La casa sconosciuta - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Il deserto bianco, Egitto.
Il deserto bianco, Egitto. | Copyright: CharlesEi1 / Flickr

La casa sconosciuta

Psicologia della trasformazione. Solastalgia e forme di adattamento al collasso dell'ambiente naturale.

Il deserto bianco, Egitto. | Copyright: CharlesEi1 / Flickr
Giuseppe Luca Scaffidi

si interessa di città, ecologia e libri. Suoi testi sono stati pubblicati su alcune riviste, tra cui Not, Il Tascabile, The Submarine, menelique, Jacobin, Dinamopress e The Vision. Ha collaborato con la sezione Tuttogreen de La Stampa e, attualmente, scrive soprattutto su queste pagine e sul blog di Kobo.

Nel 2003, il filosofo ed esperto di sostenibilità ambientale Glenn Albrecht, interessato a fenomeni “psico-terratici” (ossia alle relazioni che intercorrono tra ecosistema e salute umana) si trovava presso la Upper Hunter Valley per portare avanti la propria attività di ricerca sulle popolazioni native di quei luoghi: in particolare, la sua indagine era focalizzata sugli effetti che determinati fenomeni, come la siccità a lungo termine e l'implementazione dell’attività mineraria su larga scala, avrebbero potuto produrre negli equilibri psichici delle comunità del Nuovo Galles del Sud, la più popolata divisione amministrativa dell’Australia; col proseguire degli studi, Albrecht si rese conto che non esisteva alcuna nozione sufficientemente idonea a descrivere la sensazione di spaesamento che quelle comunità stavano provando nel venire costrette ad osservare passivamente i mutamenti che forze poste completamente al di fuori del loro controllo – in primis le attività d’estrazione portate avanti dalle grandi mining companies americane attirate dal boom del carbone – stavano imprimendo ai loro paesaggi.

Così, per colmare questo vuoto semantico, lo studioso australiano coniò il termine solastalgia – crasi che arriva dal latino solacium (conforto) e della radice greca algos (dolore) – allo scopo di indicare una “forma di disagio psichico o esistenziale causato dal cambiamento ambientale”. Al contrario della nostalgia – che, secondo la definizione fornitaci dal dizionario Treccani, si configura come il “Desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano” – la solastalgia appare come un qualcosa di più prossimo al concetto freudiano di unheimlich (perturbante) o a quello di weird coniato da Mark Fisher, profilandosi come un particolare tipo di angoscia che affligge coloro che subiscono - tremendamente - da vicino gli effetti più deleteri del climate change, proprio come nel caso delle comunità autoctone della Hupter Hunter Valley oggetto dell’indagine di Albrecht (ma un discorso simile potrebbe essere applicato per gli indigeni dell’Amazzonia funestata dagli incendi o, come vedremo poco più avanti, per gli Inuit alle prese con lo scioglimento dei ghiacciai): a causa dell’azione trasformativa e dei mutamenti ambientali che ne conseguono, luoghi che precedentemente venivano percepiti come familiari finiscono con il venire avvertiti come estranei da quelle stesse persone che li abitano.

In un’interessante intervista rilasciata al quotidiano britannico Guardian lo scorso 15 ottobre, Neil Kigutaq, un Inuit canadese proveniente dalla città di Iqaluit, ha evidenziato come le popolazioni dell’Artico – dove gli effetti del cambiamento climatico si manifestano in maniera più tangibile, all’insegna di temperature record foriere di risvolti distruttivi – versino costantemente in una congiuntura psichica del tutto simile alla solastalgia sapientemente tratteggiata da Albrecht: "Con un accesso limitato alla terra e all'acqua, le persone con un forte legame con la nostra cultura subiscono gli effetti della depressione stagionale". Per gli Inuit, la caccia, la pesca e il raccolto rappresentano attività alla base di equilibri ancestrali, dei portati culturali da preservare e trasmettere alle generazioni future per mantenere in vita tradizioni secolari, consuetudini stratificate poste alla base delle loro modalità d’organizzazione del vivere comunitario. Citando Franco Zavatti, “Per gli Inuit, l’incertezza, il cambiamento continuo, l’imprevedibilità, la trasformazione, sono dati costanti del loro ambiente di modo che le parole chiave restano l’osservazione, l’adattamento, la negoziazione e perfino l’improvvisazione […] La loro cosmologia animista e analogica li rende poco ricettivi alle ingiunzioni dei climatologi, biologi, ecologisti e altri esperti della fauna e dell’ambiente”. Il riscaldamento globale (che, per la maggior parte dell’Occidente avanzato, appare spesso come un qualcosa di lontano nel tempo, una problematica di cui pagheranno lo scotto le generazioni successive) sta lentamente sgretolando la base solidaristica su cui queste comunità hanno fondato le loro convenzioni sociali. La solastalgia è sostanzialmente questo: sentirsi privati della propria casa pur vivendovi ancora, l’estraneo che fa breccia nel familiare.

Marocco

Marocco | Muriel VD / Flickr

All’intuizione di Albrecht fa riscontro quella di Erik Pooley che, nel suo saggio The Climate War: True Believers, Power Brokers, and the Fight to Save the Earth (2010) ha impiegato l’espressione climate despair (letteralmente “depressione climatica”) per tratteggiare la sensazione di smarrimento che segue alla consapevolezza di vivere in un mondo sull’orlo della sesta estinzione di massa. Ulteriori terminologie, come eco-ansia (la paura cronica della rovina ambientale), eco-nichilismo, meteo-ansia e eco-depressione e eco-agnosia (che costituisce l’antitesi di questi concetti, indicando l’indifferenza nei confronti delle tematiche ambientali) sembrano condividere il medesimo assunto di fondo: esiste una discrepanza non trascurabile tra la nostra esperienza vissuta del mondo e la nostra capacità di concettualizzarlo e comprenderlo.

Una simile impossibilità di conciliazione è stata scandagliata in profondità dal filosofo ed ecologista britannico Timothy Morton che, nel suo saggio The ecological thought (2010), ha introdotto il concetto di Iperoggetto per descrivere realtà talmente complesse da non poter essere esperite (immaginate?) completamente dagli esseri umani, dispositivi che si configurano come "iper" in relazione a qualche altra entità, indipendentemente dal fatto che siano prodotti direttamente dagli esseri umani o meno. Morton ingloba nella macrocategoria degli iperoggetti il novero di quegli “eventi, sistemi o processi che sono troppo complessi, e troppo massicciamente distribuiti nello spazio e nel tempo, perché gli esseri umani possano comprenderli”, come la società umana, l’universo, la somma di tutto il materiale nucleare presente sulla Terra, il plutonio, l’uranio, il Capitale e, last but not least, il riscaldamento globale, l’iperoggetto più problematico e stratificato in assoluto.

Secondo Morton, “La nostra consapevolezza sempre crescente del riscaldamento globale mette in crisi un gran numero di idee inveterate e allo stesso tempo ne crea di nuove. La loro essenza è la nozione di coesistenza – in fin dei conti, ciò che sostanzialmente significa ecologia. Coesistiamo con forme di vita non-umane, così come con forme di non-vita, all’interno di una serie di gigantesche entità con cui pure coesistiamo: l’ecosistema, la biosfera, il clima, il pianeta, il sistema solare. Una serie di matrioske impilate. Balene dentro balene dentro balene”. Nella prospettiva di Morton, le questioni sollevate dal global warming sono talmente eterogenee e interconnesse tra loro – il lavoro degli immigrati, i diritti degli indigeni, la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza globale, le migrazioni climatiche – che è sostanzialmente impossibile focalizzarsi su una senza chiamare in causa tutte le altre. Ma che tipo di reazioni possono scaturire dalla mancata comprensione di un iperoggetto? È davvero possibile scendere a patti con tutta questa complessità?

Oceano, Sud Africa

Oceano, Sud Africa | Johannes Richter / Flickr

Quelli di Morton, Albrecht e Pooley sono soltanto alcuni dei tanti esempi di come, negli ultimi anni, la letteratura sul clima ci abbia abituati a familiarizzare con un concetto che, quasi senza rendercene conto, ha finito per fagocitare il dibattito ambientale contemporaneo: quello di catastrofe.

Termini come Antropocene (neologismo di origine incerta, derivato dalle parole greche anthropos, uomo, e koinos, recente, impiegato allo scopo di fotografare lo zeitgeist dell’era geologica attuale, in cui l’impatto dell’essere umano e il suo intervento sull’ambiente costituiscono elementi dominanti nelle modifiche climatiche e biologiche che il sistema-pianeta subisce) e Capitalocene (coniato dal sociologo inglese Jason W. Moore per descrivere un’epoca in cui i parametri più rilevanti che regolano gli ecosistemi terrestri non sono più biologici, ma economici: in questa prospettiva, quindi, i semi della tragedia non sarebbero da ricercare nell’attività umana astrattamente intesa, quanto piuttosto nell’intensificazione e nel consolidamento dei rapporti di capitale) che, negli ultimi anni, sono entrati a far parte del portato lessicale comune sino a colonizzare l’immaginario collettivo, sono accomunati dalla capacità di richiamare alla mente lo spettro di un’apocalisse imminente, l’avvento di un’estinzione di massa di fronte alla quale la nostra specie sembra in grado di opporre soltanto un generico senso di impotenza.

In un prezioso enunciato contenuto nell’introduzione alla bellissima raccolta di racconti sull’Antropocene Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende – un esperimento di mosaic novel nato da un laboratorio su scritture narrative e cambiamento climatico – scritta dal collettivo Moira dal Sito (anagramma di “Mario Soldati” e, al contempo, sofisticato rimando alla parola greca Μοῖρα, che significa “destino”) e recentemente pubblicata dall’editore romano Alegre, lo scrittore bolognese Wu Ming 1 (al secolo Roberto Bui, che ha curato l’antologia nell’ambito del progetto transmediale Blues per le terre nuove) riassume precisamente i connotati di questa peculiare forma di eco-pessimismo: “Il disastro climatico ci spinge all’incontro coi fantasmi del nostro territorio, ci fa accorgere di loro, ci dà occasioni per interrogarli”.

Il punto focale del discorso è proprio questo: acquisire la consapevolezza che un territorio scomparirà per sempre – proprio come il basso ferrarese da cui prendono corpo vicende del libro: un luogo che, nel giro di qualche decennio, sarà completamente sommerso dall’acqua, inghiottito dall’innalzamento dell’Adriatico e dalla sua letale spinta verso l’entroterra – ci costringe, inevitabilmente, a fare i conti con i fantasmi di quel territorio.

In un avvenire ormai prossimo, buona parte dei luoghi in cui siamo nati, cresciuti o che abbiamo eletto come epicentro del nostro vivere quotidiano si trasformeranno in un mosaico desolante di spazi desertificati, dando sostanza a un caleidoscopio di immagini angosciose: paludi prosciugate, alvei abbandonati dai loro fiumi e poderi ridotti in polvere comporranno la triste scenografia ambientale di un futuro che, fino a qualche tempo addietro, avrebbe rappresentato la materia letteraria perfetta per un romanzo di Philip K. Dick ma che, allo stadio attuale, è pericolosamente vicino a tramutarsi in realtà; insomma, la distopia non è più una questione di fantascienza: ha abbandonato il territorio della finzione e ha penetrato lo spazio del tangibile.

Cieli artici

Cieli artici | Paul Downey / Flickr

Nell’arco dell’ultimo ventennio, grazie all’intensificazione degli studi sull’Antropocene, il nesso di causalità che lega salute mentale e cambiamento climatico è diventato oggetto di approfondimento per un numero crescente di ricercatori. La volontà di approfondire questi temi non deve stupire: al netto delle mistificazioni negazioniste veicolate, spesso in malafede, da nicchie più o meno legate a interessi particolari, l’opinione pubblica non è mai stata così persuasa della gravità della catastrofe ambientale come nella congiuntura odierna. Anche i dati a nostra disposizione sembrano confermare una rinnovata sensibilità per le sorti del nostro pianeta; giusto per citare alcuni esempi: un sondaggio condotto dall’Università di Yale nel 2018 ha rilevato che circa sei americani su dieci (il 62%) affermano di essere “abbastanza preoccupati" per il riscaldamento globale, mentre circa uno su cinque (il 21%) si considera “decisamente preoccupato”; una ricerca promossa dalla Washington Post-Kaiser Family Foundation ha certificato che il 57% degli adolescenti americani è spaventato dai cambiamenti climatici e solo il 29% si dichiara ottimista sulle sorti del clima. Con riferimento al nostro paese, un’indagine realizzata da SWG su un campione di 800 maggiorenni ha confermato come il clima occupi il primo posto tra le "situazioni o realtà che preoccupano maggiormente" il 51% dei soggetti intervistati (percentuale che sale al 64% per la Generazione Z, quella che ha beneficiato maggiormente della meritoria attività divulgativa e militante di Greta Thunberg), superando l’aumento delle diseguaglianze sociali (37%), la stagnazione economica (29%) e i grandi flussi migratori (28%).

Il cambiamento climatico è la sfida più urgente del nostro tempo: l'aumento delle temperature, le ondate di calore, le inondazioni, i tornado, gli uragani, la siccità, gli incendi, la perdita di foreste e ghiacciai, unitamente alla scomparsa dei fiumi e all’aumento della desertificazione, possono contribuire, direttamente o indirettamente, a creare i presupposti per vere e proprie crisi di panico: non a caso, episodi di depressione, pensieri suicidi, ansia e altri problemi di salute mentale sono stati riconosciuti come “condizioni sensibili al clima” anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO).

A conclusioni simili perviene anche il rapporto Mental Healt and our changing climate: impacts, implications and guidances, pubblicato dall’American Psychological Association, ha identificato un elenco di oltre dieci conseguenze psicologiche dovute al cambiamento climatico. La lista include un’estesa gamma di patologie, tra cui PTSD, depressione, impotenza, smarrimento dell'identità personale e professionale, vanificazione delle strutture di supporto sociale, perdita del senso di controllo e autonomia, esacerbare di sentimenti di impotenza, paura e fatalismo. Non dovesse bastare, uno studio condotto da un team internazionale di ricerca e incentrato sulle ricadute psicologiche dell’uragano Katrina ha evidenziato come, all’indomani della catastrofe, nelle zone colpite i suicidi e i tentativi di suicidio sono raddoppiati, mentre a una persona su sei è stato diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress. Inoltre, quasi la metà dei soggetti intervistati (il 49%) ha sviluppato sintomatologie di ansia o depressione.

Prendere coscienza di un dolore così esteso potrebbe creare le premesse idonee per stimolare una riflessione sui contraccolpi che scaturiscono dalla nostra incapacità di esperire gli iperoggetti – proprio come nei casi sopracitati degli indigeni della Hupter Hunter Valley e degli Inuit di Iqaluit, le cui ambientazioni domestiche vengono dj colpo sgretolate dall’azione trasformativa e distruttiva di una forza estranea incontrollabile – e, in seconda istanza, individuare risposte per alcuni quesiti inderogabili: come lenire quel terribile senso di spaesamento che proviamo nell’osservazione costante di un mondo sull’orlo della sesta estinzione di massa? Come preservare il nostro benessere psichico dalla consapevolezza di vivere su un pianeta infetto? 

Hai letto:  La casa sconosciuta
Globale - 2021
Pensiero
Giuseppe Luca Scaffidi

si interessa di città, ecologia e libri. Suoi testi sono stati pubblicati su alcune riviste, tra cui Not, Il Tascabile, The Submarine, menelique, Jacobin, Dinamopress e The Vision. Ha collaborato con la sezione Tuttogreen de La Stampa e, attualmente, scrive soprattutto su queste pagine e sul blog di Kobo.

Pubblicato:
02-03-2021
Ultima modifica:
02-03-2021
;