Sull'importanza di fumare in sala.
«QQuesto è un film che disprezza [...] la polvere di immagini che lo compone» dichiara Guy Debord nel suo attacco furibondo al cinema, In girum imus nocte et consumimur igni. Immagini polverose, fumo d'immagini... Siamo nel 1978. In Italia, la legge "11 novembre 1975, n. 584" aveva già vietato il fumo in ospedali, teatri, musei, università, biblioteche e cinema.
Il parallelismo tra la polvere e l'inconsistenza delle immagini spettacolari è già evidente, e lo sarà sempre più nei decenni successivi alla dichiarazione di Debord, fino all'invasamento quotidiano che contraddistingue oggi il regno delle immagini digitali. Eppure, niente ci vieta di trasformare questa indicazione nella manifestazione di qualcosa di più interessante: se le immagini fanno polvere, occorrerà proprio per questo che la polvere sia spiritualizzata, indagando come abbia svolto un ruolo centrale nella costituzione nel cinema e della sua fruizione. Seguendo l'ormai nota indicazione di Deleuze: «spetta alla percezione polverizzare il mondo, ma spetta poi alla percezione spiritualizzare la polvere». (La piega. Leibniz e il Barocco).
Il fumo al cinema è una nebbia, un velo che copre gli oggetti, un trucco (un make-up, ma anche un trick, come nei primissimi film di Georges Méliès). Il fumo, da un certo punto in poi, grazie anche all'intervento strategico delle compagnie di tabacco sul cinema hollywoodiano, è il prodotto di un sigaro o di una sigaretta, elemento onnipresente sullo schermo e fuori dallo schermo - almeno fino al divieto di fumare nelle sale cinematografiche, dove la nube di fumo delle sigarette costituiva un fenomeno ricorrente. Malgrado vi sia un numero considerevole di studi dedicato al ruolo del fumo nel cinema come veicolo di significati, manca ancora una vera e propria fenomenologia dell'effetto del fumo nelle sale cinematografiche, e della sua graduale, imperativa scomparsa.
È risaputo, ad esempio, che nel secolo scorso la produzione tanto del cinema d'autore quanto del cinema cosiddetto "sperimentale" sia stata profondamente influenzata da elementi che - fino a quel momento - non erano considerati prettamente cinematografici. In una delle sue interviste, il regista sperimentale italiano Paolo Gioli descrive come per il suo film tracce di tracce (1969) si fosse lasciato ispirare dai giochi d'infanzia fatti con la terra e i timbri. In Chaos Phaos, Gregory J. Markopoulos dispiega le possibilità cinematografiche latenti contenute in antichi alfabeti, geroglifici e iscrizioni primitive, elemento che in precedenza aveva ispirato enormemente anche Ėjzenštejn. Come ignorare, dunque, l'influenza del fumo - questo elemento fluttuante, inconsistente e filamentoso che opera come dispositivo di moltiplicazione della visione sullo schermo - nell'elaborazione di un'immagine fatta di ritorni, differenze, moltiplicazioni, contraddizioni e anacronismi, come quella di un certo cinema d'autore oramai considerato classico? Pensiamo a L'anno scorso a Marienbad di Alain Resnais...
Insieme allo specchio, il fumo è da sempre manifestazione privilegiata della deformità del tempo, dello spazio e della memoria. Ma la sua importanza si estende ben oltre l'autorialità e il contenuto del film. Chiunque entrava in una qualsiasi sala cinematografica annuvolata dal fumo prima del suo divieto, si trasformava immediatamente nel testimone di una fucina di visioni diffratte per lo spazio; lo spettatore fumante agiva inconsciamente come agente di perturbazione, come produttore di “immagini distorte” fruite dall'intera sala. Così, l'inquietudine della vita da sempre nascosta sotto la superficie liscia del cinema "spettacolare" si rivelava per mezzo del pubblico, attraverso la distorsione prodotta dal suo movimento energico - la sua lebensenergie. Nessun film, per quanto "consolatorio" o meramente "rappresentativo", poteva salvarsi dal rischio di una visione impura.
Concentrarsi su una fenomenologia del fumo nelle sale cinematografiche permette di prendere atto della graduale scomparsa di questa caligo spiritualizzata, scomparsa che si sovrappone in particolare allo svanire della grana, delle superfici dove la luce poteva inscriversi negativamente e forse allo svanire del negativo stesso. Siamo consapevoli che l'atto di esplorare la storia del cinema attraverso la singolarità di uno dei suoi sintomi sia - di fatto - un pericoloso schiacciamento, ma crediamo che il divieto di fumare nelle sale cinematografiche e il successivo affermarsi dell'immagine digitale si inseriscano nello stesso quadro storico, nello stesso tentativo di dichiarare il primato della nitidezza spettacolare e – quindi – di igienizzare l'immagine (così come la vita stessa). In Perché non è già tutto scomparso?, il filosofo Jean Baudrillard scriveva:
Non si tratta solo di un episodio della storia della tecnologia: con questo passaggio al digitale, tutta la fotografia analogica, l'immagine nella sua interezza - concepita come convergenza della luce dell'oggetto con la luce dello sguardo - viene sacrificata, è condannata per sempre. Con l'avanzare della digitalizzazione, presto non ci sarà più nessuna pellicola, nessuna superficie fotosensibile su cui le cose si inscrivono negativamente.
Di fatto, oggi potrebbe sembrare che nelle sale cinematografiche non ci sia più spazio né per fotogrammi sfocati e imperfetti né per un pubblico di fumatori. Eppure, nessun fenomeno muore defintiviamente, ma si mantiene come oscillazione sotterranea. Dunque, una domanca che dovremmo porci è: in che modo questa polvere di immagini è sopravvissuta nell'era delle'immagine digitale?
Possiamo tentare di formulare l'ipotesi di una risposta: la polvere delle immagini è diventata una polvere di schermi, una moltiplicazione schizofrenica di dispositivi e visioni. L'inquietudine degli spettatori non è più confinata nello spazio fisico della sala cinematografica. Al contrario, la stessa sala di proiezione è diventata gradualmente un contenitore inquieto di altri schermi: cellulari, smartphone, visori, tablet, ecc., che rendono "impura" la visione moltiplicando - montando insieme? - le immagini presenti in sala oltre al film proiettato. Con la perdita dello Schermo scompare la sua mitologia: ed ecco la migrazione del cinema stesso dal "recinto" della sala cinematografica allo spazio di Internet (i servizi di streaming come Netflix sono un esempio perfetto). Questo fenomeno ci conduce a una considerazione ulteriore sullo statuto dell'immagine digitale: anche se è così nitida, anche se è igienizzata, l'immagine rimane un fumo di fumi. Invece di aumentarne la potenza, la moltiplicazione degli schermi e dei dispositivi rivela solo la sostanziale finitudine del medium. Tuttavia, il cineasta/spettatore attento potrebbe cogliere questa considerazione come l'occasione per compiere un ulteriore ribaltamento.
Una volta costretto nella sala cinematografica, dove senza accorgersene agiva perfomativamente sul film attraverso il fumo, il pubblico può ora guardare al cinema senza la sudditanza mitologica allo schermo, e dunque agli schermi, alle basi tecniche. Lo penserà piuttosto come una dimensione percettiva, o meglio ancora: una modalità stessa dello sguardo. Riprendendo una considerazione del cineasta Erik Bullot, possiamo definire questo spostamento come l'inaugurazione di una svolta performativa: «La definizione di cinema è stata a lungo basata sul suo apparato tecnologico. La situazione è cambiata e facciamo film con un cellulare, guardiamo film sul nostro laptop, usiamo una tecnologia molto diversa. Ma continueremo ad usare lo stesso nome di “cinema” nonostante questo cambiamento. Significa che possiamo definire il mezzo al di fuori della sua base tecnica. È un punto molto importante. In un certo senso, è una svolta performativa». Liberato attraverso la moltitudine di schermi dalla tirannia dello schermo, lo spettatore che sappia volerlo può tornare a guardare il montaggio del mondo: la sua danzante polvere di immagini, il suo cinema segnato in ogni cosa.