Ritorno a Francoforte - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Herbert Marcuse e l'attivista statunitense Angela Davis, 1968.
Herbert Marcuse e l'attivista statunitense Angela Davis, 1968.

Ritorno a Francoforte

L'attualità delle analisi nate quasi un secolo fa intorno alla "Scuola di Francoforte" conferma la loro capacità descrittiva riguardo le dinamiche che interessano lo Stato autoritario, il capitalismo e addirittura il femminismo. Una retrospettiva e una (nuova) lettura.

Herbert Marcuse e l'attivista statunitense Angela Davis, 1968.
Intervista a Giorgio Fazio
di Adriano Ercolani
Giorgio Fazio

ricercatore di Filosofia politica, ha pubblicato "Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità" (2015) e numerosi saggi sulla nuova teoria critica tedesca. Ha inoltre curato l’edizione italiana dei libri di Rahel Jaeggi "Alienazione" (2015) e "Critica delle forme di vita" (2020).

Adriano Ercolani

(1979) si occupa da oltre vent'anni dei rapporti tra cultura occidentale e orientale, esplorandone le diverse manifestazioni artistiche. Tra i fondatori deI movimento internazionale Inner Peace, collabora al progetto filosofico Tlon e pubblica regolarmente interventi e approfondimenti su numerose testate (tra cui Linus, Blog del Fatto Quotidiano, minima& moralia).

Poche esperienze filosofiche nel Novecento hanno destato discussioni, rivolte, scissioni e revisioni come la cosiddetta "Scuola di Francoforte".
La definizione, nella sua efficace vaghezza, sembrerebbe includere pensatori dagli esiti profondamente diversi: basti pensare come figure situate su posizioni diametralmente opposte nello scacchiere ideologico dell'epoca si riferissero alle precedenti posizioni di Adorno, pur seguendo tangenti completamente inconciliabili.
Molti sono i punti i comuni che ne uniscono i principali interpreti, in particolare la riflessione critica sulla società contemporanea, ma forse è più illuminante esplorarne le differenze.
Giorgio Fazio, già autore e autore del volume  Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità per Mimesis, oltre che curatore di diversi testi relativi al pensiero di Carl Schmitt, Jürgen Habermas e Rahel Jaeggi, ha dedicato alla Scuola di Francoforte una riflessione importante, per mole e lucidità.
Si tratta del volume Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, edito alcuni mesi fa da Castelvecchi.
Come dimostrato nei suoi diversi interventi come relatore accanto a nomi del calibro di Nancy Fraser e Saskia Sassen nella rassegna filosofica Ripensare la comunità, organizzata da Castelvecchi con Filosofia in Movimento presso il Macro di Roma nel 2019, Fazio riesce a conciliare spessore accademico e abilità divulgativa.

Il libro non è però una mera ricostruzione museale di una passata esperienza filosofica, al contrario è interessante proprio per la capacità di riproporre con urgenza la validità attuale dello sguardo francofortese.
Come scrive Fazio nell'introduzione: "In un passaggio storico che vede il moltiplicarsi di crisi che vanificano aspettative di benessere, provocano sentimenti di disorientamento e impotenza, generano bisogni di sicurezza che alimentano pulsioni identitarie e autoritarie, si torna a leggere i testi di questa corrente di pensiero novecentesca, trovandovi strumenti per capire la nostra contemporaneità".

In questo, il libro più che un freddo strumento di studio appare un appassionato tentativo di portare avanti il discorso critico francofortese.
L'imponente ricerca bibliografica che supporta il volume è la testimonianza di una complessa ricostruzione dei percorsi, fecondi anche quando apparentemente contraddittori, che tuttora derivano da quella fondamentale stagione filosofica.
Ne abbiamo parlato con l'autore.

  

Adriano Ercolani - Come riassumesti a un neofita il periodo classico della Scuola di Francoforte?

Giorgio Fazio - La teoria critica della Scuola di Francoforte nasce in Germania all’inizio degli anni Trenta, su iniziativa di Max Horkheimer e di un gruppo di studiosi provenienti da diverse discipline, alcuni dei quali destinati a divenire protagonisti del dibattito filosofico e culturale novecentesco. Basti ricordare che tra i membri del primo gruppo di ricerca interdisciplinare, che si riuniva nell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte sotto la direzione un po’ dittatoriale dello stesso Horkheimer, figurano giovani studiosi del calibro di Theodor Wiesegrund Adorno, Walter Benjamin, Erich Fromm, Otto Kircheimer, Leo Löwenthal, Herbert Marcuse, Franz Neumann, Friedrich Pollock e altri.

Come è evidente, quindi, si trattava di un gruppo di ricerca straordinario, che riuniva diverse competenze e approcci teorici, con lo scopo di analizzare con uno sguardo pluri-prospettico e tuttavia il più possibile organico le radicali trasformazioni che stavano investendo la società tedesca ed europea in quel momento, nel tempo compreso tra le due guerre mondiale. L’ambizione iniziale era quella di rinnovare gli strumenti di analisi sociale del marxismo, fuoriuscendo da approcci deterministici, economicistici e teleologici, come quelli tipici della Seconda e della Terza Internazionale. Di fronte agli scenari di regressioni e di involuzioni autoritarie che si stavano profilando – ricordiamoci che è nei primissimi anni Trenta che si affermò rapidissimamente il partito nazionalsocialista di Hitler - ci si rendeva conto che i modelli di spiegazione sociale che si soffermavano soltanto sulle dinamiche economiche e sul conflitto tra interessi di classe contrapposti non potevano bastare.

La teoria del marxismo ortodosso postulava uno scenario tutto sommato rassicurante. L’idea era che lo sviluppo capitalistico avrebbe acutizzato le crisi del sistema economico, radicalizzando le disuguaglianze economiche, in modo tale che alla concentrazione monopolistica e finanziaria dei capitali e allo sviluppo distorto delle forze produttive, da una parte, sarebbe corrisposto l’immiserimento delle classi lavoratrici e un aumento dei livelli di sfruttamento, dall’altra. Queste contraddizioni – questo era l’assunto di fondo – avrebbero acutizzato il conflitto di classe e quindi avrebbero aperto le porte prima poi ad un esito rivoluzionario di segno progressista, dando forza a chi si batteva per il superamento dell’organizzazione capitalistica dell’economia e per l’avvento del socialismo.

All’inizio degli anni Trenta, tuttavia, ad osservatori acuti come i francofortesi era divenuto ormai chiaro che le crisi economiche – come la grande crisi del ’29, che esercitò i suoi effetti devastanti anche in Germania – nonostante generassero miseria e aumento delle disuguaglianze, non conducevano affatto a sbocchi rivoluzionari. Tutto al contrario, da una parte il capitalismo si stava riorganizzando in una inedita simbiosi con gli apparati dello Stato per uscire dalle crisi, dall’altra, sul piano politico, molti settori della popolazione, anche le classi sociali più svantaggiate – innanzitutto le classi medio-basse in declino ma anche una parte all’inizio minoritaria del proletariato industriale e dei ceti popolari – si orientavano verso soluzioni politiche autoritarie e di destra. 

Una delle domande di partenza dei francofortesi fu quindi la seguente: come era possibile che gruppi sociali impoveriti, economicamente e civilmente, in un periodo di crisi, finivano per appoggiare forze politiche, come appunto il partito nazionalsocialista, che dietro la retorica della nazione e del popolo tradito dalle élite cosmopolitiche, di fatto faceva gli interessi dei grandi gruppi industriali del capitalismo finanziario e monopolistico? Come era possibile che settori sociali oppressi dalle vecchie e dalle nuove forme di dominio, finivano per identificarsi con assetti dominanti che andavano a propria volta contro quelli che avrebbero dovuto essere i loro interessi di liberazione e di emancipazione? I francofortesi capirono che per spiegare queste dinamiche bisognava acquisire una prospettiva di analisi molto più complessa, capace di fare luce su forme di potere ben più pervasive, non più solo economiche, ma anche simboliche, comunicative, psico-sociali. Parimenti bisognava fare luce sulle sofferenze sociali, i sentimenti di ansietà e di panico dei ceti sociali subalterni. Da qui nacque l’intuizione geniale di applicare la psicoanalisi all’analisi sociale: di unire Marx con Freud. I francofortesi si rendevano conto che i sentimenti di disagio sociale presso la popolazione stavano generando desideri crescenti – di natura sado-masochistica – di sottomissione ad un’autorità esterna, capace di compensare in termini surrogatori la debolezza realmente vissuta nella propria vita. Stavano inoltre generando il desiderio compensatorio di dominio su altri soggetti concepiti come inerm. Simili torbide istanze emotive potevano essere sfruttate da un’ideologia politica autoritaria – come quella nazista – capace di canalizzarle in modo contrario agli interessi di chi li provava. Ma per capire queste dinamiche era necessario approntare nuovi strumenti di analisi sociale.

Da questi ragionamenti, nacque così l’idea di formare un gruppo di ricerca interdisciplinare in grado di mettere insieme analisi economica, analisi politica, analisi culturale e analisi psico-sociale, per analizzare in modo unitario i processi di trasformazione allora in corso. Si spostava con questo il fuoco di attenzione dall’analisi della struttura economica alle manifestazioni della vita culturale della società e ai processi di socializzazione primaria dei soggetti nella famiglia e nella vita ordinaria, per tentare di afferrare la genesi degli orientamenti anche caratteriali degli individui.  Si trattava di mostrare come i modelli di socializzazione autoritari nella famiglia, ma anche gli immaginari simbolici veicolati dalle nuove forme della cultura di massa, lavoravano sui disagi psichici delle persone e e facevano penetrare nella testa delle persone attitudini adattive e identificative nei confronti dell’autorità. Attitudini che solo potevano spiegare perché classi sociali oppresse potevano schierarsi a destra dello scacchiere politico e potevano accettare assetti di dominio che andavano contro i loro interessi di liberazione e di emancipazione.

La Scuola di Francoforte nacque quindi dall’esigenza di integrare diversi saperi – filosofia, psicoanalisi, sociologia, arte, economia, diritto – per poter leggere in maniera integrata fenomeni paradossali proprie delle nuove società di massa, di cui fino a quel punto non si era in grado di cogliere la connessione interna. Intrecciando analisi empiriche, inchieste sul campo svolte anche con il metodo delle interviste, e un raffinatissimo strumentario teorico, precisato tramite il confronto con le punte più alte della filosofia moderna, questi teorici volevano offrire un contributo al superamento dei meccanismi che analizzavano: smascherando i torbidi meccanismi ideologici di poteri pervasivi puntavano a far saltare il cemento che teneva unita la società sotto il segno del dominio e, tramite l’analisi – questo era lo scopo ultimo – a risvegliare gli interessi all’emancipazione degli attori sociali subalterni. 

Dopo il loro periodo di esilio dalla Germania nazista negli Stati Uniti, e anche in seguito alla conoscenza del mondo americano, i francofortesi nel secondo dopoguerra estesero poi le loro analisi sociali anche alle società democratiche occidentali del tardo capitalismo. Da un certo momento in poi, essi cominciarono a scorgere in queste società organizzazioni sociali “unidimensionali”, da cui erano evaporate le alternative politiche di società. Horkheimer, Adorno e Marcuse definirono queste società come “società totalmente amministrate”. 

AE - Perché ritornare oggi a Francoforte?

GF - Io credo che il modello di analisi sociale della Scuola di Francoforte sia oggi più che mai attuale e ci sia molto da imparare dal loro approccio. In questo senso io con il mio studio ho voluto auspicare anche un “ritorno a Francoforte”.

Sono molti gli scenari che, a mio parere, nel nostro mondo segnato dal trionfo e dall’egemonia del neoliberismo, e dall’avanzata dei populismi autoritari, sembrano confermare alcune loro diagnosi.

Innanzitutto si può dire che in un’epoca segnata del “realismo capitalista” sembrano trovare conferma le diagnosi francofortesi relative al carattere unidimensionale delle società contemporanee. Si può sostenere poi che i francofortesi avevano intuito l’incombente crisi ecologica, criticando un modello di sviluppo basato su una razionalità meramente strumentale, operativa, tecnica, votata allo sfruttamento indiscriminato della natura, come mera risorsa da dilapidare gratis. Oggi poi si parla di una inedita “società della sorveglianza”, resa possibile dal controllo sui comportamenti individuali dei grandi gruppi monopolistici del digitale. Per alcuni versi, quindi, sembrano trovare conferma la previsione più azzardate, fatte dai francofortesi, su una futura società totalmente amministrata e automatizzata. Attuali sembrano anche le loro analisi sulla funzione ideologica dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità e dell’industria culturale, quali motori di integrazione sociale, così come anche le loro ricerche sociali sulle tecniche di costruzione del consenso dei movimenti di estrema destra di stampo neofascista. Un approccio come quello francofortese ci può insegnare a cogliere i nessi tra queste diverse tendenze: a cogliere nel particolare l’effetto o l’espressione di una tendenza di fondo di un’epoca.

Ciò che a mio modo di vedere va riaggiornato, come ho tentato di mostrare nel mio libro, sono alcuni presupposti di fondo della prima impostazione della teoria critica francofortese che non possiamo oggi semplicemente reiterare. Nel mio studio ho tentato di mostrare questo punto, ricostruendo l’evoluzione di questa tradizione di pensiero in seguito allo spegnersi della prima generazione di francofortesi (Horkheimer, Adorno, Marcuse) e all’emergere di altre figure di spicco come Habermas, Honneth, Fraser, Streeck, Jaeggi, Rosa. In qualche modo le generazioni successive hanno tutte ribadito un punto fondamentale: il critico sociale non può mettersi più nella posizione di contempla dall’esterno un paesaggio sociale in rovine, come alla fine tendevano a fare i primi francofortesi. La critica sociale deve lavorare piuttosto a rintracciare nelle pieghe delle soggettività e dei processi sociali analizzati, non solo gli effetti del dominio e della reificazione sociale, ma anche le potenzialità di emancipazione che possono operare per la messa in questione degli assetti dominanti. In questo senso la critica deve congedarsi da una lettura apocalittica della società, in cui i soggetti sono totalmente manipolati, e deve riportare alla luce i potenziali di trasformazione che emergono dalla società stessa. I primi francofortesi, con l’eccezione di Marcuse, avevano smesso di riportare alla luce momenti di critica affioranti dalla società stessa.

AE - Qual è stato il ruolo di Habermas nell'evoluzione della teoria critica?

GF - Habermas ha impresso alla teoria critica quella che può essere denominata una «svolta comunicativa». Per comprendere questo cambio di paradigma bisogna avere presenti i problemi che questo filosofo ha individuato nella prima teoria critica e a cui ha cercato di rispondere. Sono i problemi a cui ho fatto appena riferimento. Una delle critiche di Habermas ai primi francofortesi è stata che costoro non avevano chiarito i fondamenti della loro stessa critica della società: ossia i criteri grazie ai quali potevano descrivere le società tardo-capitalistiche come società segnate da un dominio incontrastato. Da quale punto di vista i teorici critici potevano descrivere in modo interamente negativo la società contemporanea? In forza di quali parametri di misura? Dove si collocava il critico per poter descrivere la società in questo modo, se anch’egli era parte della società che indagava?

Bisognava quindi descrivere in modo più complesso la società, pena il ridurre il gesto della critica sociale ad un esercizio sospeso per aria e non spiegabile. La conclusione di Habermas è stata che i primi francofortesi non erano stati in grado di riconoscere nella società contemporanea la presenza di momenti di un’altra razionalità: una razionalità non strumentale ma comunicativa.

Habermas ha delineato una “teoria dell’agire comunicativo” che gli ha permesso di additare la presenza di potenziali critici di ragione, e di istanze di verità, giustizia e autenticità, nelle stesse pratiche comunicative degli attori sociali comuni della modernità. Attori che quindi non potevano essere descritti come semplicemente manipolati dal dominio e colonizzati da una razionalità strumentale e tecnica. Questo cambio di paradigma ha avuto l’effetto di mettere la teoria critica nelle condizioni di riconoscere le risorse epistemologiche ed etiche degli attori sociali. È solo a partire da questa rottura con la prima teoria critica che Habermas è potuto “tornare a Francoforte”, delineando nel suo monumentale Teoria dell’agire comunicativo del 1981, un vero e proprio programma di riattualizzazione del progetto di indagine interdisciplinare dei primi anni Trenta delineato da Horkheimer e i suoi collaboratori, ma su basi teoriche profondamente rinnovate.

Nel quadro del suo discorso, Habermas ha scommesso molto sulle potenzialità di una sfera pubblica democratica, quale luogo di emersione della critica sociale, di ragioni comunicative emancipative e trasformative. Negli ultimi anni, tuttavia, anche il suo sguardo sembra essersi fatto più cupo e negativo. Da qui anche il suo tardo interesse per il tema della religione e per le potenzialità critiche che queste a suo modo di vedere continuano a conservare.

Theodor Adorno, selfie ante litteram.

Theodor Adorno, selfie ante litteram.

AE - Come riassumeresti il rapporto tra Axel Honneth e Habermas?

GF - Nel mio libro ricostruisco come, da un certo momento in poi, il programma habermasiano è apparso allontanarsi troppo dalla lezione dei primi francofortesi ad una terza generazione della Scuola di Francoforte che è cominciata ad emergere nei primi anni Ottanta. Il capofila di questa terza generazione è stato Axel Honneth, il successore di Habermas alla cattedra di filosofia sociale a Francoforte.

Per un verso Honneth ha recepito la svolta comunicativa di Habermas. Per altro verso, ha voluto riattivare un legame più esigente con la prima teoria critica.

Proprio a partire da una riflessione sulle modalità con cui Habermas aveva operato la svolta comunicativa della teoria critica, Honneth ha cominciato a battere un proprio peculiare percorso di ricerca. La ragione principale del suo distanziamento da Habermas è stata la convinzione che il suo approccio, concentrandosi prevalentemente sui fondamenti linguistici della comunicazione interumana, avesse operato un’astrazione dal terreno prelinguistico delle esperienze intersoggettive. Honneth ha invitato a puntare lo sguardo sulle esperienze morali di disconoscimento sociale patite dai soggetti nelle loro relazioni con gli altri, che non nascono semplicemente da disturbi nella comunicazione linguistica. L’idea fondamentale di Honneth è che ciascuno di noi si confronta abitualmente con la realtà sociale nella quale è collocato alla luce di una serie di aspettative di riconoscimento reciproco, radicate nelle stesse pratiche sociali. Ma ci rendiamo conto di queste aspettative di riconoscimento quando vengono deluse o disattese, quando viviamo esperienze di sofferenza, di umiliazione e di doloroso disconoscimento.   

Questo capita quando per esempio nelle relazioni di intimità, di amicizia o di amore, ci troviamo dentro rapporti che non sono orientati da una cura amorevole per i bisogni dell’altro, ma al contrario da violenza e dominio. Oppure, per esempio, nelle relazioni di lavoro, quando avvertiamo di non essere rispettati nella nostra autonomia e nei nostri diritti, o non riceviamo l’equa considerazione che crediamo di meritare rispetto al nostro contributo alla cooperazione sociale. Oppure nei rapporti politici quando i nostri bisogni e i nostri desideri non sono ascoltati e non hanno possibilità di farsi valere nella sfera pubblica, oppure non vengono rappresentati e discussi. 

In tutte queste esperienze soffriamo perché implicitamente ritroviamo in questi rapporti sociali componenti fondamentali della nostra vita, da cui ricavare il senso della nostra identità e della realizzazione personale.

Le esperienze negative di disconoscimento procurano dunque una lesione al senso della nostra integrità, e rimandano ad una serie di aspettative di reciproco riconoscimento, che noi consideriamo giuste. Come è evidente, non si tratta solo di riconoscimenti economici. Si tratta anche di riconoscimenti simbolici, sociali, in mancanza dei quali viene meno la capacità di rapportarsi positivamente alla nostra esistenza, così come la facoltà di articolare autonomamente i nostri bisogni e i nostri desideri più autentici.

È interessante nella prospettiva di Honneth il tentativo di ricondurre a queste sofferenze sociali la genesi dei principali conflitti sociali. La sua idea è che i conflitti del nostro tempo vadano letti in primo luogo come lotte per il riconoscimento. Le esperienze negative di disconoscimento possono avere quindi anche un risvolto positivo, in quanto mobilitano i soggetti a lottare per rifondare la società sulla base di una trama di rapporti di reciproco riconoscimento.

Honneth obietta ad Habermas, quindi, che per comprendere queste dinamiche non basta analizzare gli atti comunicativi che servono a coordinare le azioni dei soggetti in modo consensuale. Le esperienze di disconoscimento e le lotte per il riconoscimento eccedono il campo del linguaggio. Questo diventa evidente soprattutto quando sono coinvolti gruppi sociali che sono privi degli strumenti culturali per articolare discorsivamente i loro desideri e i loro bisogni. I gruppi subalterni, questa è una delle intuizioni di Honneth, esprimono i loro bisogni di riconoscimento repressi in primo luogo nella forma di sentimenti morali di umiliazione e di vergogna, che solo talvolta riescono a prendere la forma di richieste discorsivamente e pubblicamente articolate. Ciononostante questi sentimenti negativi hanno una loro realtà e possono diventare anche fattori di mobilitazione politica per un’idea di giustizia allargata.

Honneth ha elaborato così un nuovo paradigma di teoria sociale, incentrato sulla nozione hegeliana di «lotta per il riconoscimento». Nella dinamica dei conflitti per il riconoscimento reciproco egli ha individuato il motore della trasformazione politica nel segno dell’emancipazione. A partire da una teoria della giustizia come riconoscimento, egli ha voluto rilanciare nel dibattito filosofico contemporaneo la lezione dei primi francofortesi, valorizzando una critica della società capitalistica che ponga al centro, al di là della richiesta di giustizia distributiva, la questione della buona vita e delle condizioni intersoggettive che la rendono possibile.


AE -
Cosa pensi della critica femminista di Nancy Fraser?

GF - La teorica statunitense Nancy Fraser, che io faccio rientrare nel mio studio in questa lunga storia della Scuola di Francoforte, ha sviluppato negli ultimi anni una critica molto complessa al cosiddetto femminismo di seconda generazione. Fraser ha denunciato una dinamica paradossale, ossia che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada sono stati utilizzati, negli ultimi decenni, per scopi molto diversi, fino a diventare fonti di giustificazione di nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento.

La tesi di Fraser è che alcuni versanti del movimento per la liberazione delle donne hanno finito per sviluppare una “relazione pericolosa” con il neoliberismo. Questo perché una serie di idee femministe sono state utilizzate a fini individualistici. Mentre in passato le femministe criticavano una società dove si promuoveva il carrierismo, e mentre il movimento delle donne una volta aveva come priorità la solidarietà sociale, negli ultimi decenni alcuni settori del femminismo hanno festeggiato le imprenditrici. Mentre inizialmente il femminismo valorizzava la “cura” e l’interdipendenza umana, poi alcuni settori del femminismo hanno incoraggiato il progresso individuale e la meritocrazia.

Dietro questa inversione di significato, Fraser ha individuato la realtà del cambiamento del capitalismo, che da stato-assistito è diventato globalizzato e neoliberista. Ma per compiere questa trasformazione, il capitalismo ha dovuto operare una lotta per l’egemonia culturale che si è servita anche del vocabolario di emancipazione dei nuovi movimenti emersi tra anni Sessanta e Settanta – non solo quello femminista, ma anche quello anti-razzista, e poi quello per i diritti delle comunità LGBT+. Solo che questo vocabolario di emancipazione è stato cambiato di segno: dall’essere veicolo di promozione di percorsi di emancipazione collettiva, critici nei confronti degli assetti di potere e di dominio del capitalismo, è divenuto veicolo di strategie di emancipazione individuali, che sono entrate in sintonia con il modello di promozione e di autorealizzazione individualistico del neoliberismo, sintonico rispetto ai valori della carriera nell’azienda, della meritocrazia individualista e della gerarchia. Da questa commistione tra nuovo ciclo di accumulazione capitalistica, quello neoliberista, e le istanze di emancipazione dei nuovi movimenti, spuntati di ogni dimensione critica anticapitalista, è emerso quel nuovo paradigma che Fraser ha denominato “neoliberismo progressista”. Nella sua analisi questo neoliberismo progressista è però è entrato in crisi con l’affermazione del momento populista. Oggi ci troveremmo secondo la sua diagnosi in una fase intermedia e di transizione. Secondo Fraser, in questa frase, la sfida per le forze progressiste radicali dovrebbe essere quella di riunire le lotte per i diritti civili con quelle per i diritti sociali, le lotte per il riconoscimento con quelle per la distribuzione, per costruire un nuovo blocco egemonico che inizialmente punti a un populismo progressista, per poi mirare ad una rinnovata idea di società socialista democratica.

Io credo che l’interesse della posizione di Fraser sia anche dato dal fatto che lei riesce ad inserire tutte queste analisi nel quadro di una rinnovata teoria sociale che offre una visione complessiva delle dinamiche delle nostre società capitaliste. In questo Fraser si dimostra realmente una discepola della Scuola di Francoforte. Secondo la sua analisi, la caratteristica di fondo delle nostre società capitaliste è quella di reggersi su una serie di contraddizioni sociali che tendono puntualmente a precipitare in crisi di varia natura. Le contraddizioni sono sia quelle che nascono all’interno del sistema economico, come quella tra interessi del capitale e interessi dei lavoratori, sia le contraddizioni che nascono dal modo in cui il sistema economico si rapporta agli altri ambiti della società: politica, mondo della riproduzione sociale (famiglie, amicizie, reti associative e di vicinato, cultura), ambiente e natura.  Per un verso l’economia dipende da questi ambiti esterni: se non ci fosse un lavoro di cura, come quello svolto dalle donne, ma anche sistemi di protezione sociale del Welfare State (scuola, ospedali, etc.) non ci sarebbero nemmeno lavoratori e lavoratrici in grado di lavorare per il mercato capitalistico. Per altro verso, però, il sistema economico attinge gratis da questi ambiti esterni, senza curarsi della loro riproduzione (si pensi in questo senso al rapporto che il capitalismo intesse con la natura). È come quindi se il sistema economico capitalistico distruggesse il ramo sui cui poggia, nella misura in cui distrugge le sue stesse condizioni di possibilità. Questo genera alla lunga crisi di varia natura: crisi democratica, crisi del mondo della cura, crisi ecologica. Tutte queste crisi hanno la loro radice nel capitalismo.

Per tutte queste ragioni quando i movimenti per l’emancipazione e per il riconoscimento si distaccano dalla critica del capitalismo, finiscono inesorabilmente per essere intercettati dallo stesso capitalismo.

 

AE - È possibile ripensare oggi la critica dell'alienazione?

GF - Il tema dell’alienazione costituisce uno dei campi di lavoro fondamentali della nuova teoria critica tedesca. Non a caso. L’alienazione costituisce infatti una categoria con cui oggi è possibile cogliere molte delle sofferenze sociali che si stanno propagano nelle nostre società, in seguito a decenni di egemonia neoliberista.

È in particolare Rahel Jaeggi che ha rilanciato questo tema nel dibattito filosofico e sociologico contemporaneo, con il suo affascinante testo intitolato proprio Alienazione, uscito in Germania nel 2005. Si tratta di uno studio dedicato a chiarire quali erano i limiti dell’uso che veniva compiuto in passato del concetto di alienazione nel marxismo e nell’esistanzialismo, e quali sono le vie che consentono oggi di reintrodurlo quale strumento idoneo ad interpretare le tante forme di sofferenza sociale del nostro tempo.

Per descrivere cosa è l’alienazione, Jaeggi ha utilizzato la formula paradossale di «relazione in assenza di relazione». Per la filosofa di Berlino, il concetto di alienazione vuole descrivere un rapporto deprivato dei suoi tratti più autentici, una relazione in cui sono soffocati i margini di autonomia e d’identificazione soggettiva. L’alienazione è quindi connessa con il problema della mancanza di potere e di autonomia, ma anche con il problema della perdita di senso. Essa non indica semplicemente dissociazione od estraneità, ma anche una relazione deficitaria rispetto a qualcosa con cui i soggetti aspirano ad essere in relazione. Non scaturisce da semplice eteronomia, ma indica una situazione paradossale in cui non ci si riconosce in ciò che pure si contribuisce a creare e che retroagisce, per questo, come qualcosa di estraneo. Quando critichiamo i rapporti di lavoro come alienanti, come mette in luce Jaeggi, non ci limitiamo a denunciare un trattamento ingiusto o anche lo sfruttamento che discende da un’espropriazione del surplus prodotto. Oltre a ciò, denunciamo anche l’assenza di margini di autonomia e di autorealizzazione nel lavoro. Non a caso la critica dell’alienazione ha costituito un motivo centrale di tutta la storia del movimento operaio: ciò è avvenuto perché essa veicolava non solo una richiesta di salari più alti e di giustizia redistributiva, ma anche una trasformazione radicale della forma del lavoro sociale. Criticando l’alienazione nel lavoro in fabbrica, si aspirava ad un maggiore controllo dei processi di produzione e dei loro fini, ad una maggiore democrazia e cooperazione, ad un arricchimento e ad una riqualificazione delle stesse prestazioni svolte. Tutto questo a partire dall’implicita assunzione che la partecipazione attiva al lavoro sociale costituisce un fattore fondamentale di un’esistenza piena e realizzata.

Per rilanciare il tema dell’alienazione, secondo Jaeggi, occorre però oggi anche ripensarlo. Intanto si può vivere rapporti di alienazione non solo nel lavoro, ma anche nei rapporti di intimità, nelle relazioni d’amore, nonché rispetto alla politica democratica. Oggi occorre inoltre congedarsi dall’idea che si possa aspirare ad una condizione di perfetta armonia e autonomia. Ci sono delle dimensioni di estraneità che sono parte costitutiva dell’esperienza dell’essere umano, e che hanno anche un valore positivo, perché aiutano a maturare il senso dei propri limiti e della propria inter-dipendenza dagli altri. Non ogni estraneità, fuori e dentro di noi, è in quanto tale alienante. È alienante quell’estraneità generata da rapporti di dominio, che blocca la nostra riflessività, la nostra capacità critica, e ci impedisce di porre insieme agli altri la domanda su che tipo di vita vogliamo veramente vivere.

Questo è quello che accade oggi. La promessa di autonomia ed emancipazione individuale, vero e proprio miraggio del nuovo capitalismo neoliberista, si rovescia puntualmente, il più delle volte, in un’inedita forma di servitù, fatta di oppressione, di impotenza, di degradazione umana e di svuotamento interiore.


AE - In una lente critica francofortese, come si può osservare il fenomeno del cosiddetto accelerazionismo?

GF - Nell’ambito della tradizione della teoria critica di matrice francofortese, che ho indagato nel mio studio, chi si è occupato maggiormente del tema dell’accelerazione è il sociologo e filosofo tedesco Hartmut Rosa.

Secondo la sua diagnosi epocale, delineata in molti libri sull’argomento scritti negli ultimi anni, nel passaggio dalla “modernità classica” alla “tarda modernità”, la concezione della storia come progresso ha ceduto il passo alla percezione di un mutamento accelerato, in quanto processo privo di orientamento e direzionalità.  Oggi l'accelerazione sociale è divenuta una sorta di coazione impersonale, che si presenta come una potenza obiettiva e impersonale, sfuggita al nostro controllo. Da qui la tesi di Rosa, condivisa con altri autori, che la metafora che con più incisività riesce a restituire il passaggio storico che stiamo vivendo è quella della “stasi frenetica”. Uno dei segni più rivelativi di questa “stasi frenetica” è l´irruzione di una politica che dopo essersi disancorata da programmi temporali di lunga durata, legittima se stessa ricorrendo in modo sistematico a immagini dromologiche, che insistono sull'esigenza di accelerare i tempi, di abbreviare la durata dei processi decisionali, di non perdere il passo con i tempi che mutano. Già come tale, simile linguaggio tradisce l'ingresso in un orizzonte post-democratico, un esodo dalle strutture temporali della democrazia, che per sua natura ha bisogno di tempi lunghi e di processi dotati di durata e stabilità. Ma al di là di ciò, in questa curvatura futuristica della politica della tarda modernità, va colta anche l´espressione dell’esaurimento della stessa capacità di dominare realmente i processi sociali e di imprimere su di essi un segno di autentica innovazione. Si tratta in altre parole della spia di una capitolazione della politica democratica rispetto alla logica dell'accelerazione, che trova oggi il suo principale motore di dinamizzazione nelle dinamiche sistemiche del capitalismo globalizzato.

A differenza degli “accelerazionisti”, quindi, Rosa non vede nel processo di accelerazione sociale una dinamica foriera di inaspettati rovesciamenti dialettici, per cui l’acutizzazione delle crisi cui metterebbe capo l’accelerazione sociale potrebbe favorire l’apertura di scenari radicalmente alternativi. Direi che in Rosa ci sia una valutazione ben più ambivalente e critica dell’accelerazione sociale, anche se non semplicemente negativa. La sua critica non vuole puntare ad un simmetrico “decelarazionismo” o alla de-crescita. Egli punta ad alimentare piuttosto un immaginario della post-crescita, che ponga al centro – e qui va colto a mio modo di vedere il legame con la tradizione francofortese – il tema della buona vita. Nei suoi libri Rosa compie una diagnosi sociale complessa, per mostrare come l’accelerazione sociale ci fa vivere male, provoca forme generalizzate di alienazioni, dallo spazio, dal tempo, dagli altri, dalle nostre stesse vite, che non solo ci fanno vivere male, ci incapsulano nelle nostre traiettorie singolari e solitarie, non ci fanno gustare la vita, ma non ci fanno nemmeno più porre il quesito sul tipo di vita che vorremmo autenticamente vivere.

Muovendo dal presupposto che l’accelerazione sociale è alimentata per certi versi dagli stessi attori sociali, nei suoi ultimi lavori Rosa mette a punto un criterio alternativo di vita buona che dovrebbe orientare il nostro immaginario verso una società della post-crescita, ossia una società dinamica ma non vincolata in termini coattivi al mito della crescita infinita. Questo criterio con cui valutare la qualità delle nostre vite e delle nostre relazioni con il mondo è quello della risonanza. Una vita non alienata, secondo questo ultimo esponente della critica francofortese, è una vita ricca di esperienze multidimensionali di risonanza, nelle quali quindi il mondo risuona con noi. Sembra quasi un modo per riformulare il vecchio concetto di eros che guidava la critica sociale di Marcuse.

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Europa - 2022
Pensiero
Giorgio Fazio

ricercatore di Filosofia politica, ha pubblicato "Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità" (2015) e numerosi saggi sulla nuova teoria critica tedesca. Ha inoltre curato l’edizione italiana dei libri di Rahel Jaeggi "Alienazione" (2015) e "Critica delle forme di vita" (2020).

Adriano Ercolani

(1979) si occupa da oltre vent'anni dei rapporti tra cultura occidentale e orientale, esplorandone le diverse manifestazioni artistiche. Tra i fondatori deI movimento internazionale Inner Peace, collabora al progetto filosofico Tlon e pubblica regolarmente interventi e approfondimenti su numerose testate (tra cui Linus, Blog del Fatto Quotidiano, minima& moralia).

Pubblicato:
24-02-2022
Ultima modifica:
25-02-2022
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