La veggenza dell'esausto - Singola | Storie di scenari e orizzonti
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Exhaustion | Copyright: Soxcleb / Flickr

La veggenza dell'esausto

Un percorso di fuga dall'assiomatica capitalista attraverso la sensibilità macchinica

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Antonio Ricciardi

è un ricercatore indipendente il cui lavoro è focalizzato sui temi del ritmo, della temporalità e della tecnica, con particolare riferimento al pensiero di G. Deleuze, F. Guattari e G. Simondon. Suoi scritti sono apparsi su Kaiak. A Philosophical Journey, Menelique, NOT, Roots§Routes, Kabul Magazine e altrove.

Nel suo ultimo testo, "Come imporre un limite assoluto al capitalismo?", Fujita Hirose, filosofo giapponese noto in Italia per i suoi studi sulla filosofia di Deleuze e Guattari, si concentra sull'aspetto più politico dalle teorizzazioni dei filosofi dell'Anti-Edipo. Nel farlo, adotta un punto di vista già parzialmente sviluppato nel precedente saggio dedicato al cine-capitale, punto di vista che potremmo definire dell'esaustione.

Determinante, nella lettura proposta dallo studioso giapponese, è allora questa dimensione della messa a fronte dell'impossibile: che azione intraprendere quando il nostro interesse legittimo sembra entrare in conflitto con gli stessi presupposti che intendiamo difendere? Il dispositivo teorico richiamato da Hirose si connette immediatamente con una certa concezione estetica elaborata da Deleuze, in particolare ne L'Immagine-Tempo: cosa succede quando il possibile sembra aver esaurito tutta la sua riserva? Cosa farsene di una immagine, di un suono, di una parola che non trova più niente cui concatenarsi? Che non ha più nessuna potenza da esprimere?

La questione, posta in questi termini, suona drammaticamente attuale: qual è l'azione da intraprendere per cercare di rallentare il riscaldamento globale? Qual è la giusta soluzione al problema pandemico? Qual è la posizione più coerente rispetto al conflitto russo-ucraino? Tutte queste situazioni sembrano rientrare appieno all'interno del quadro descritto da Hirose: ogni presa di posizione sembra implicare una serie di controindicazioni tali da far vacillare qualsiasi certezza. Nel recente La tragedia della lavoratrice, il collettivo Salvage scrive, a proposito del cambiamento climatico, che "tutte le soluzioni realistiche, sintetizzate nel realismo capitalista, paiono inadeguate.

Tutte le soluzioni adeguate, sintetizzate dalle esigenze imposte dalla crisi, paiono irrealistiche". In perfetta risonanza con queste tesi, il discorso dell'autore giapponese, mosso da un'urgenza squisitamente politica, si chiede: come organizzare una lotta anticapitalista che non corra il rischio di essere ricatturata dal capitale stesso? Come rivendicare condizioni migliori di salario, di giustizia sociale, di giustizia ambientale, senza che l'ottenimento di tali miglioramenti si traduca immediatamente nel peggioramento delle condizioni di qualcun altro? Il pensiero, tanto quanto l'azione e la prassi, incontrano qui un'impasse oggettiva: i valori che li muovono si ritrovano ad essere traditi dagli esiti del loro stesso movimento. E' in questo senso che la situazione sembra esaurire il possibile, proprio come le deleuziane immagini-tempo del cinema del secondo dopoguerra: immagini 'ottico sonore pure', che non si legavano più fra loro attraverso dei concatenamenti senso-motori. Il protagonista del cinema dell'immagine-tempo non agisce più, piuttosto 'va a zonzo': è un esploratore che interroga il mondo alla ricerca di una visione che gli permetta di uscire dall'impasse, di forare il muro:

È un muro problematico, un "problema" assolutamente irrisolvibile nella misura in cui è subordinato alla logica dell'interesse (Hirose, 19) 

È però in questo quadro di apparente disperazione, di soffocamento, che Hirose, assieme a Deleuze, sembra scorgere una possibilità più profonda di qualsiasi possibile: la veggenza dell'esausto, la potenza del buio nei termini di qualcosa che ci viene incontro come un irrappresentabile che costituisce, proprio in virtù della sua assenza d'immagine, una via d'uscita dal giogo della rappresentazione.

Politiche dell'interesse e politiche del desiderio

È solo quando si raggiunge questa situazione di esaustione del possibile, di annullamento di qualsiasi ipotesi di compromesso o riforma che, secondo Hirose, è possibile saltare da quello che Deleuze e Guattari definiscono "investimento preconscio di interesse" ad un piano diverso, molecolarizzato, inconscio: quello del desiderio. Il "piano inconscio del desiderio" è la sola dimensione all'interno della quale è possibile elaborare delle risposte che non possano essere ricatturate dalla macchina capitalista.

Nella lettura dell'evoluzione delle società che Deleuze e Guattari fanno nell'Anti-Edipo, ripresa da Hirose, il capitalismo rappresenta un momento di rottura che, diversamente dalle società prima selvagge e poi barbare, procede ad una totale decodificazione e liberazione dei flussi. L'avvento della società capitalista è precisamente quel momento della storia in cui l'organizzazione sociale non è più determinata da un ordine simbolico che va ad inscriversi nei corpi e nel territorio. Non c'è più, nel capitalismo, un sovrano che funga da quasi-causa di qualsivoglia forma di produzione, oppure una struttura clanica che si occupi di codificare, riscrivere, segnare tutti le forme di desiderio (sessuale, sociale, culturale) espresse dagli individui del gruppo.

Nel capitalismo, ogni flusso (sia esso monetario, di capelli, di scarpe, di musica, e così via) se ne va per la sua strada: il lavoro è appunto quello di riconnetterli, di riscriverli, di riterritorializzarli. Come avviene questo lavoro? La risposta di Deleuze e Guattari ha un nome preciso, ed è quello di assiomatica. La produzione di assiomi da parte del capitale non ha altro scopo se non quello di ricostruire una pseudo-struttura (ma mobile, cangiante, contingente) che leghi assieme tutti questi flussi deterritorializzati. In questo senso il capitalismo secerne dei modelli, cui aggiunge costantemente delle variazioni possibili: al tipo 'casalinga' vengono associati tutta una serie di flussi, un certo taglio di capelli, un certo modo di camminare, un certo modo di parlare.

Cosa succede se dei flussi di desiderio scappano e, di colpo, le casalinghe di una certa città iniziano a vestirsi in maniera eccentrica o a parlare con un accento straniero? Il capitalismo non dovrà far altro che aggiungere delle varianti (proprio come per i prodotti di un e-commerce, dove scegliamo tra la maglietta verde, gialla, rossa, etc.) al proprio modello, producendo un assioma in più per rimodellare se stesso e la sua popolazione.

Lo stesso è avvenuto a livello politico: il taglio rivoluzionario operato da Lenin e dall'Ottobre 1917 è stato ricatturato dal capitalismo attraverso tutta una serie di assiomi socialdemocratici che ne hanno estinto la potenza. Se l'operazione bolscevica creava, all'interno della borghesia mondiale, una contrapposizione, un taglio conflittuale e pericoloso (per le sorti del capitale), la soluzione consiste nel produrre degli assiomi che permettano di contro-tagliare questa struttura, reiscrivendo le masse lavoratrici dentro il quadro dell'economia capitalistica attraverso la socialdemocrazia.

Molecular

Molecular | Stefano Art / Flickr

A che titolo, allora, l'investimento di desiderio costituisce qualcosa che l'assiomatica non può ricatturare? L'assiomatica sembra lavorare su di un piano che il primo Deleuze, quello di Differenza e Ripetizione, definirebbe «rappresentativo»: un piano di trascendenza, dove non si lavora con la processualità immanente della materia e del divenire, ma piuttosto con delle descrizioni, con delle forme che poi si andranno ad applicare sulla materia amorfa dei soggetti. Per l'appunto, l'oggetto dell'assiomatica sono sempre i 'tipi', i modelli. Desiderio è, invece, il nome che i filosofi della schizoanalisi danno proprio a quella dimensione del processo, dell'atto in atto che all'assiomatica necessariamente sfugge.

Cosa significa però tutto questo, come si traduce su un piano pratico, di azione? Il passaggio dall'interesse al desiderio, implicando una rizomizzazione, ha necessariamente a che vedere con una dinamizzazione e un riarrangiamento dei flussi che costituiscono il campo cui ci riferiamo. L'interesse è rappresentativo: io, come operaio, metto in piedi una lotta per salvare o migliorare il mio salario. Ma a un certo punto mi rendo conto che il miglioramento del mio salario ha come suo effetto secondario il peggioramento delle condizioni dell'ambiente della mia città, oppure un inasprimento delle condizioni lavorative di un altro reparto della fabbrica dove lavoro.

Questo processo di esaustione del possibile, si articola, nell'impresa teorica di Deleuze e Guattari, attraverso differenti modalità. Se nell'Anti-Edipo l'asse della contrapposizione ricalca la struttura dell'ordine mondiale del 1972 (anno in cui usciva il libro), opponendo borghesia e masse lavoratrici, in Mille Piani, scritto nel 1980, la classe cede il passo alle minoranze. Nel 1991, con Che cos'è la filosofia?, lo scenario muta ancora: non si parlerà più di divenire-minoritari, ma piuttosto di un divenire-animale. Con la caduta del muro e la sconfitta del socialismo reale, viene meno il presupposto sul quale si reggevano le lotte di interesse delle minoranze. I gruppi minoritari non possono più rivendicare per sé gli assiomi social-democratici, poiché è venuto meno quell'elemento di minaccia che costringeva il capitale a forgiarli.

Le minoranze vengono allora assimilate a degli animali in agonia: "per sfuggire all'ignobile non resta che fare come gli animali (ringhiare, scavare, sogghignare, contorcersi): il pensiero stesso è talvolta più vicino all'animale che muore che non all'uomo vivo, anche se democratico" (Deleuze e Guattari, 101-102). Ognuno di questi stadi è segnato dallo stesso processo d'esaustione: le lotte d'interesse attorno agli assiomi non fanno che urtare contro un muro apparentemente invalicabile.  L'interesse è un cane che si morde la coda perché il meccanismo attraverso cui funziona il capitale è quello dello scambio ineguale: qualcosa che vale X viene scambiata ad X'. È sempre il subalterno a ricevere meno, sia esso valore monetario oppure merce.

Questa posizione, che Deleuze e Guattari ereditano dalle teorie della dipendenza e del sistema-mondo (Wallerstein, Arrighi, etc.), chiarisce in che senso le battaglie di interesse, pur nella loro assoluta necessità di scintilla di qualsiasi cambiamento, finiscano sempre per esser ricatturate dalla logica che cercano di fuggire. Quando l'assiomatica capitalista dei paesi occidentali viene arricchita di proposizioni socialdemocratiche, a queste dovranno necessariamente affiancarsene altre che in qualche misura le bilancino. Il welfare state e la socialdemocrazia (come la storia degli ultimi 50 anni ha dimostrato) hanno dei costi che il capitale deve ribaltare in qualche modo: dall'aumento di produzione, passando per l'apertura di nuovi mercati di consumo, fino all'accrescimento dello sfruttamento attraverso un processo di creazione di sistemi centro-periferia, ogni volta il sistema capitalista risolve il suo problema interno allargando i propri limiti.

Il capitalismo supera le sue barriere immanenti riproducendole su una scala sempre più grande. Ad esempio, una caduta del saggio di profitto è una barriera. Il capitalismo la supera aumentando la produzione, ma questo avviene solo tendendo ad una nuova barriera: la sovrapproduzione. Il capitalismo supera questa nuova barriera espandendo il mercato, ma questo stesso precipita in un'altra barriera, cioè la saturazione del mercato globale. Il superamento capitalistico di questa nuova barriera avverrà, nel migliore dei casi, attraverso l'introduzione di nuovi beni [...] nel peggiore dei casi, aumentando il grado di sfruttamento[...]La barriera che il capitalismo non cessa di erigere davanti a sé non è altro che il capitale stesso. (Hirose, 43)

Hirose insiste anche su un'altra distinzione che innerva le analisi de L'Anti-Edipo: il capitale finanziario e la moneta corrente non hanno la stessa natura. L'inegualità dello scambio si fa qui quasi ontologica. Mentre il capitale contiene in sé una forza o una capacità di autovalorizzazione che lo rende una sostanza pseudo-magica, il salario, sotto forma di moneta, è solamente consumabile nell'acquisto di merci da usare. Il capitale può acquistare forza-lavoro e ripagarla sotto forma di un salario che servirà solo a riprodurre quella stessa forza-lavoro: il valore del tempo di lavoro socialmente necessario a dar da mangiare, a dare un tetto, a dare dei vestiti al lavoratore.

Lo scambio è ineguale: il lavoratore è convinto di vendere la sua forza-lavoro, la sua intelligenza, le sue competenze, la sua creatività; quello che il capitale gli ripaga è invece la possibilità di restare in vita così da poter andare a lavoro. Ma proprio in questo senso, il salario costituisce un valore completamente sganciato da qualsiasi forma di calcolo o razionalità. Esso è il limite, in termini di capacità riproduttiva, che alla forza lavoro viene imposto dal capitale stesso. Questo limite è arbitrario, dispotico: le sperequazioni salariali - orizzontalmente - e l'incommensurabilità tra la dimensione del salario e quella del capitale - verticalmente - costituiscono gli assi della macchina dello scambio ineguale, vera garante del funzionamento dell'assiomatica.

Che succede allora? Come si esce dall'impasse? Come si fora il muro? Ogni volta che una rivendicazione diviene oggetto di una lotta, il suo eventuale successo è agilmente metabolizzato attraverso la produzione di contro-assiomi che lo vanificano ad un'altra latitudine. Ogni occasione sembra perduta: il collasso climatico, la pandemia, i conflitti bellici, piuttosto che determinare il salto invocato da Hirose, ci stringono sempre di più nella morsa dell'esaustione. Il possibile scompare, ma la realtà resta. Apparentemente intrappolata in un eterno presente, ma ben tesa verso l'apocalisse, essa si offre in tutta la sua consistenza irrespirabile ("un po' di possibile, altrimenti soffoco" diceva spesso Deleuze).

È il rifiuto - come il rifiuto del conflitto, il rifiuto di qualsiasi compromesso sul clima o il rifiuto del lavoro come unica teologia ammessa in tempi di pandemia - secondo Hirose, a costituire il primo passo verso un divenire-esausti per come inteso da Deleuze e Guattari. E' il rifiuto di farsi disegnare l'esistenza da una macchina rappresentativa che vuole salvare solo se stessa. Non si tratta, però, che del primo, insufficiente, passo. Guattari, ne L'inconscio macchinico, scrive che: "L'uso capitalistico dell'astrazione [...] consiste a mettere ogni cosa in rapporto a una norma. [...] Senza posa, l'astrazione capitalistica deve rifare il vuoto, riprodurre la dissociazione e l'isolamento [...] Tuttavia, questo depotenziamento è sempre, da qualche parte, segretamente demolito" (Guattari 2022, 46-47). C'è sempre qualcosa che sfugge al modello, all'assioma: c'è una dimensione molecolare che scorre sotto di essi che è sempre in potenza di rovesciarli. Per accedervi è necessaria la veggenza dell'esausto. 

Meshtest2

Meshtest2 | Ryan Alexander / Flickr

Un buio molecolare: il chimico e l'agricoltore

L'accesso alle micropolitiche del desiderio si porta però dietro quella assenza di visibilità descritta in precedenza: di che sostanza è fatta questo buio? Tornano utili qui le riflessioni di Deleuze contenute ne La Piega, testo dedicato al pensiero di Leibniz. A partire dalle celebri riflessioni del filosofo della Teodicea attorno al tema del rumore del mare, Deleuze sviluppa una interessante distinzione. Quando ascoltiamo l'infrangersi delle onde sulla costa, incontriamo due tipologie di idee: nella prima, conscia, ascoltando il rumore del mare nel suo insieme, facciamo esperienza di qualcosa che è "chiaro" (riconosciamo il mare nella sua totalità) e allo stesso tempo "confuso" (non sapremmo riconoscere gli elementi che costituiscono questa totalità).

Nella seconda, inconscia, il brusio del mare è smembrato nei singoli rumori provocati da ogni piccola onda: in questo caso l'esperienza è "distinta" (in quanto le singole onde e i singoli rumori sono distinti fra loro) ma "oscura" (perché non sapremmo dire che tipo di insieme questi rumori costituiscono). La dimensione molecolare del desiderio, fuoriuscendo dalla scena della rappresentazione su cui lavora l'assiomatica capitalista, ci proietta proprio in questa dimensione distinta/oscura, dove la visibilità si comprime, in favore delle dinamiche tutte immanenti ai materiali ed ai flussi che la abitano. 

Sbaglieremmo se interpretassimo questo salto come una mera questione di scala, di ordine di grandezza: il chiaro e lo scuro, l'interesse ed il desiderio, sono entrambi elementi del nostro presente attuale, entrambi dei costituenti perfettamente individuati della nostra realtà. Il chiaro, la dimensione dei modelli, dei tipi, su cui agisce l'assiomatica (le identità), non è l'oscuro ad un grado di definizione più basso. Piuttosto esso ne costituisce una integrazione: in quanto tale, più che raccoglierne l'identità ad un diverso livello di scala, esso si produce di fianco, a lato delle innumerevoli tensioni che scuotono il campo molecolare dell'oscuro, del desiderio. In questo senso, è interessante rifarsi ad alcune osservazioni che Laura Tripaldi, nel suo Menti Parallele, fa sulla natura dei nanomateriali:

Il cammino percorso da chi si occupa di nanoscienze[...]somiglia di più a quello degli antichi vetrai che a quello predetto dal fisico: molto spesso, il controllo sulla scala nanometrica è affidato alla capacità della materia di auto organizzarsi al variare delle condizioni ambientali, e non si realizza mediante un controllo preciso degli atomi. Nelle nanotecnologie si chiama self-assembly: la tendenza di un insieme di atomi, molecole o particelle a organizzarsi spontaneamente in strutture complesse.

I componenti chimici coinvolti nel fenomeno del self-assembly non possono più di tanto essere indirizzati dall'alto. Il lavoro del chimico è un lavoro di accompagnamento delle tendenze e delle potenzialità che costituiscono la 'zona oscura', la potenza della materia stessa. L'insieme di queste tendenze, il processo cui queste danno luogo, non costituisce un modello statistico né tantomeno una tipologia, ma una potenza, una forza della materia in quanto tale. Come si diceva prima, l'accesso a questa dimensione implica, necessariamente una compressione del visibile, una perdita in termini di possibilità rappresentative che è anche un deteriorarsi del continuo in favore di una discretizzazione. Il campo sub-rappresentativo del desiderio, fatto di tante piccole percezioni, come i tanti sommovimenti che costituivano il brusio del mare leibniziano, è puntuale, atomico, ritmico. 

Assenza di visibilità e discretizzazione mettono immediatamente in comunicazione questo piano del molecolare con quello della computazione macchinica digitale. Per Domingos "l'esperto di machine learning è come l'agricoltore: semina, irriga e concima il terreno, tiene d'occhio lo stato di salute del raccolto, ma per il resto non interferisce" (Domingos, 29). Le intelligenze artificiali, le reti neurali, gli algoritmi di machine learning, non vedono nulla: nuotano nel buio ritmato e discreto del dataset provando a dare corpo a delle strutture, a delle maglie di relazioni che in qualche misura diano un senso al magma datificato che attraversano. Come ben dice Luciana Parisi, 

Con il machine learning, gli algoritmi non sono perciò semplici istruzioni [...] Gli algoritmi imparano: si adattano, aggiustano ed evolvono il loro comportamento in accordo ad una sintesi qualitativa di grandi quantità di dati. La loro attività performativa è permessa dalla loro capacità di comprimere grandi quantità di informazioni e perciò di trasformare gli output in nuovi input, implicando una nuova sintesi di ragionamento e calcolo. (pag. 6).

In questo senso, l'algoritmo, più che emergere come un insieme di procedure meccaniche volte alla risoluzione di un problema, più che incarnare una assiomatica, va a costituire una sorta di espressione, o sogno, della materia (di cui è fatto il dataset). I dati, e le popolazioni sub-personali cui questi corrispondono, si esprimono nell'algoritmo: è, in un certo senso, quest'ultimo ad obbedire ai flussi, ad accompagnare il loro processo di individuazione, piuttosto che il contrario. Contrariamente alla quasi totalità della teoria critica elaborata sull'argomento (Stiegler, Rouvroy, Zuboff, Bifo etc.), possiamo provare a guardare alle macchine computazionali da una prospettiva che non sia necessariamente quella dell'asservimento, della governamentalità e del controllo.

L'idea di fondo di questi approcci teorici è quella secondo la quale il sogno di qualsiasi algoritmo sarebbe quello di sviluppare un'idea di mondo (o almeno di quella parte di mondo espressa dal dataset sul quale ha lavorato) che sia chiara e distinta. Per quello che abbiamo visto prima, però, un'idea, più si fa chiara e più si fa confusa. Viceversa, più si fa distinta e più si fa oscura. L'algoritmo come soluzione immanente di un problema non fa luce su niente: esso compie piuttosto un atto di veggenza. Di fronte all'assoluta complessità di dataset sterminati l'algoritmo deve inventare delle regole che non preesistevano, per dare conto di infiniti riverberi, connessioni, correlazioni. Esso perciò individua tutta una serie di soglie, di passaggi al limite, che si fanno concreti solo nel momento della computazione.

Le reti neurali tipo WaveNet, che ricreano il linguaggio parlato, non smettono di inventare parole inesistenti eppure così familiari. È l'algoritmo che scorge una soglia in seno alla quale potrebbe esserci una parola, eppure non c'è: è la virtualità, la potenza, ancora inespressa, della macchina linguistica. Proprio WaveNet, col suo approccio data oriented, costituisce, secondo Napolitano, l'unico strumento ad oggi esistente in grado di immettere nella vocalizzazione macchinica non solo i fonemi, ma anche "i sibili, i rumori labiali, le masticazioni": l'algoritmo, invece di secernere un'assiomatica, invece di dettare una fonazione maggiore ed identitaria, inventa passaggi, scorge oscillazioni, soglie, virtualità. L'algoritmo non serve a predire. Proprio come ha recentemente scritto Salvatore Iaconesi su Not: "C’è questa strana convinzione che la tecnologia sia fatta per essere usata, ma la realtà è che nasce per sentire diversamente, per diventare Altro".  Proprio perché "il dato non è mai dato", non c'è nessuna ragione di pensare alla computazione come ad uno strumento per controllare il futuro. Piuttosto, essa è una sensibilità macchinica che serve a produrre presente, a "creare un po' di possibile", o quantomeno a ridurre il tasso di soffocamento di un attuale sempre più povero di virtuale.

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La canzone è un algo-ritmo: IRA

Dobbiamo riuscire a guardare a dataset ed algoritmo come a due sostanze essenzialmente ritmiche e vibratorie: se il dataset assomiglia all'insieme delle piccole onde che costituiscono il rumore del mare per come lo conosciamo, l'algoritmo, più che dare forma a quel brusio vago ed indifferenziato, ne costituisce la figura ritmica, il complesso richiamarsi delle innumerevoli differenze che distinguono un'onda dall'altra. Il dataset è un pezzo di caos che cerca una qualche forma di individuazione, di rallentamento, che l'algoritmo di machine learning è chiamato a dargli. Entrambi sono delle sostanze temporali - concrete e astratte, attuali e virtuali - che si esprimono ritmicamente. È chiaro che la totalità o quasi degli algoritmi con i quali interagiamo sono irrimediabilmente infettati dall'assiomatica capitalista, che nella maggior parte dei casi li innerva da cima a fondo. Non c'è sistema automatizzato che non sia insufflato di regole, obiettivi e modelli che discendono direttamente da quei tipi e quei modelli che il capitalismo secerne quasi per natura.

Ma i dati che l'algoritmo contemporaneamente lavora e incorpora si portano dietro un carattere eccedente che costituisce una sorta di incomputabile. Ogni gesto tracciato, ogni like messo e registrato, ogni finestra aperta e immediatamente richiusa sono l'attualizzazione di un insieme di possibili, di traiettorie e di ritmi - di affetti - che non scompaiono per il semplice fatto di non aver avuto luogo: senza essere attuali, essi sono nondimeno reali. L'incomprimibilità di questa ombra, di questo invisibile, innerva l'algo-ritmo, dando luogo ad uno sguardo alieno, altro. Pensiamo ai glitch, agli overfitting, ai linguaggi esoterici inventati da macchine che discutono tra macchine: ritmi che ci arrivano da un altro mondo, futuritmacchine che, come quelle di Kodwo Eshun, danno luogo alle proto-soggettività macchiniche descritte da Guattari. 

Poliritmacchine diffuse, reti combinate di ritmi poli*contro*contra*sfasati*incrociati che operano come l’architettura distribuita della vita artificiale e generano una coscienza emergente. [...] Ritmo=reti di intermittenza, ritmi ciclici in sincrono ma fuori fase (Eshun 2020, 6)

La questione delle macchine, del loro rapporto col desiderio e con la fuga dalla linearità molare dell'assiomatica, è una questione eminentemente ritmica. L'algoritmo allora, come suggerisce Ezekiel Dixon-Romàn, può farsi algo-ritmo. D'altro canto, esso corre sempre il rischio di farsi misura, modello, assioma. La citazione di Eshun ci fa da guida: ritmi ciclici in sincrono, ma fuori fase. E' l'eccedenza di questo 'fuori fase' che deve essere prodotta e preservata. La musica, allora, costituisce il territorio privilegiato attraverso cui pensare questo problema: la canzone è lei stessa un algo-ritmo. Proprio come l'algo-ritmo, essa corre sempre il rischio di perdere questo trattino, trasformandosi in pura ripetizione meccanica di assiomi prodotti in un altrove luminoso e terribile come i corridoi della corporation della serie Severance. Oppure, essa si può costituire nei termini di uno spazio in cui ogni frammento di cui è composta può sradicarsi e deterritorializzarsi fino a concatenarsi o percuotere qualsiasi altro frammento.

IRA, ultimo disco di Iosonouncane, uscito nel 2021, ma presentato al pubblico solo nella primavera del 2022, costituisce un impressionante esempio di musica che rompe qualsiasi assiomatica per saltare direttamente dentro un magma molecolare fatto di synth, chitarre, percussioni, voci lontanissime e vicinissime, dialetti, loop, urla, corpi che vibrano e mani che battono. Composto dal musicista sardo assieme alla sua band di 7 elementi, il disco, cantato a più voci, è composto da 17 canzoni (o suite, se si vuole) all'interno delle quali si mescolano una dozzina di dialetti e lingue diverse. La voce, che come lo stesso artista sardo sottolinea in questa intervista, viene trattata attraverso dei riverberi 'lunghissimi e gelidi', acquisisce dei tratti profondamente fantasmatici.

 

 

Al contempo, l'utilizzo di idiomi diversi e lontani fra loro va a creare un piano sul quale le parole tendono a staccarsi dal loro universo semantico d'origine, per concatenarsi in una maniera inedita, straniante, allucinata. Un insieme di fonemi presi dall'arabo va a colpire, ad infrangersi su una parola inglese, francese o tedesca. A venirne fuori è una sorta di neolingua che non lavora più sull'asse significante/significato, ma su di un inedito piano ritmico e materico del linguaggio: «una lingua momentanea, della necessità, fatta di errori e di un lessico occasionale, sradicato e confuso». Una logica della sensazione macchinica lega, accoppia e fa risuonare questi fonemi tra di loro. Ogni lingua viene esaurita, trascinata al di là del limite della significazione, liberata da qualsiasi voler-dire.

Proprio come per WaveNet, sotto ai rapporti di senso, scorrono altre sostanze: è come se Iosonouncane andasse a cogliere l'agency insita dentro a determinate materie d'espressione (le lingue, in questo caso), cercando la miglior soluzione per legarle assieme, per farle risuonare, per farle divenire consistenti. Ogni materia di espressione, proprio come ogni nanomateriale, ha delle tendenze, dei ritmi che essa può o non può esprimere. Allo stesso modo, essa ha altre materie e altri ritmi con cui può o non può entrare in risonanza. Questa dinamica, all'interno di IRA, sconfina dal campo del linguaggio, andando ad innervare l'intero universo sonoro del disco. E' così che un piccolo loop di synth può propagarsi fino ad andare ad iscriversi nella forza ritmica e pulsante della batteria e delle percussioni. Allo stesso modo, la texture sonora e il detuning di una tastiera possono creare una dissonanza che si iscriverà nella voce e nella scelta della lingua e delle parole cantate. Su questo piano, ogni cosa è in comunicazione con qualche altra cosa, anche se non tutto dialoga con tutto: le distanze tra i vari elementi sonori fungono da soglie e da limiti, da parametri, che regolano e gestiscono la macchina-canzone. Ciò che conta è l'assenza di una misura ordinatrice calata dall'alto: il processo che sostanzia l'evento sonoro somiglia a quello del chimico. Il musicista sceglie gli elementi, certo in base alle tendenze iscritte nella loro 'natura', ma da quel momento in poi sono questi a dare corpo e movimento al campo sonoro che li accoglie.

La canzone emerge allora non solo come l'insieme dei rapporti che tiene insieme questi elementi (vibratori, linguistici, pulsanti, timbrici, etc.), ma anche, ad un livello forse più profondo, come l'apparato di soglie e di limiti che regola i passaggi, le comunicazioni, i salti che danno forma ai rapporti. Poco importa se si tratti di creazione o di scoperta: un nuovo spazio di possibili viene strappato all'oscurità di un fuori che fino ad un attimo prima aveva i caratteri dell'impossibile. Se il futuro è questa specie di sostanza oscura e densa che sembra avocare a sé il presente nella forma di un perturbante attrattore, esso è anche l'unico reagente mediante cui diluire le misure, i tipi e i modelli dell'assiomatica. Mi pare che questa sorta di metodo, che Iosonouncane re-inventa e ri-attualizza, rappresenti, assieme ad alcune delle procedure viste in precedenza (come quella di un certo machine-learning, o di una certa sperimentazione chimica), una parziale risposta agli interrogativi che il testo di Hirose incessantemente pone. Non una risposta estetica ad un interrogativo politico, quanto piuttosto la scoperta di una sperimentazione capace di iniettare un po' di possibile dentro la soffocante consistenza del presente.  

 

 

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Bibliografia essenziale

Deleuze, G. (2002). L’Immagine-Tempo. Milano, Ubulibri.

Deleuze, G. (2004). La Piega. Leibniz e il Barocco. Torino, Einaudi.

Deleuze, G. & Guattari, F. (2002). L'Anti-Edipo. Torino, Einaudi.

Domingos, P. (2016). L’Algoritmo Definitivo: la macchina che impara da sola e il futuro del nostro mondo. Torino, Bollati Boringhieri.

Eshun, K. (2021). Più brillante del Sole. Roma, NERO Edizioni

Guattari, F. (2022). L'inconscio macchinico. Salerno, Orthotes

Hirose, F. (2022). Come imporre un limite assoluto al capitalismo?. Verona, Ombrecorte

Napolitano, D. (2022). La Voce Artificiale. Napoli, Editoriale Scientifica

Parisi, L. (2019). Critical Computation Digital Automata and General Artificial Thinking. In Theory, Culture & Society 0(0) 1-33. https://doi.org/10.1177/0263276418818889 

Tripaldi, L. (2020). Menti parallele. Roma, Effequ

Salvage, Collettivo (2022). La Tragedia della Lavoratrice. Roma, NERO Edizioni

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Giappone - 2022
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Antonio Ricciardi

è un ricercatore indipendente il cui lavoro è focalizzato sui temi del ritmo, della temporalità e della tecnica, con particolare riferimento al pensiero di G. Deleuze, F. Guattari e G. Simondon. Suoi scritti sono apparsi su Kaiak. A Philosophical Journey, Menelique, NOT, Roots§Routes, Kabul Magazine e altrove.

Pubblicato:
14-06-2022
Ultima modifica:
14-06-2022
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