivete il vostro?

NP - È anche vero che il dolore prende molte forme; quella che spesso mi disturba, e che cerco di combattere, è la nostalgia. Forse è soltanto una proiezione delle mie faccende, ma temo le distorsioni che la fissazione nostalgica possa trascinarsi nel discorso politico; è qualcosa già in atto, ma potremmo essere soltanto nella sua fase embrionale. Il corpo si difende dal dolore assumendo una postura che è detta antalgica. Si accuccia: poi però bisogna alzarsi e andare a fare due passi.

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Italia - 2021
Pensiero
Matteo De Giuli

è senior editor del Tascabile di Treccani. Scrive per diverse riviste culturali, cartacee e online. Ha collaborato con Rai3 e Radio3.

Nicoló Porcelluzzi

è redattore del Tascabile di Treccani e autore di podcast. Ha scritto per Internazionale e altre riviste.

Tiziano Cancelli

si occupa per diverse testate di filosofia e culture digitali. È autore di How to accelerate. Introduzione all'accelerazionismo (Tlon, 2019). Vive a Roma.

Pubblicato:
11-10-2021
Ultima modifica:
12-10-2021
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