L'utopia pulviscolare dello spazio urbano - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Berlins Sky-Warden
Berlins Sky-Warden | Copyright: Heino / Flickr

L'utopia pulviscolare dello spazio urbano

Le figure della mitologia greca e lo sguardo di Calvino sulla città contemporanea, tra invivibile e invisibile.

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Sara Massafra

è dottoranda presso l’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente sulla letteratura, e in particolare sulla poesia contemporanea in rapporto alla filosofia, alla luce delle teorie dell’Ecocriticism. Ha dedicato alcuni studi a Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda in rapporto al pensiero filosofico di G. W. Leibniz, a Luciano Berio, al movimento francese sperimentale Oulipo, a Raymond Quenau e a Geroge Perec.

L’uomo contemporaneo si muove costantemente tra due figure della mitologia greca: Dedalo e Icaro. Se Dedalo rappresenta la città come labirinto, Icaro si aggira in essa con il desiderio di comprenderla dall’alto. Spazio da un lato e desiderio-utopia dall’altro. Il filosofo utopista socialista Charles Fourier, nella Teoria dei quattro movimenti, ha teorizzato una possibilità di armonia tra spazio e desiderio – tra Dedalo e Icaro - dimostrando che il confine tra i due è piuttosto labile. Non è un caso se Italo Calvino scriveva Le città invisibili (1972) sicuramente sotto la spinta del Sessantotto, ma anche con l’ossessione di chiedersi quale fosse l’equivalente creativo dell’utopia nel contemporaneo, sulla base dell’armonia teorizzata proprio da Fourier.

Proprio la lettura e la meditazione sui testi di Fourier, condussero Calvino a curare l’edizione del 1971 de la Teoria dei Quattro Movimenti, constatando come il filosofo francese già guardasse oltre l’umanità stessa, di cui ne contemplava una progressiva estinzione:

«L’utopia come città che non potrà essere fondata da noi ma fondare se stessa dentro di noi, costruirsi pezzo per pezzo nella nostra capacità d’immaginarla, di pensarla fino in fondo, città che pretende d’abitare in noi, non d’essere abitata, e così fare di noi i possibili abitanti d’una terza città, diversa dall’utopia e diversa da tutte le città bene o male abitabili oggi, nata dall’urto tra nuovi condizionamenti interiori ed esteriori».

Le città invisibili di Calvino nascono dal cuore delle città invivibili. Descrivendo le sue città non visibili agli occhi, Calvino voleva immaginare gli spazi della sua quotidianità in una veste utopica, non geograficamente collocata: fuori, ovvero, «dall’inferno dei viventi». La crisi della città troppo grande, diceva Calvino, diventa però l’altra faccia della crisi ecologica. Non costituendo più gli spazi urbani ambienti abitabili, rimane solo la prospettiva dell’immaginazione e del desiderio di uno luogo altro, utopico, che lascia posto al puro desiderio. L’immagine della “megalopoli”, la città continua e uniforme, è emblematica perché è la città incentrata realmente sul desiderio di chi la abita. Marco Polo risponde al Kan delle Città invisibili: «di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie ma la risposta che dà alla sua domanda».

"Icarus" | Jean-Marc Linder / Flickr

Per Calvino, l’ecologia è certamente legata alla constatazione del degrado degli spazi, ma, prima di tutto, alla comprensione del rapporto tra l’individuo e il suo ambiente, e la rappresentazione, tutt’altro che pacificata, della fallita sintonia tra questi due elementi. Quel confine labile di cui scriveva Fourier è anche quello tra spazio non più abitabile e l’individuo come insieme di desideri. Questa utopia urbana di desideri non si configura però più come omogenea, ma può solo essere solo catturata nella dispersione pulviscolare costituita da ciascun individuo. Quell’utopia, a sua volta, si frantuma quindi nella dimensione pulviscolare di ciascun essere umano e nello stesso tempo si insedia in un “non-luogo”, come suggerisce lo stesso etimo di “utopia”.

Oggi più che di utopia in senso stretto ci troviamo di fronte a «campi di energia utopica», come li chiama ancora Calvino in Una pietra sopra, diffusi soprattutto nella letteratura e nell’arte, in cui l’utopia si risolve quasi sempre nel suo contrario, in distopia, nella visione di un futuro infernale (sulla scia di Huxley e Orwell). Ciò che, però, è stato nuovo nelle Città invisibili, rispetto alle “utopie spaziali” e letterarie più diffuse, che vanno da Utopia ai falansteri di Fourier a Flatland, è quanto sostiene Marco Polo in uno dei suoi dialoghi con Kublai Kan, esaurito lo spazio del visibile: «Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti». Il compito che Calvino assume va oltre le geometrie di ogni Flatland: cerca di tenderne la superficie, in alto e in basso, in nuovi sprofondamenti, dove poco a poco il visibile cede il posto all’invisibile. Nelle tante prospettive che costellano Le città e il cielo – una delle sezioni fondamentali de Le città invisibili - da Eudossia, “che si estende in alto e in basso” a Bersabea, la città specchiata nel suo doppio in cielo, non c’è un ordine definitivo: ogni mutamento terreno comporta specularmente anche un ripensamento dello spazio astrale: «Così perfetta è la corrispondenza tra la nostra città e il cielo,  -risposero, - che ogni cambiamento d’Andria comporta qualche novità tra le stelle - ». O che ogni desiderio di “senso ultimo” fosse compensato dall’ “insignificante” e il perenne reso eventuale da ciò che è labile:

«Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più».

Ma pur così, nessuna certezza e nessuna mappa del sempre, infatti «ogni cambiamento implica una catena d’altri cambiamenti, in Andria come tra le stelle: la città e il cielo non restano mai uguali».  L’impossibilità di risalire a un ordine, una volta perso il carattere della “differenza”, della “distinzione”, sarà radicalizzato in Palomar (1983): «Ogni processo di disgregazione dell’ordine del mondo è irreversibile, ma gli effetti vengono nascosti e ritardati dal pulviscolo dei grandi numeri che contiene possibilità praticamente illimitate di nuove simmetrie, combinazioni, appaiamenti».

In questo incessante prodursi di combinazioni e scambi di elementi che costituiscono e creano la città, nulla “avviene”, non viene incontro, ma defluisce, divarica gli sguardi, fugge e isola: «A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose l’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano». Ma neppure alcuna “razionalizzazione”, semplificazione, o geometria utopica potrà essere una soluzione per noi e per la configurazione stessa della città; tra i conglomerati urbani utopici ci sono tracce dissolte di impronte che fuggono: «La città esiste e ha un semplice segreto: conosce solo partenze e non ritorni».

Città immaginaria

Città immaginaria | Erik Berndt / Flickr

Difficilmente Italo Calvino conosceva a quella data le poesie di Wisława Szymborska (né questa Le città invisibili) ma l’immagine di Utopia, da cui solo è possibile partire, è nei due scrittori quasi identica:

Isola dove tutto si chiarisce.
Qui ci si può fondare su prove.
L’unica strada è quella d’accesso.
Gli arbusti fin si piegano sotto le risposte.
Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi
con rami districati da sempre.
Di abbagliante linearità è l’albero del Senno
presso la fonte detta Ah Dunque È Così.
Più ti addentri nel bosco, più si allarga
la Valle dell’Evidenza.
Se sorge un dubbio, il vento lo disperde.
L’eco prende la parola senza che la si desti
e chiarisce volenterosa i misteri dei mondi.
A destra una grotta in cui giace il senso.
A sinistra il lago della Profonda Convinzione.
Dal fondo si stacca la Verità e viene lieve a galla.
Domina sulla valle la Certezza Incrollabile.
Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose.
Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta,
e le tenui orme visibili sulle rive
sono tutte dirette verso il mare.
Come se da qui si andasse solo via,
immergendosi irrevocabilmente nell’abisso.
Nella vita inconcepibile.

 L’utopia potrà essere semmai, “città interiore”, quella che Calvino aveva meditato nel suo saggio su Fourier: «Insomma l’utopia come città che non potrà essere fondata da noi ma fondare se stessa dentro di noi, costruirsi pezzo per pezzo nella nostra capacità di immaginarla, di pensarla fino in fondo, città che pretende d’abitare noi». Calvino allora, avanza l’ipotesi dell’immanenza del residuale, ma condensato in «fortezze di rimasugli indistruttibili». Questo valeva per le sue Città invisibili e per le nostre metropoli presenti e future, informi, decentrate verso periferie di altre periferie, piene di ostruzioni agglomerate senza che uno sbocco le liberi, precarie.

Domani, più che le nazioni, più che le lingue, ciò che farà da tessuto connettivo dell’umano saranno queste reti inestricabili di strade e case, corridoi e tunnel, semafori e sirene, polveri senza cielo, e code, sopra e sottoterra, che si avvicendano, tra miasmi e grida. Saremo come i cittadini di Raissa, capaci di cedere all’incanto della sorpresa, alla gratuità del minimo, alla ricchezza di ciò che “avviene” senza mai essere “evento”:

 «Eppure, a Raissa, a ogni momento c’è un bambino che da una finestra ride a un cane che è saltato su una tettoia per mordere un pezzo di polenta caduto a un muratore che dall’alto dell’impalcatura ha esclamato: – Gioia mia, lasciami intingere! – a una giovane ostessa che solleva un piatto di ragù sotto la pergola, contenta di servirlo all’ombrellaio che festeggia un buon affare, un parasole di pizzo bianco comprato da una gran dama per pavoneggiarsi alle corse, innamorata d’un ufficiale che le ha sorriso nel saltare l’ultima siepe, felice lui ma più felice ancora il suo cavallo che volava sugli ostacoli vedendo volare in cielo un francolino, felice uccello liberato dalla gabbia da un pittore felice d’averlo dipinto piuma per piuma picchiettato di rosso e di giallo nella miniatura di quella pagina del libro in cui il filosofo dice: “Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere”».

Calvino pensa a Fourier come a un “logoteta” (ovvero, un datore d’esercizi e di linguaggio), affascinato dall’idea di poter immaginare un’“utopia combinatoria” anziché unicamente insulare:

«Sebbene Fourier resti, per i più, “quello dei Falansteri”, il termine s’incontra poche volte nei dodici tomi delle sue opere complete: molto vi si parla delle Serie di gruppi, o Serie passionali, cioè dell’insieme di persone che si dedicano alle diverse specialità di uno stesso lavoro o d’una stessa passione; e dei Seristeri o locali destinati alle Serie; e della falange, cioè dell’unità sociale, -agricola e industriale- formata dalle Serie, che deve rendere possibili le combinazioni tra gli 810 caratteri e temperamenti umani; e dell’Ordine societario, basato sulle Falangi, che instaurerà nel mondo intero l’Armonia».

Ciò che più attrae Calvino, nel progetto di Fourier, è appunto «l’alleanza del meraviglioso con l’aritmetica», è «l’ansia di dar fondo all’universo», è la proliferazione di un linguaggio creatore cosmico, capace di dar conto di un ordine disposto, però, in serie millenarie che superano i confini stessi della presenza umana sulla terra e arrivano all’ultima catastrofe. Fourier, insomma, più di altri, seppe tenere insieme “calcolo e desiderio” – “spazio e utopia”, elementi che confluiranno nel titolo calviniano di qualche anno più tardi Cibernetica e fantasmi.

La megalopoli traccia la sua forma definitiva nell’imperfezione condivisa: l’utopia di un fatto – che sia pur modesto rispetto all’azione, ma di coscienza universale, riconoscibile e appartenente a tutti. Nel racconto Importanza di ognuno (1986), edito postumo, Calvino collocava la più profonda traccia della Città «in un fatto modesto», appunto, o in un «momento che non torna più»: è qui che sta l’irripetibile e, seppur pulviscolare, importanza di ciascun individuo che abita lo spazio urbano. L’umanità intera potrà intraprendere un percorso di conoscenza solo attraverso il riconoscimento con l’altro, radicato nel senso di responsabilità che dobbiamo nei confronti dell’Universo: «siamo anelli di una catena che parte a scala subatomica o pregalattica: dare ai nostri gesti, ai nostri pensieri, la continuità del prima e dopo di noi».

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è dottoranda presso l’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente sulla letteratura, e in particolare sulla poesia contemporanea in rapporto alla filosofia, alla luce delle teorie dell’Ecocriticism. Ha dedicato alcuni studi a Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda in rapporto al pensiero filosofico di G. W. Leibniz, a Luciano Berio, al movimento francese sperimentale Oulipo, a Raymond Quenau e a Geroge Perec.

Pubblicato:
16-11-2020
Ultima modifica:
15-11-2020
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