Tutto il mondo deve essere morto - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Jan Griffier, Il Tamigi durante la Grande Ondata di Freddo del 1739.
Jan Griffier, Il Tamigi durante la Grande Ondata di Freddo del 1739.

Tutto il mondo deve essere morto

La teoria del progresso di Anne Robert Jacques Turgot. Un estratto da "Taccuini nel deserto. Istruzioni per la fine dei tempi" di Ben Ehrenreich, pubblicato da Edizioni di Atlantide (Traduzione di Michele Trionfera).

Jan Griffier, Il Tamigi durante la Grande Ondata di Freddo del 1739.
Ben Ehrenreich

(1972) è un giornalista e scrittore statunitense. Il suo libro Taccuini del deserto è stato pubblicato in Italia da Atlantide. Vive a Los Angeles.

Speculazione politica, diario privato, resoconto di viaggio e inquisizione metafisica: Taccuini del deserto di Ben Ehrenreich è un'opera ibrida che cerca di fare luce sui tempi di crisi, offrendosi come orientamento e come "mappa della fine".
Il grande deserto americano (che l'autore conosce bene) offre lo sfondo per una vasta riflessione su come gli umani si sono rapportati, nelle diverse fasi della loro storia, con il concetto di tempo. 
Di qui la critica che Ehrenreich muove, interessando costrutti come la civilizzazione, la cultura e il linguaggio, e che si pone come metodo per una riconsiderazione generale delle "fedi laiche", più potenti di quelle spirituali, alla base delle nostre società. In particolare, quell'idea di progresso lineare e unidirezionale che l'Occidente trasforma in motivo identitario e di orgoglio. 
Pubblichiamo un estratto del libro, ringraziando Edizioni di Atlantide per la cortese disponibilità.

 

È ampiamente riconosciuto che la prima articolazione esplicita della moderna nozione di progresso sia apparsa in un discorso tenuto nel 1750 dal brillante economista politico Anne Robert Jacques Turgot, allora appena ventitreenne. Non è casuale che uno dei primi strenui sostenitori della libertà economica – “Tutti i rami del commercio devono essere liberi, ugualmente liberi e interamente liberi”, scrisse nel 1773 – sia stato anche il primo a tratteggiare l’ideologia che avrebbe accompagnato ovunque la diffusione del capitalismo, questa mistica dottrina secondo la quale la storia viaggia su un binario a senso unico diretto verso una qualche perfezione ancora inimmaginabile. 

Turgot, che sarebbe stato ministro delle Finanze sotto Luigi XVI, ebbe l’opportunità di testare le sue teorie (se non proprio convinzioni) economiche secondo cui l’umanità era destinata a eliminare ogni suo difetto. Nel 1774, da controllore generale delle finanze, promulgò un decreto che aboliva tutte le restrizioni al commercio del grano. Il raccolto dell’anno successivo fu misero. I mercanti, liberi dalle regole che vietavano di accumulare le riserve, si accaparrarono il grano per far salire i prezzi. La conseguenza fu la carestia. Esplosero le rivolte. In quello che, retrospettivamente, sarebbe stato considerato un preludio alla Rivoluzione francese, le folle, spesso guidate dalle donne, obbligarono mercanti e proprietari terrieri a vendere il loro grano a un prezzo ritenuto ragionevole. La guerra delle farine, così sarebbe passata alla storia, finì con una brutale repressione. Il governo radunò venticinquemila soldati. Dopo un anno, intrighi di corte avrebbero portato alla destituzione di Turgot. Le sue riforme furono presto cancellate. Forse fu fortunato. Morì da privato cittadino, di gotta, dodici anni prima della decapitazione del re. 

Proprio all’inizio del suo discorso, intitolato Sui processi successivi dello spirito umano, Turgot eseguiva una mossa sorprendente. Non appena fatta la distinzione tra il tipo di tempo che governa l’umanità e quello che regola la natura – il secondo segue le leggi cicliche e atemporali della morte e della rinascita, mentre gli eventi umani si succedono gli uni agli altri secondo “uno spettacolo in continua evoluzione”, lineare, in cui le specie sbandano dall’“infanzia” alla “maggiore perfezione” – chiamava in causa lo spettro degli “americani”. E questo alla seconda pagina. Non aveva in mente i cittadini ben equipaggiati di armi dell’attuale sistema di governo americano, ma gli abitanti originari dell’emisfero, la cui presenza poneva un problema. Se la storia doveva essere raccontata come storia del crescente perfezionamento del genere umano, come spiegare l’esistenza di tutti quelli che erano rimasti indietro, le tribù dei cosiddetti primitivi sparpagliati nelle giungle, nelle pianure e nelle distese desertiche? (Adam Smith, contemporaneo di Turgot e sostenitore come lui delle libertà economiche, fece una mossa simile nei paragrafi iniziali de La ricchezza delle nazioni, in cui parlava di “nazioni selvagge di cacciatori e pescatori” accusandole di infanticidio e mettendole in contrasto con quelle “civilizzate e fiorenti”). 

Potremmo pensare che il progresso sia una teoria della storia, e quindi del tempo, ma quasi come prima cosa Turgot spostava l’attenzione dal tempo allo spazio chiamando in causa le Americhe come luogo del passato. Spiegava l’apparente disallineamento nello sviluppo del genere umano e l’anacronistica esistenza di popoli ritenuti selvaggi come il risultato di disuguaglianze che si verificano naturalmente: “La natura, distribuendo in maniera ineguale i suoi doni, ha dato ad alcune menti un’abbondanza di talenti che si è rifiutata di dare ad altre”. Circostanze ambientali differenti permettevano a questi talenti di svilupparsi a ritmi diversi, “ed è dall’infinita varietà di circostanze che si origina la disparità nello sviluppo delle nazioni”. 

La dottrina del progresso fu innanzitutto una teoria della supremazia bianca. Per dirlo meglio, dal momento che le teorie razziali in senso proprio si sarebbero sviluppate solo qualche decennio dopo, fu una presuntuosa espressione di quella che persino allora era una versione paesanotta e amnesica di sciovinismo, un modo di celebrare il predominio europeo ancorandolo al tempo e di rendere l’Europa, e in particolar modo la Francia borbonica, l’apoteosi stessa di ciò che l’uomo poteva raggiungere. Con una mossa parallela, tre quarti di secolo dopo, Hegel avrebbe rivendicato lo stesso onore alla monarchia prussiana. Un altro secolo e mezzo dopo, proprio mentre la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera superava i 350 ppm, luminari del calibro di Francis Fukuyama avrebbero fatto lo stesso con il capitalismo della democrazia liberale americana. Come ideologia di élite presuntuose, il progresso stesso si sarebbe dimostrato straordinariamente resiliente. 

Vale la pena ricordare che i primi europei a mettere gli occhi sulle grandi città delle Americhe non le considerarono come fece Turgot. Francisco Pizarro, conquistatore del Perù, scrisse al re Carlo V che la capitale inca Cusco, che lui stesso depredò e distrusse ampiamente, “è stupenda e ha degli edifici così eleganti che sarebbero stati degni di nota anche in Spagna”. Cortés porse le sue scuse allo stesso re perché non aveva le capacità letterarie necessarie a descrivere adeguatamente le meraviglie di Tenochtitlán, con i suoi templi e le strade rialzate sopra le acque del lago di Texcoco, i suoi giardini profumati, le grandi piazze pubbliche, i mercati pieni di ricchezze: “Sono perfettamente consapevole che questo resoconto sembrerà tanto meraviglioso da essere giudicato poco attendibile; poiché persino noi che abbiamo visto con i nostri occhi queste cose siamo ancora così stupefatti da non riuscire a comprenderne la realtà”. I soldati di Cortés, scrisse il suo ufficiale Bernal Díaz del Castillo, “avevano visitato molte parti del mondo, Costantinopoli, Roma, tutta l’Italia”, ma non avevano mai visto una cosa più bella della città azteca. “Rimasi a fissarlo, e pensai che non sarebbe mai stato scoperto un posto così in tutto il mondo”, scrisse Díaz. “Ma oggi, tutto quello che avevo visto è rovesciato e distrutto; non è rimasto in piedi nulla”. 

Proprio la scorsa settimana ho letto i documenti relativi alla scoperta dei resti di villaggi, strade e insediamenti fortificati tenuti nascosti a lungo dal fogliame dell’Amazzonia, tracce lasciate da milioni di persone scomparse tutte insieme – pressappoco quando gli europei arrivarono nel continente. “Le malattie viaggiano più veloci delle persone”, raccontava al «Guardian» il capo della spedizione archeologica. Forse, gli abitanti dell’Amazzonia erano stati spazzati via prima ancora che i portoghesi raggiungessero la zona. 

È un bel trucchetto, davvero, così perfettamente ingegnoso che Turgot e milioni dopo di lui non lo hanno neanche considerato tale: lasciare che agenti biologici ti aiutino a conquistare mezzo mondo, massacrare e schiavizzare chiunque sopravvive ai microbi, dichiarare primitivi selvaggi i pericolanti resti delle civiltà distrutte e interpretare lo stato di umiliazione e degrado in cui le tue vittime sono costrette a sopravvivere come indizio della tua intrinseca superiorità, del tuo diritto a dominarli e a sfruttarli ancora con la scusa di volerli civilizzare. Progresso, così viene chiamato. 

Turgot proseguiva il suo discorso abbozzando un racconto che ormai dovrebbe sembrarci familiare: le grandi civiltà del passato, Egitto, India e Cina, tutte strangolate internamente dal loro stesso dispotismo, avevano passato il testimone della civilizzazione, attraverso i fenici – in se stessi “nient’altro che agenti di scambi tra i popoli” – alla Grecia e a Roma, finché quest’ultimo impero, vittima della sua discesa nella tirannia, “crollò all’improvviso” sotto gli attacchi di orde di opportunisti. L’ascesa dell’Islam meritava una laconica condanna, quasi tra parentesi, come “un furente diluvio che distrugge tutto il territorio dalle frontiere indiane all’oceano Atlantico e ai Pirenei”. Sulla magnificenza di Bagdad e di al-Andalus si glissava senza commenti, sebbene Turgot sapesse che gli studiosi islamici servirono a trasmettere il passato dell’Europa al suo futuro spargendo “le deboli scintille” della sapienza greca che erano riusciti a preservare. Tanto bastava. “I tesori dell’antichità, salvati dalla polvere [...] evoca[va]no il genio dalle profondità dei suoi rifugi. È arrivato il momento”, proclamava entusiasta Turgot. “Esci fuori, Europa, dall’oscurità che ti ha ricoperto”. 

Alhambra in inverno, Spagna.

Alhambra in inverno, Spagna.

Il pensiero messianico, questo figlio del disastro e questo frutto degli oppressi, nelle mani del vittorioso prende una strana forma tumescente. L’attesa rimane la sua passione guida. Il paradiso ci aspetta, ma ora appartiene alla ragione umana – cioè europea – senza alcun aiuto divino. La conoscenza accresce le sue stesse conquiste. Le scoperte scientifiche e tecnologiche si aggiungono una sopra l’altra. “L’impalcatura sale insieme all’edificio”, scrisse Turgot. Il tempo non è una cicatrice, ma un vanto, e una promessa. “Tempo”, incoraggiò Turgot, “dispiega le tue rapide ali”. 

Il suo discorso si conclude con un peana rivolto al re, non quello al cui servizio sarebbe finito e che in seguito avrebbe trovato la morte sulla ghigliottina di Place de la Concorde, ma il suo predecessore, sempre di nome Luigi, che morì allettato nel palazzo di Versailles a causa del vaiolo – lo stesso virus che aiutò a ridurre la popolazione delle Americhe quasi del 95%. “Oh Luigi, quale splendore ti circonda!”, intonò Turgot. “Secolo di Luigi il Grande, possa la tua luce adornare i regni preziosi dei suoi successori! Possa la tua luce durare per sempre e diffondersi in tutto il mondo!”. 

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Tutti quei morti – il 95% della popolazione dell’emisfero che non sopravvisse ai primissimi incontri con la “maggiore perfezione” dell’Europa – potrebbero in effetti aver alterato il clima. Nonostante alcuni scienziati diano la colpa alle macchie solari o alle eruzioni vulcaniche, è questa una delle attuali teorie che spiega l’avvento della cosiddetta piccola era glaciale, il breve episodio di abbassamento globale della temperatura che raggiunse il picco tra il 1550 e il 1750. Il repentino spopolamento delle Americhe fece scomparire quasi del tutto l’agricoltura su larga scala. Non rimase nessuno a bruciare i boschi e le praterie per far spazio alle coltivazioni, o almeno non come prima. La terra si rigenera velocemente senza di noi: più di quaranta milioni di ettari destinati un tempo all’agricoltura ricrebbero come foreste e savane – le foreste e le pianure vergini, edeniche, che i coloni europei si trovarono di fronte come in un sogno. Ciò significò miliardi di nuovi alberi, pascoli, viti e arbusti che succhiavano anidride carbonica dall’atmosfera: secondo una stima, la riforestazione delle Americhe post-conquista captò tra i cinque e i dieci milioni di tonnellate di carbonio, portando i livelli di emissione globale di anidride carbonica a scendere del 2% e le temperature nell’emisfero settentrionale a crollare. 

29 agosto 1533, l'esecuzione dell'ultimo imperatore inca Atahuallpa.

29 agosto 1533, l'esecuzione dell'ultimo imperatore inca Atahuallpa.

A partire dal 1570, l’Europa patì una serie di inverni letali seguiti da estati fredde in cui il sole a malapena riusciva a illuminare. I raccolti di grano andarono a male. Tra il 1630 e il 1710, la Francia subì cinque carestie spaventose, una delle quali durata più di tre anni. Il sistema feudale, che si basava su un surplus annuale di grano che i contadini pagavano come imposta tributaria ai nobili fondiari, iniziò a disfarsi. E così le ideologie che l’avevano generato, e su cui si fondava. Secondo un resoconto, tra il 1661 e il 1789 la Francia fu attraversata da 1.265 rivolte per il cibo. Una fu nel 1752, due anni dopo che Turgot aveva espresso con grande entusiasmo le sue idee nel testo Sui processi successivi dello spirito umano, proprio quando la piccola era glaciale iniziava a stemperarsi e il clima, almeno per un po’, si stava stabilizzando di nuovo. 

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Oggi tira vento. Due bottiglie di plastica, un pacchetto vuoto di Doritos e un involucro di carta per hamburger si sono uniti alla merda di cane e alle foglie ingiallite di bamboo nel mio quadrato di erba sintetica, doni volati via dai lotti e dai vicoletti. Sono andato via dalla città per due giorni e sono tornato per trovare un clima più caldo. Prima di partire, quasi si gelava ogni notte. Tutti si lamentavano. In Europa faceva ancora più freddo. La neve era caduta fino a sud di Roma. In Inghilterra, le temperature avevano raggiunto il loro minimo. L’esercito britannico era stato chiamato ad accompagnare gli operatori sanitari lungo le strade ghiacciate. Tutto ciò, a quanto pare, perché lo scioglimento del ghiaccio marino e la mancanza di manto nevoso in Siberia aveva portato a un fronte di alta pressione verso nord. Il vortice polare, che di norma blocca le correnti fredde sull’Artico, era collassato permettendo alla bassa pressione e ai venti freddi di calare a sud, sopra l’Europa e l’America occidentale. Nel frattempo, le temperature nell’Artico superano di cinquanta gradi quelle rilevate di media. È ancora inverno, e la temperatura al Polo Nord è sopra lo zero. 

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Considerare stupide e superstiziose le civiltà del passato – o, almeno, più stupide delle nostre – è un riflesso tale che rende difficile immaginare il sollievo che devono aver provato gli uomini del periodo di Turgot nel liberarsi dal peso del passato, e nel lanciarsi in un futuro senza limiti. Le precedenti generazioni di esseri umani avevano riservato una grande venerazione ai loro antenati quasi in ogni angolo del pianeta, e dev’essere stata una gran scocciatura trascinare ovunque quei vecchiacci e le loro strambe idee, sempre con il sorriso sulle labbra. L’estasi di Turgot esplodeva nella sua punteggiatura, e nell’irrequietezza della sua sintassi: “Che ridicole opinioni hanno segnato i nostri primi passi! Quanto erano assurde le motivazioni che i nostri padri avevano inventato per spiegare ciò che vedevano! Sono dei tristi monumenti per la debolezza dell’animo umano!”. 

La prima cosa che si affrettava a negare era l’idea che tutti gli enti fossero vivi e pervasi di divinità. Questa, secondo i suoi calcoli, era una di “quelle illusorie analogie alle quali i primi uomini, nella loro immaturità, si erano abbandonati senza pensarci”. Come bambini, spiegava Turgot, immaginavano che tutte le cose che percepivano “fossero indipendenti dalle loro azioni, prodotte da esseri simili a loro, ma invisibili e più potenti”. Così, ipotizzavano in maniera superstiziosa “che tutti gli oggetti della natura avevano i propri dèi”. Contro questo, Turgot iniziò a sostenere, in maniera fredda, uno sterile monoteismo che, più avanti nel discorso, annuisce alla divinità cristiana ma solo incidentalmente e senza un briciolo del trasporto rivolto alla Ragione, all’Europa e alla Francia. Ma il compito di spogliare il mondo naturale di capacità d’agire e divinità era, a quanto pare, molto importante e non poteva essere trascurato. Affinché la grandiosa avanzata del progresso marciasse in avanti, il palcoscenico andava sgombrato dai rivali. Tutto il mondo deve essere morto, e solo l’uomo deve rimanere vivo e correre verso la gloria del proprio destino. 

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Pensiero
Ben Ehrenreich

(1972) è un giornalista e scrittore statunitense. Il suo libro Taccuini del deserto è stato pubblicato in Italia da Atlantide. Vive a Los Angeles.

Pubblicato:
17-05-2021
Ultima modifica:
03-06-2021
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