La tecnica della felicità - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Ritratto di Claude Lévi-Strauss
Ritratto di Claude Lévi-Strauss | Copyright: Thierry Ehrmann / Flickr

La tecnica della felicità

Un estratto da "Antropologia strutturale zero", di Claude Lévi-Strauss, recentemente uscito per il Saggiatore.

Ritratto di Claude Lévi-Strauss | Copyright: Thierry Ehrmann / Flickr
Claude Lévi-Strauss

(1908 - 2009) è stato un antropologo ed etnologo francese il cui lavoro è stato fondamentale per lo sviluppo delle teorie dello strutturalismo e dell'antropologia strutturale. Ha tenuto la cattedra di Antropologia sociale al Collège de France tra il 1959 e il 1982, è stato eletto membro dell'Académie française nel 1973 ed è stato membro della Scuola di studi avanzati in scienze sociali di Parigi. Ha ricevuto numerose onorificenze da università e istituzioni di tutto il mondo.

Pubblichiamo un estratto da Antropologia strutturale zero, di Claude Lévi-Strauss, recentemente uscito per il Saggiatore.

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Nessun altro gruppo umano suggerisce con maggior forza l’esistenza di leggi sociali quanto la società americana. I risultati spesso sorprendenti ai quali giungono le inchieste dell’Istituto Gallup sono meno il trionfo di una scienza nuova, che si riduce in realtà a metodi straordinariamente rozzi, quanto piuttosto la conseguenza naturale delle proprietà dell’ambiente sociale: in occasione dell’elezione presidenziale del mese di novembre, i due grandi quotidiani newyorkesi, il Times e il Tribune, i quali sostenevano rispettivamente Roosevelt e Dewey, hanno pubblicato due prime edizioni identiche che annunciavano la rielezione del presidente uscente, quando ancora solo il 10% dei suffragi era stato scrutinato; e il candidato repubblicano ha ammesso la sconfitta non appena è stato reso noto il primo quarto circa dei risultati. Si direbbe che negli Stati Uniti ciò che è valido per una parte lo sia ugualmente per il tutto. Senza nascondere l’aspetto superficiale di una conclusione tanto sbrigativa, è tuttavia vero che qui la vita del gruppo sembra essere diretta da un determinismo proprio che supera le coscienze individuali, e che l’individuo comprende più facilmente dall’esterno di quanto non faccia partendo dal proprio punto di vista interiore, attraverso uno sforzo di riflessione e di analisi. 

Questo primato del gruppo e dell’attività del gruppo non rap‐ presenta probabilmente un carattere differenziale della società americana, esso definisce qualunque vita sociale. Ciononostante, le acquisizioni culturali si sedimentano in una direzione e a un ritmo differente a seconda che si prendano in esame società di formazione recente o altre più antiche. In queste ultime, l’individuo offre sempre un terreno più ricco rispetto al proprio ambiente, mentre il movimento sociale sembra destinato a ricollocare continuamente il gruppo al livello dell’individuo che lo supera e lo giudica. Le società nuove presentano il fenomeno inverso: gli strati culturali si depositano più rapidamente e più densamente attorno alle istituzioni e alle attività collettive. Sono prima di tutto queste ultime a prendere forma, e le grandi cornici della vita sociale si consolidano prima che il ciclo degli arricchimenti individuali cominci a svilupparsi. 

Nonostante ciò, andremmo incontro a un grave errore se vedessimo negli Stati Uniti solo una società giovane. Giovane, l’America lo è probabilmente nella misura in cui essa si crea ogni giorno come una realtà originale; ma la lontana provincia dell’Europa, sul cui modello inizialmente ha cercato di costituire se stessa, non è ancora del tutto scomparsa. Alcune tradizioni, alcuni tipi di vita arcaici vi si conservano con più persistenza, talvolta, e fedeltà rispetto alle stesse regioni dalle quali si sono primitivamente trasferite. La civiltà americana si forma nell’incontro di due folklori. L’uno antico, di origine europea o creato sul posto nei primi secoli della colonizzazione: quello dei canti – inni, spiritual, nenie del Far West; quello delle feste – Thanksgiving, Christmas, Halloween; quello della vita rurale – Hillbillies, cowboy, popolazione dei bayou; e, dall’altro lato, il folklore sempre effervescente delle apocalissi urbane, con il suo slang che è ben più di un gergo, con le sue gesta autenticamente popolari della malavita americana – Damon Runyon, Raymond Chandler, Dashiell Hammett; con le sue credenze e le sue superstizioni – culti, riti della California moderna; con infine i suoi piaceri: swing hot; «Jitterbug» e boogie‐woogie; con i suoi movie, i suoi «burlesque» e i suoi crooner. Pur affondando sempre più i denti in questa doppia zona d’ombra, la civiltà americana resta ugualmente, e ancora oggi, sottomessa al fatalismo dell’esteriorità: talvolta meravigliata, talaltra spaventata, essa si scopre ogni giorno dal di fuori.

È solo in tale prospettiva che si può comprendere l’opposizione – una caratteristica probabilmente non esclusiva degli Stati Uniti, ma che qui emerge in maniera particolarmente evidente – tra la plasticità, spesso l’imprecisione, delle reazioni individuali, e la coerenza e la fermezza delle articolazioni collettive: l’ossatura della società americana è ancora all’esterno. Si spiegano così alcuni apparenti paradossi della vita americana riscontrabili negli ambiti più diversi: nella vita agricola, dove il contadino si nutre più volentieri di conserve che non dei frutti della propria terra, in quanto, prima ancora di cominciare a produrre il cibo, il sistema di preparazione e distribuzione che glielo restituirà è già stato messo in funzione; nella vita industriale e commerciale, dove la grande impresa ha meno l’apparenza dell’attenta ancella dedita al soddisfacimento dei desideri individuali che della depositaria della loro creazione, che ne plasma forme e tendenze, arrogandosi persino una funzione educativa generale; nella vita politica infine, dove il governo è su posizioni più̀ avanzate rispetto all’opinione pubblica. Il liberalismo americano, tanto audace all’apparenza, necessita di essere interpretato sulla base delle stesse direttrici, perché́, più didattico che rivoluzionario, esso traduce la volontà di disciplinare le reazioni informi degli individui in nome di un ideale collettivo vivo, piuttosto che una ribellione contro un ordine sociale desueto. 

Gli Stati Uniti di oggi vivono quindi ancora sotto il segno dell’estraneità a loro stessi; si potrebbe persino affermare che tale situazione tenda a rafforzarsi, dal momento che la consapevolezza del fenomeno è di apparizione del tutto recente, fenomeno che doveva essere percepito inizialmente per sviluppare tutte le sue potenzialità. Uno dei maggiori successi librari degli ultimi due o tre anni è una disamina della società americana contemporanea scritta da un’etnologa, Margaret Mead, maggiormente allenata allo studio delle tribù melanesiane piuttosto che a quello di una grande civiltà moderna. Il mondo scientifico non l’ha seguita, ma il grande pubblico l’ha accolta con entusiasmo e, nelle amministrazioni pubbliche, viene dato sempre più spazio agli etnografi e agli antropologi. Di conseguenza, gli studiosi più ascoltati sono quelli che si dedicano per l’appunto allo studio dei tipi sociali più lontani dal nostro, il cui approccio e la cui analisi offrono il maggior numero di difficoltà. E tuttavia il pensiero americano si impregna sempre più̀ della convinzione che ogni società, ivi compresa (e forse in primo luogo) la società americana stessa, offre alla coscienza individuale un insieme tanto irriducibile quanto le bizzarre consuetudini dei selvaggi dell’Oceania. L’uomo medio subisce inconsapevolmente questa eterogeneità del gruppo. L’americano colto e ottimista vede in una coraggiosa ricognizione del fenomeno la condizione preliminare per la ricerca delle soluzioni. 

Partendo da postulati tanto diversi rispetto a quelli ai quali siamo abituati, la filosofia sociale americana non può iscriversi all’interno delle stesse prospettive della nostra. Perché, se è il gruppo sociale a costituire una realtà oggettiva e resistente, e l’individuo colui nel quale si deve vedere il mediatore plastico e instabile, è all’individuo e non al gruppo che uno sforzo intelligente di miglioramento sociale deve riferirsi; se volessimo utilizzare il linguaggio della psicologia americana moderna, diremmo che il «condizionamento» deve farsi «dall’interno». Quand’anche ogni sistema sociale apparisse ugualmente irriducibile ed eterogeneo, sarebbe vano ricercare quale ne sia il migliore: tutti saranno cattivi, se l’individuo non riesce a crearvi un’atmosfera familiare. Fortunatamente, l’individuo può sempre essere modificato al fine di adattarsi al gruppo all’interno del quale è nato, qualunque sia la forma di quest’ultimo. Nel senso più largo del termine, possiamo pertanto affermare che il pensiero americano è conservatore. Esso vuole innanzitutto salvaguardare gli elementi della vita sociale americana che l’individuo ha saputo fare propri e sui quali è riuscito, in un certo senso, a fissarsi: l’American way of life forma un tutt’uno fin nei suoi dettagli più intimi, come il cinema del sabato sera o la huckleberry pie... Ma la realtà americana travalica in ogni senso quest’isola di lucidità e sicurezza. Mistero ai propri occhi, essa aspira a comprendersi e a controllarsi piuttosto che a trasformarsi. Di fronte alle preoccupazioni sociali dell’Europa, l’americano vede prima di tutto la propria società, rispetto alla quale è convinto che non sia per nulla opportuno ricostruire la casa quando non se ne conosce né la pianta né ciò che contiene. Non dobbiamo pertanto sorprenderci del fatto che gli Stati Uniti abbiano inizialmente guardato al problema della ricostruzione dell’Europa come a un restauro. 

L’individuo non aspetta; per integrarlo al gruppo, farglielo accettare, procurargli quanto meno l’illusione di comprenderlo, in una parola per dargli la felicità, bisogna fare in fretta; qualunque metodo è valido, se dimostra di essere efficace. Ci si rivolgerà quindi, per prima cosa, al bambino, o per meglio dire a quell’eterna infanzia che ogni uomo porta inevitabilmente dentro di sé. In ogni società, infatti, dalla più primitiva alla più complessa, l’individuo custodisce nel fondo del proprio io come una ferita sconosciuta e perennemente aperta, la frustrazione della propria sensibilità infantile, costretta, a partire da un’età che varia da cultura a cultura, ma sempre prematuramente, dalla rigida disciplina del gruppo. Sempre e ovunque, è il pensiero adulto, la sensibilità adulta, l’attività adulta che sono poste a un livello ideale; ma tale modello sociale dell’adulto, quanti adulti lo raggiungono effettivamente? La psicologia sperimentale rivela che l’età mentale della stragrande maggioranza degli individui rimane ben al di qua dell’età biologica. Come potrebbero società che ignorano un fatto talmente rilevante non produrre sofferenza richiedendo costantemente ai propri membri più di quanto siano in misura di dare, e dando loro, in altri ambiti, molto meno di quanto questi desiderino, inconsciamente, ricevere? Non ci spingeremo fino al punto di affermare che l’America ha individuato chiaramente il problema. Ma, come le è spesso capitato nel corso dei secoli passati, sembra lo abbia avvertito in maniera intuitiva ben prima che esso si sia posto in termini scientifici, e che abbia predisposto, in maniera ancora con‐ fusa ed empirica, qualche abbozzo di soluzione. 

È facile negli Stati Uniti individuare l’oscura volontà di riconoscere, legittimare e soddisfare questa parte di infanzia che alberga in ciascuno di noi nei tipi sociali sui quali si modellano inconsciamente la vita privata e la vita pubblica. La donna americana è innanzitutto, e resterà sempre, mom, la «mamma»: vera e propria costante della sensibilità americana media, e nel prestigio crescente della quale alcuni sociologi statunitensi – più sensibili probabilmente alle analogie superficiali che non alla vera sostanza dei fenomeni sociali – già intravedono l’avvento di un moderno matriarcato. Il rispetto del governo in carica, persino da parte dei suoi avversari politici, è un aspetto della vita democratica di cui qualunque democrazia potrebbe utilmente trarre esempio; ma ci pare assai difficile dubitare del fatto che tale deferenza quasi sacra del cittadino nei confronti del presidente degli Stati Uniti o dell’impiegato nei confronti del boss non si riconduca, in ultima analisi, alla venerazione nei confronti dei «grandi», sempre viva in seno all’adulto, e nella quale la società americana ha saputo trovare un efficace strumento di disciplina collettiva. La grande distrazione nazionale, il baseball, con la sua esigente ritualità, le sue regole complesse e le sue rivalità accese, è meno uno sport che non l’apoteosi di un gioco infantile. All’intera America, dall’infanzia alla vecchiaia, il drugstore e la sua «fontana» dai cento rubinetti offrono la materializzazione – supportata da tutta la magia domestica del mondo moderno – dei palazzi delle fiabe dai muri di praline, i mobili di caramello, i laghetti di sciroppo e i fiumi di marmellata. Mentre i comic, i supplementi illustrati dei giornali, ubriacano ogni domenica persone di ogni età con le avventure e le meraviglie di Dick TracySupermanBuck Rogers; oppure offrono un’iniziazione ai problemi e ai conflitti della vita americana: marito e moglie, con Mr and MrsHomer HopeePolly and Her Pals; genitori e figli, con TeenaOur JimBringing up Father; la ragazza e la donna sola, in Little Orphan AnnieDixie DuganDebbie Dean... Infine, non capiremmo appieno il ruolo, all’interno della vita americana, della radio o dell’automobile, l’interesse appassionato (o meglio passionale) che spinge verso i nuovi modelli o allontana all’improvviso da quelli dell’anno precedente, se non pensassimo all’auto e alla radio come a dei veri e propri giocattoli per adulti; così come il riconoscimento ufficiale e spesso l’organizzazione collettiva degli hobby – i passatempi nello stile del «violino di Ingres» –, che confermano a ogni età il diritto, se non addirittura l’obbligo, o quanto meno la legittimità, del gioco. 

Si può sperare che gli adulti nei quali l’eterno bambino non è sta‐ to e non sarà mai umiliato, sapranno vivere tra loro con più naturalezza e buona volontà di quanto non siano in grado di fare quanti hanno avuto una gioventù nutrita di amarezza. E in effetti, il problema di stabilire tra individui dei rapporti armoniosi e di fare della vita sociale un meccanismo ben oliato si pone, negli Stati Uniti, nei termini di una sorprendente semplicità. Anche in questo, la tecnica si applica all’eliminazione degli urti e finanche dei minimi attriti. È innanzitutto nell’ambito della vita materiale che un’instancabile ingegnosità̀ sopprime lo sforzo, il gesto inutile, grazie al moltiplicarsi di gadget o di piccole invenzioni. La bellezza fisica può essere conquistata, grazie a un’alimentazione spesso tutt’altro che invitante, ma di cui l’adolescenza americana attesta l’efficacia; persino da quelle donne per le quali sembrerebbe non esservi alcuna speranza, nelle «scuole di portamento» dalle quali la grassa esce magra, la gobba slanciata e la sgraziata affascinante. L’igiene corporea è insegnata come un elemento di successo nel mondo, così come l’abilità nella conversazione. To be a good conversationalist – essere una persona dalla conversazione gradevole – si impara grazie a ricette ingenue e talvolta persino per corrispondenza. Su di un altro piano, un nuovo impiegato, persino un docente universitario, non verranno scelti solamente in base alle loro qualità professionali: oltre alla competenza, verrà loro richiesto di essere, come si dice laggiù, a nice guy, «un bel tipo», ossia di non compromettere mai, per instabilità o per eccessiva originalità, anche nella vita privata, il perfetto funzionamento della piccola comunità che si appresta ad accoglierlo. La preoccupazione di evitare tutto ciò che può urtare, scioccare, mettere in pericolo l’armonia collettiva non è priva di inconvenienti, è probabilmente l’elemento responsabile dell’insignificanza che impregna troppo spesso le relazioni collettive. A un docente universitario europeo che si stupiva della scarsa animazione delle riunioni scientifiche, un collega americano obiettava: But you, European people, you argue too much; e poiché l’altro gli chiedeva come fosse possibile «discutere troppo»: You might hurt somebody, «potresti ferire qualcuno». 

Non si vuole soltanto evitare ogni conflitto tra individui, bensì anche quelli, non meno fatali alla buona coscienza, dell’individuo nei confronti di se stesso. Le mille possibilità grazie alle quali la vita americana procura ai propri membri lo svago, o afferma su di essi il proprio controllo, formano una gerarchia minuziosa. Pochi consigli si incontrano più di frequente a scuola, negli annunci pubblicitari o in una normale conversazione di relax, che significa più o meno: «distendetevi», «non vi irrigidite». Con ogni probabilità, la consuetudine di masticare la gomma non si sarebbe tanto radicata nelle abitudini se non possedesse, insieme a risultati meccanici o psicologici, tale funzione sociale. Vale lo stesso per lo sport, e soprattutto per la religione, il cui ruolo sociale sembra debordare ogni giorno di più la soddisfazione di bisogni propriamente spirituali. Infine, la straordinaria moda della psicanalisi (un parrucchiere della popolare 23a strada a New York non offre forse alle proprie clienti, sotto il casco, una combinazione che mescola manicure, pedicure e seduta di analisi?) non deve far dimenticare le modifiche apportate al metodo e ai principi di Freud. Perché non si tratta più di una messa a nudo dei conflitti interiori, visto che il soggetto viene lasciato padrone, una volta edotto su se stesso, di scegliere la via che intende intraprendere. La psicanalisi americana si concentra sempre di più sul riadattamento dell’individuo alle norme del gruppo: non tanto spinta del malato verso la libertà, bensì riaccompagnamento alla felicità. 

Tale sociologia ottimistica reca già al proprio attivo alcuni singolari successi. La felicità materiale, risultante al contempo dalla semplificazione sistematica dell’esistenza quotidiana e dagli alti standard di vita (i quali sono tuttavia, non dobbiamo dimenticarlo, soltanto l’eccezione), costituisce un soggetto sufficientemente noto al lettore francese perché ci si accontenti qui di un semplice richiamo. Sarebbe bello poter insistere ulteriormente sul contrasto tra l’infanzia europea e l’infanzia americana: quest’ultima tanto libera, tanto naturale, tanto meravigliosamente incosciente di qualunque barriera tra bambini e adulti; poi, al college o all’università, tanto impegnata e consapevole del fatto che una classe superiore americana stia svuotando di significato la parola «cancro». Nell’adulto bisognerebbe innanzitutto sottolineare la coscienza professionale che, soprattutto nel funzionario e nel ricercatore, garantisce che un problema verrà sempre analizzato con attenzione, studiato con metodo e sviscerato fino alla soluzione; successivamente il civismo americano, che è l’applicazione alla vita collettiva della serietà con la quale essi affrontano ogni cosa: dal paper salvage o il tin can salvage – il recupero di vecchi giornali e dei barattoli per le conserve vuoti – fino alla vendita dei buoni del Tesoro, pretesto per competizioni accese e amichevoli tra cittadine vicine. E dove potremmo vedere, se non in America, alcune imprese commerciali invitare il pubblico a non acquistare i propri prodotti se non come seconda scelta, dal momento che i prestiti di guerra vengono prima? Un certo orologio, una certa farina alimentare, una certa cravatta, sì... but buy a War Bond first. Infine, e senza negare l’eccezionale violenza che possono assumere negli Stati Uniti gli antagonismi collettivi, vi si rimane costantemente sorpresi dalla naturalezza delle relazioni tra individui. Rispetto a tutti questi punti, la tecnica della felicità è stata un incontestabile successo, e il suo simbolo più commovente è forse fornito dalle migliaia di scoiattoli che popolano i giardini pubblici americani, e la cui sensazione di totale sicurezza tra i visitatori sarebbe la dimostrazione, fino al giorno del Giudizio, di un’infanzia priva di qualunque malizia, di un’adolescenza priva di odio, di un’umanità priva di rancore. 

Ciononostante, il fatto che la tecnica, seppure della felicità, si appropri dell’individuo come materia prima ha un prezzo. La civiltà americana, nella quale è tanto forte il desiderio di incarnare una società priva di drammi, ha già motivi di ansia. Metodi tanto efficaci, se applicati all’individuo, si sono rivelati fino a oggi impotenti rispetto ai gruppi. In realtà, la società americana vive al doppio ritmo della permeabilità individuale e dell’impermeabilità collettiva. Nulla di più malleabile, di più spontaneo, di più fluido della relazione tra un bambino e un adulto, un uomo e una donna, un padrone e un operaio. Ma anche nulla di più estraneo delle generazioni, dei sessi e delle classi tra loro. Un bambino americano è più facilmente accessibile rispetto a migliaia di suoi simili europei; l’infanzia americana produce tuttavia i suoi grandi incidenti patologici, come i Sinatra’s fan, gli hoodlum e le victory girl, che i genitori scoprono con stupore e che i meccanismi collettivi devono ammettere di non essere in grado di controllare. La franchezza dei rapporti sociali tra uomini e donne non riesce a dissipare l’antagonismo latente nella vita americana che fa della donna non più soltanto, come ai tempi dei pionieri, la guardiana del focolare e l’elemento che dà sicurezza in una vita incerta, bensì, ogni giorno di più, l’impietosa propagatrice di norme che questo modo di trasmissione non riesce né ad arricchire né a umanizzare. Conosciamo infine la brutalità degli scioperi e delle serrate; brutalità per altro inferiore rispetto alla tragicità dei conflitti razziali. 

Persino sul piano individuale il problema resta ancora ben lungi dal trovare una soluzione. Perché, se è vero che non esiste al mondo un paese dove sia tanto facile essere felici come negli Stati Uniti, allo stesso modo non ve ne è un altro in cui un destino più incerto attenda quanti non possono, o non vogliono, trovare soddisfazione nelle soluzioni collettive. Ed è qui che appare il vero e proprio dramma, il dramma di fondo della civiltà americana, il dramma che la tecnica della felicità è riuscito a circoscrivere ma non a sciogliere, e che, dal punto di vista della coscienza individuale, può chiamarsi «paura della solitudine». La felicità americana è infatti due volte unica: prima di tutto perché la società non ne offre che un solo modello; e poi perché tutti gli elementi che ne fanno parte sono solidali e non lasciano alcuna possibilità di scelta. La civiltà americana è un tutt’uno: bisogna accettarla per intero o rassegnarsi all’abbandono. 

Per tale ragione, fin dall’infanzia, l’anima americana sente crescere un’angoscia che la contraddistingue: quella di essere sola, di essere lasciata indietro; essa cerca di sottrarvisi per mezzo di una socialità, in un certo senso, accanita. A scuola come al college, la preoccupazione maggiore è quella di essere popular, ossia di avere molti amici, degli appuntamenti, una folta rubrica. Più tardi sarà il moltiplicarsi di club, associazioni più o meno segrete, party – visite o uscite collettive –, per non parlare delle vacanze americane, tanto sconcertanti per uno spirito europeo, dove tutto sembra essere organizzato per escludere la solitudine all’interno della natura e l’intimità con se stessi. Il grattacielo infinito, simbolo agli occhi del mondo della civiltà americana, è meno una sfida della tecnica o il risultato di una necessità economica o geografica che la patetica espressione di questo bisogno di vicinanza, di questa ansia di comunione. 

La tecnica della felicità riuscirà a sormontare questi ostacoli o incontrerà, in una resistenza ogni giorno allontanata ma irriducibile da parte dell’individuo, un limite assoluto in cui il pensiero europeo potrà individuare la persistenza dei propri valori tradizionali? Si tratta in definitiva di sapere se è possibile creare una civiltà nella quale la massa e l’élite siano in grado di raggiungere al contempo il soddisfacimento delle rispettive esigenze. A parte qualche estremista che si proclama pronto a sacrificare la seconda, l’America contemporanea risponde di sì con vigoroso ottimismo. Un’Europa in sofferenza, appena uscita da una crisi che potrebbe facilmente convincerla della sterilità del proprio destino, deve osservare con fervore e interesse un esperimento la cui originalità d’ispirazione e la cui fecondità non sarebbero tuttavia in grado di farle dimenticare che esso si sviluppa su di un terreno spirituale e morale che costituisce, e che sempre costituirà, il patrimonio comune del Vecchio e del Nuovo Mondo. 

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USA - 2022
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Claude Lévi-Strauss

(1908 - 2009) è stato un antropologo ed etnologo francese il cui lavoro è stato fondamentale per lo sviluppo delle teorie dello strutturalismo e dell'antropologia strutturale. Ha tenuto la cattedra di Antropologia sociale al Collège de France tra il 1959 e il 1982, è stato eletto membro dell'Académie française nel 1973 ed è stato membro della Scuola di studi avanzati in scienze sociali di Parigi. Ha ricevuto numerose onorificenze da università e istituzioni di tutto il mondo.

Pubblicato:
02-02-2022
Ultima modifica:
02-02-2022
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