Discutere nell'emergenza non é lavoro da vaneggianti filosofi o azzeccagarbugli, é semplicemente l’anima del pluralismo.
In questi giorni si é dibattuto su alcuni siti se lo scoppiare di questa epidemia non rappresenti un cosiddetto cigno nero. Dico quindi da subito che non sono convinto di questa interpretazione, sia perché sono riluttante in generale a dare cosí importanza al presente mentre si svolge (preferisco riflettere sul futuro o scommettere sul passato...), sia perché le epidemie sono un evento ciclico e anche abbastanza prevedibile.
Il cigno nero non é il virus ma forse, semmai, le risposta scomposta del nostro sistema immunitario. Come in altri frangenti (penso al terrorismo, all'avanzare dell'ISIS o addirittura ai rischi percepiti da buona parte della popolazione riguardo il tema dell’immigrazione) abbiamo a che fare piú con la nostra fragilitá che con gli effetti del contagio. Il vero effetto dirompente é la nostra paura, effetto tanto ancor piú dirompente se consideriamo le sue propagazioni, che saranno lunghe e dolorose.
Ma bisogna fare un passo indietro e dire innanzitutto che la reazione all'epidemia ha avuto tratti molto diversi in Cina e nelle nazioni occidentali (non sappiamo ancora l’impatto del Covid-19 in societá molto piú giovani e meno interconnesse delle nostre come l'Africa e l'America Latina).
La preoccupazione del regime cinese, riguardo l'avanzare del virus, non é stata mettere al riparo i suoi cittadini. Fosse stato cosí, esso avrebbe mostrato un volto molto diverso da quello che da decenni siamo abituati a vedere, quello del disprezzo dei diritti umani e del numero enorme dei sacrificati per il progresso e la crescita economica. Una Cina in pieno contagio avrebbe significato il collasso del sistema economico e, di conseguenza, il blocco della crescita che legittima il potere dell’apparato politico e per questo é stata data una risposta al virus cosí risoluta.
Diversamente, nelle democrazie occidentali, dove i tempi di risposta a qualunque crisi passano per i sacrosanti vincoli della concertazione e del diritto, e dove anche la sanitá é sempre piú privata e altalenante, il contagio é sfuggito di mano. Il lockdown generalizzato si é imposto come unica strada percorribile, con qualche sbandamento in USA e UK, poi rientrato nei ranghi, e non senza forti mal di pancia del capitalismo industriale. Un grande bagno di realtá, sembrerebbe, un grande capovolgimento dello show must go on di stampo liberista. Per una volta, finalmente, le vite dei cittadini vengono prima dello spread.
Si poteva fare altrimenti?
Nei giorni dell'isolamento di Wuhan, molti qui da noi hanno additato le misure eccessive del governo cinese. Quando i cinesi costruivano ospedali in dieci giorni, gli occidentali assistevano a quelle immagini come bambini di fronte a una scatola piena di formiche. Un mese piú tardi, quando la gente ha cominciato a morire fuori dalla Cina, il dramma si é svelato e lo stato autoritario che aveva chiuso a chiave sedici milioni di persone é diventato un modello da copiare.
Non nei dettagli, certo, e tenendo fermi alcuni valori che ancora, per fortuna, fondano i nostri stati di diritto. Ma per certi versi il consenso sui provvedimenti, la narrativa eroicizzante degli operatori sanitari, condita dalla solita retorica della nazione in lotta contro il nemico, hanno trasformato la reazione a un'epidemia in una vera e propria chiamata alle armi.
Il contestatissimo articolo di Agamben su il manifesto, scritto all’inizio del contagio italiano, non é privo di distorsioni, anche evidentemente dipese dal sottovalutare la reale pericolositá del virus (ingenuitá che io per primo ho commesso, insieme per altro ai vertici dell'istituto di biologia molecolare del CNR che Agamben cita), eppure resta una delle pochissime voci fuori dal coro di chi si sente in linea con i provvedimenti in atto.
Si fa fatica a essere d'accordo con Agamben, é evidente. Eppure ció non toglie che passare, come ha dichiarato Macron davanti al popolo francese, da uno stato di pace a uno di guerra, per qualunque motivo questo succede, compreso salvare vite, andrebbe sempre analizzato e dovrebbe sempre farci venire degli scrupoli. Non si tratta del diritto di vedere la serie A: parliamo di cose molto piú necessarie, fare una passeggiata, andare in bicicletta, portare i figli al parco, andare al mare.
Discutere nell'emergenza non é lavoro da vaneggianti filosofi o azzeccagarbugli, é semplicemente l’anima del pluralismo. Sarebbe un dramma, semmai, se in ogni emergenza, tutti i filosofi fossero costretti a trasformarsi in volontari della protezione civile. E ora sono i giuristi, sono i filosofi, sono gli storici che ci dicono: attenzione. Si possono sospendere diritti fondamentali in un’area circoscritta, per un tempo circoscritto, relativizzando l’azione e comunicando molto bene i motivi del provvedimento. Ma sospenderli a tempo indeterminato in un continente intero, aspettando la fine dell’emergenza é qualcosa su cui dovremmo interrogarci perché – su questo Agamben ha ragione – rischiamo di rafforzare la legittimazione dell’emergenza come base dell’azione politica e mediatica, di amplificare la paura e il controllo reciproco. Rischiamo di abituarci all'idea di una distopia.
Poi, si puó decidere pacificamente che tutto sia necessario, che il fine legittimi i mezzi. E questo non sarebbe un problema, per quanto mi riguarda, se questo non venisse spacciato per scontato, se ogni scelta non venisse condita da un atteggiamento di ineluttabilitá, di non-scelta. Ho sentito pochissimi dubbi sui provvedimenti. Ho visto troppo spesso quella curva, come se fosse l'unico modo di leggere la realtá, come se una funzione matematica, un tratto di penna, fosse capace di derimere problemi che, ancora prima che terribilmente complessi, riguardano la sfera morale, etica, che interagiscono nel profondo con la nostra libertá, con i nostri vizi, le nostre abitudini.
Ma vorrei spegnere sul nascere la tentazione di dire che si tratti di retorica. Non é mia volontá di mettere qui in dubbio la ragionevolezza delle misure di contenimento, seppure limiti e perplessitá mi sembrino evidenti. Credo semplicemente che parte del tempo speso a seguire i bollettini potrebbe essere impiegato per riflessioni di piú ampio respiro. Penso che quando quando la situazione tornerá a normalizzarsi emergeranno letture finora marginalizzate e il quadro diventerá un po’ piú sfaccettato, sperando che non sia troppo tardi.
La prima che mi viene in mente é che l'immagine di un paese barricato in casa, forse per mesi, nel tempo assomiglierá sempre di piú ad un enorme buco nero della nostra storia recente. Quando si tratterá di tornare a riscuotere bollette ci si dimenticherá velocemente degli artisti da balcone. Temo che alla fine di questa guerra non ci aspetti una liberazione ma un grande malcontento.
Temo che il senso di fragilitá e l'incertezza di noi cittadini non verrá alleggerito dalla fine dell’epidemia e sicuramente non ci sentiremo piú coraggiosi dopo aver vinto la battaglia di minimizzare i morti. E nonostante i giornali iniziano a riempirsi di articoli che lascerebbero pensare a un possibile risveglio delle coscienze collettive, a una maggiore consapevolezza del nostro ruolo nel mondo portata dal virus, non vedo grandi speranze perché questo avvenga. Sicuramente verrá un po’ meno quel senso granitico della normalitá a coloro i quali hanno ritenuto erroneamente che sarebbero dovute piovere bombe per metterci in pericolo.
Forse, inoltre, verrá data agli scienziati – che in questa vicenda del Corona hanno guidato e si sono quasi sostituiti ai politici – maggiore centralitá nel prendere le decisioni cruciali che attendono il nostro tempo e ció potrebbe significare un grande passo in avanti verso una maggiore responsabilitá, soprattutto sui temi dell’ambiente. Bisogna puntare su questa sinergia e allo stesso tempo impedire che si configurino i tratti liberticidi e disumani della tecnocrazia.
Questi sono i rischi concreti. Allora, ancora prima che l’emergenza sia finita, che la cronaca della trincea con gli eroi e i seppelliti abbia saturato ogni occasione di dibattito, abbia indebolito ancora di piú le nostre difese immunitarie - il nostro spirito vitale -, si deve tornare a discutere di approcci diversi. Il senso civico e il rispetto della vita possono essere coniugati con pensieri che di questi tempi possono sembrare cinici, solamente perché non remano nella direzione del consenso di massa.
Ci si puó straziare per la vita strappata di un conoscente, si puó stare in prima linea tra i medici, si puó anche avere anche paura di morire, senza smettere di pensare che il Covid-19 rappresenta, per assurdo, in questo mondo dove il peso dell’umano é enorme, nelle nostre societá vecchie e iperconnesse, un naturale bilanciamento, un ciclo stagionale, indifferente alle nostre sorti individuali, e che riporti indietro la lancetta della civiltá un minuto indietro indicandoci di rallentare.
Mostruoso e inaccettabile pensiero che ci dá un po' d'ossigeno.