Rifiuti tra le onde - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Rifiuti tra le onde

Con "In alto mare" (add editore), Danilo Zagaria ci porta nei "continenti galleggianti" di plastica, ovvero: il mare che sarà. Un estratto.

Danilo Zagaria

è biologo, divulgatore scientifico e redattore editoriale. Scrive di libri, scienza e animali su diverse testate, fra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera». Il suo sito personale è La Linea Laterale. Nel 2020 ha fondato la rivista letteral-scientifica Axolotl.

Nel 1997 lo skipper Charles Moore raccontò ad alcuni giornalisti di aver fatto una scoperta sbalorditiva durante una regata nell’Oceano Pacifico. Era al comando dell’Alguita, un catamarano con cui aveva partecipato a una competizione chiamata Transpac, nella quale le imbarcazioni si sfidano su una rotta oceanica che collega la California alle isole Hawaii. Di ritorno da Honolulu, aveva deciso di attraversare un tratto di mare che in pochi si arrischiano ad affrontare, soprattutto al timone di una barca a vela: il vortice del Nord Pacifico. Si tratta di un’area molto vasta in cui correnti e venti non sono certo amichevoli e spesso non gonfiano le vele di un’imbarcazione quando sarebbe necessario. Nel bel mezzo di quella traversata, Moore e il suo equipaggio si accorsero che l’acqua attorno a loro, per miglia e miglia, era ricoperta da immondizia galleggiante.

Moore raccontò che all’inizio stentava a credere ai propri occhi. Dove sarebbe dovuta esserci una vastissima porzione di oceano incontaminato – sia perché molto lontana dalle terre emerse, sia perché poco trafficata rispetto ad altre – c’era uno strato di schifezze di chiara origine artificiale. Non erano alghe o detriti, come rami o foglie, ma pattume. Moore era finito nel bel mezzo di una grandissima discarica galleggiante. Una volta superato lo shock iniziale, aveva guardato con maggiore attenzione per capire quale fosse la natura dei rifiuti sull’acqua. Gran parte era costituita da plastica.

Sembra incredibile, ma non riuscii a trovare mare libero dalla spazzatura. Ci misi una settimana ad attraversare quella zona. Non importava che momento della giornata fosse, perché ovunque guardassi vedevo soltanto plastica galleggiante: bottiglie e tappi, imballaggi e frammenti.

Dopo aver ascoltato questo resoconto, Curtis Ebbesmeyer, un oceanografo amico di Moore, propose di chiamare quella massa di rifiuti di plastica Eastern Garbage Patch, che in italiano suona come “chiazza di spazzatura orientale”. Moore non era troppo convinto di quel nome, perché secondo lui non rendeva bene l’idea. La “chiazza di spazzatura orientale” infatti non soltanto era impressionante per estensione ma anche perché era in costante movimento. Nomi come “fogna vorticosa” o “autostrada di spazzatura” sarebbero stati secondo lui ben più efficaci, soprattutto se l’obiettivo era colpire l’opinione pubblica e spingerla ad agire per risolvere un problema di tale portata.

Il nome, tuttavia, è rimasto piuttosto simile a quello proposto da Ebbesmeyer. Con una piccola modifica: si utilizza l’aggettivo grande (great in inglese) per sottolineare non soltanto la sua ragguardevole estensione, ma anche per distinguerla dalle altre che negli anni successivi sono state scoperte. Oggi se ne contano almeno cinque, e gli esperti temono che la plastica possa concentrarsi anche in acque più marginali che finora si immaginavano al sicuro da questo tipo di inquinamento. In alcuni casi ci si riferisce a simili ammassi chiamandoli “isole” o, addirittura, “continenti di plastica galleggiante”. Anche se non sappiamo con esattezza quanto siano estese, possiamo farcene un’idea tenendo presente che la Great Garbage Patch del Pacifico settentrionale scoperta da Moore potrebbe essere grande più o meno quanto il Texas, ossia due volte e mezzo l’Italia (oppure ventotto volte la Sicilia).

Eventi weird

Quando penso alla storia di Moore e alle isole di plastica mi vengono in mente alcuni libri di uno scrittore considerato fra i maestri della letteratura fantastica e del sovrannaturale: Howard Phillips Lovecraft. Gran parte di un certo immaginario, che potete trovare in romanzi, film, serie televisive, videogame, giochi da tavolo e canzoni, non esisterebbe se agli inizi del Novecento un tizio strambo che abitava a Providence, negli Stati Uniti, non si fosse messo a scrivere racconti e romanzi ritenuti, soprattutto all’epoca, piuttosto bizzarri. I titoli che sceglieva per i suoi racconti ne sono la prova; ecco i miei preferiti: L’orrore di DunwichColui che sussurrava nelle tenebreL’abitatore del buioLe montagne della follia, I ratti nel muro. In queste storie abbondano antichi dèi dalle forme improbabili, divinità provenienti dallo spazio profondo, religioni misteriose professate da popolazioni mai esistite e una lunga serie di avvenimenti inspiegabili, presenze sovrannaturali ed esseri mostruosi. Insomma, avete capito: Lovecraft era un tipo cui piacevano le storie strane e piene di mistero. Si è detto che se fosse nato oggi sarebbe diventato un emarginato, un nerd perso nelle sue fantasie e incapace di avere rapporti sociali. A me invece piace immaginarlo come uno scrittore dotato di grande creatività, che si divertiva un mondo a mettere sulla carta le proprie trovate.

È difficile definire in modo preciso le opere di Lovecraft. Non sono storie horror, non sono racconti del mistero e non sono nemmeno i classici racconti di fantasmi che andavano tanto di moda nell’Ottocento. Mark Fisher, filosofo e scrittore scomparso qualche anno fa, ne ha studiato a fondo la produzione, definendo le sue opere letteratura weird. In inglese weird significa “strano”, “strambo”, anche “insolito”. Ma Fisher è più preciso: avviene qualcosa di weird quando ci troviamo davanti a un evento, un oggetto o un’entità che ci appare “fuori posto”, quando ci viene da dire “questa cosa non dovrebbe essere lì!” o ci capita di pensare “quanto è grottesca e assurda questa cosa?”. Le opere di Lovecraft sono ricchissime di episodi simili. E quando i suoi poveri protagonisti umani si trovano coinvolti in eventi così bizzarri, finiscono di solito per impazzire. Per due ragioni: nessuno crede a quello che hanno visto e ciò che hanno visto è così “alieno”, così “diverso” rispetto alla normale vita quotidiana, da portarli alla pazzia.

È quello che accade al protagonista di uno dei suoi racconti più famosi: Dagon, scritto nel 1917. Prima di lanciarsi dalla finestra perché in preda al terrore per l’esperienza che ha vissuto, il protagonista di questa brevissima storia (lunga poche pagine) racconta la sua disavventura nel Pacifico del Sud. Catturato e rinchiuso su una nave tedesca, riesce a scappare a bordo di una piccola scialuppa ritrovandosi alla deriva nel vasto mare. Una mattina, quando ormai ha quasi abbandonato ogni speranza, fa una scoperta sconvolgente. Il mare attorno a lui è ricoperto da «una massa disgustosa di fango nero» che si estende in ogni direzione. L’atmosfera è pestilenziale: in giro ci sono carcasse di pesci, ma non c’è un solo essere vivente in vista. Il protagonista è sconvolto, azzarda qualche ipotesi sull’origine di quel fango, ma abbandona ogni tentativo di indagine quando scopre che può addirittura camminare su quella «massa disgustosa», come se fosse una vera e propria isola. È nel bel mezzo di un evento weird: la comparsa di un’isola putrida di proporzioni gigantesche in pieno oceano. Niente di tutto ciò dovrebbe essere lì. C’è qualcosa di sbagliato in quella presenza misteriosa e sbalorditiva…

La trama di Dagon presenta numerose analogie con l’avventura vissuta da Moore nel Pacifico. Del resto, quando al centro del discorso ci sono i problemi ambientali non è affatto raro imbattersi in eventi puramente weird. Plastiche rinvenute nella placenta umana e in altri organi, piccole isole che scompaiono perché la sabbia che le costituisce viene raccolta ed esportata in grandi quantità e barriere coralline che diventano grovigli spettrali a causa dell’aumento della temperatura delle acque sono soltanto alcuni dei fenomeni che caratterizzano l’Antropocene. L’impatto delle attività umane sul pianeta è infatti così intenso e diffuso che oggi possiamo aspettarci di trovare tracce della nostra presenza e delle nostre attività in ogni angolo del pianeta, sui fondali marini come nel sottosuolo, sulle vette più alte come nei deserti più inospitali.

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Pacifico - 2022
Pensiero
Danilo Zagaria

è biologo, divulgatore scientifico e redattore editoriale. Scrive di libri, scienza e animali su diverse testate, fra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera». Il suo sito personale è La Linea Laterale. Nel 2020 ha fondato la rivista letteral-scientifica Axolotl.

Pubblicato:
14-10-2022
Ultima modifica:
14-10-2022
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