Roberto Paura
è presidente dell’Italian Institute for the Future e direttore di “Futuri”, rivista italiana di futures studies. Come giornalista scientifico e culturale collabora con diverse testate ed è vicedirettore di “Quaderni d’Altri Tempi”.
Poche idee sviluppate dalla fantascienza hanno esercitato maggiore fascinazione e influenza della psicostoria inventata da Isaac Asimov nel suo Ciclo delle Fondazioni, negli anni Quaranta del secolo scorso. Questa immaginaria scienza della previsione dei comportamenti umani, sviluppata dal matematico Hari Seldon, realizzava il sogno positivista di ridurre gli esseri umani a equazioni matematiche.
La promessa dei Big Data, ossia la possibilità di estrapolare schemi e tendenze attraverso l’analisi quantitativa di enormi moli di dati da parte di algoritmi sempre più sofisticati, sembra oggi poter avverare il sogno di Asimov. Al cuore di questa idea c’è una visione del mondo fondata sulla convinzione che i dati e le quantità misurabili rappresentino la base della realtà: una volta trovato il modo di ricondurre il comportamento umano a numeri, troveremo il modo di calcolarne le traiettorie e prevederne l’evoluzione. È la visione promossa dalla cibernetica, il cui etimo richiama il concetto di controllo, svolto attraverso metodiche automatiche, come tali infallibili.
Nel romanzo Preludio alla Fondazione (1988), prequel del ciclo di racconti degli anni Quaranta, Asimov mise in scena un dialogo tra il matematico Seldon e l’imperatore della galassia, Cleon. Seldon cerca di spiegare all’imperatore perché le predizioni della psicostoria non debbano essere rese note, per evitare che, come conseguenza di quelle predizioni, si verifichino distorsioni nei comportamenti umani. Ma Cleon non è dello stesso parere. Non è importante che la psicostoria preveda il futuro, afferma. «Basta scegliere un futuro... un buon futuro, un futuro utile... e fare una predizione che modifichi i sentimenti e le reazioni umane in modo tale che il futuro predetto si realizzi»
L’obiettivo dell’imperatore è chiaro: usare la psicostoria come strumento di propaganda per consolidare il potere dell’Impero galattico, quello stesso impero di cui invece la scienza di Seldon ha previsto l’imminente caduta. I moderni tentativi di ottenere una previsione scientifica del futuro nascondono un analogo obiettivo: pur consapevoli dell’impossibilità di prevedere il futuro, i sostenitori di queste idee si avvalgono del presupposto della scientificità e dell’oggettività per diffondere previsioni mirate a far sì che il loro contenuto si realizzi.
È chiaro dunque che non è tanto il metodo in sé ad avere importanza, quanto la predizione; meglio ancora – poiché prevedere il futuro è impossibile – la visione. Seguendo l’esempio di Cleon, oggi le realtà che detengono il controllo del presente sono attente a proporci visioni del futuro che non ammettono alternative, non essendo altro che una reiterazione del presente. Come conseguenza, la nostra generale capacità di pensare e immaginare il futuro è venuta meno e il presente è diventato l’unica dimensione possibile.
La tesi di questo libro è che il presentismo di cui siamo vittime sia un effetto di quella che possiamo chiamare colonizzazione del futuro. Il futuro come dimensione del possibile, del non ancora, del radicalmente altro rispetto al presente, ci è stato sottratto ed è oggi colonizzato e monopolizzato dall’1 per cento del mondo. Lo slogan del movimento Occupy, la cui più celebre espressione fu l’occupazione dell’area di Wall Street nel 2011, era «We are the 99%». Un riferimento alle crescenti disuguagliaze della ricchezza nei Paesi di tutto il mondo: oggi una parte preponderante del reddito globale è posseduto da appena l’1 per cento della popolazione più ricca, che se ne serve per assicurarsi che le politiche sociali ed economiche che hanno portato a questo stato di cose non vengano modificate. Al restante 99 per cento della popolazione rimangono le briciole. Ammaliati dalle straordinarie possibilità delle tecnologie digitali, dal calo dei prezzi dei beni voluttuari, dai costi stracciati dei biglietti per girare il mondo, non facciamo caso al fatto che a godere dei maggiori benefici di tutto questo è una ristretta élite che vede aumentare costantemente la propria ricchezza. L’intellettuale e politico Antonio Gramsci ci aveva messo in guardia dal meccanismo che definì «egemonia culturale»: per conservare la loro egemonia sui gruppi subalterni, coloro che detengono il potere devono imporre agli altri la loro visione del mondo, affinché venga interiorizzata e data per scontata.
La visione del mondo che definisce la moderna forma di egemonia culturale è fortemente presentista. Nonostante la parola futuro risuoni continuamente negli slogan politici, nelle pubblicità delle banche, nei TEDx degli utopisti tecnologici, la nostra società soffre di una sostanziale incapacità di pensare al futuro, inteso come orizzonte di lungo termine. Diamo piuttosto per scontate le retoriche futuristiche che ci vengono vendute: il mondo di domani sarà sempre più dominato dalle tecnologie e dal digitale, vivremo nella realtà virtuale o su Marte. Il fatto che queste stesse visioni del futuro fossero condivise già negli anni Cinquanta dovrebbe farci venire qualche dubbio.
Al di fuori di queste retoriche, non sappiamo far altro che immaginare catastrofi. Ma anche l’immaginario distopico e apocalittico contemporaneo non fa che riprendere temi e vi sioni che erano di moda già nel secondo dopoguerra, semplicemente aggiornandoli per adattarsi alle nuove problematiche globali: non ci preoccupiamo più tanto della guerra nucleare quanto dei disastri innescati dai cambiamenti climatici, e oggi come allora facciamo ben poco per impedire che queste preoccupazioni si trasformino in realtà.
Eppure abbiamo un bisogno disperato di immaginare nuovi futuri possibili. Una serie crescente e sempre più urgente di problemi sta mettendo a repentaglio la sopravvivenza della civiltà. Pur essendone pienamente consapevoli, la nostra incapacità di pensare e agire sul lungo termine fa sì che questi problemi continuino a non essere affrontati. Ciò accade per ché, per riuscire a trovare delle soluzioni, dovremmo riuscire a pensare al futuro in modo diverso da quanto facciamo oggi, superando cioè le visioni del domani che ci vengono imposte.
I problemi che dobbiamo affrontare sono infatti il prodotto delle politiche egemoniche messe in campo, nel corso dei decenni, da quegli stessi gruppi di potere che hanno colonizzato il futuro. Risolverli richiederebbe inevitabilmente che il 99 per cento riesca a occupare il futuro che ci viene oggi sottratto dall’1 per cento.
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Esiste un sinonimo di futuro che usiamo sempre meno: speranza. In questo libro si parla spesso di speranze, e la speranza che lo sorregge è che possa rappresentare una lettura utile per promuovere uno sguardo diverso sulla dimensione del futuro – aprendo gli occhi sul modo in cui tale dimensione è stata colonizzata e sottratta alla nostra possibilità di agire – e per stimolare un rinnovato impegno collettivo a definire e realizzare i futuri che desideriamo.
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Il futuro speranza