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Effetti dei cambiamenti climatici sul permafrost artico, 2017.
Effetti dei cambiamenti climatici sul permafrost artico, 2017.

Verso il prossimo crack

Accordi internazionali: soluzioni efficaci o ultime grandi illusioni?

Effetti dei cambiamenti climatici sul permafrost artico, 2017.
Alessandro Leonardi

è giornalista pubblicista, speaker radiofonico e autore di analisi sul sistema industriale-tecnologico. Si occupa di evoluzioni e crisi dei modelli di sviluppo, con al centro la crisi climatica e i piani di mitigazione/adattamento connessi con la geopolitica e la macroeconomia. Scrive su varie testate nazionali.

Quando nel 2018 è apparsa Greta Thunberg sulla scena globale, ben pochi si sono accorti di un curioso deja vu. Circa 26 anni prima, al “Summit della Terra” a Rio de Janeiro, spiccò mediaticamente un discorso di una ragazza di 12 anni, di nome Severn Cullis-Suzuki , una sorta di Greta ante litteram, che tentò di spronare i leader a prendere atto del problema climatico-ambientale ancora “risolvibile”. Da allora, da quel primo summit che diede via alle varie conferenze annuali sulla crisi climatica (COP), ci sono stati innumerevoli meeting, diversi trattati internazionali, fino all'apoteosi di Parigi nel 2015. Un successo secondo i leader di allora, una truffa secondo altri. Ma mentre gli incontri multilaterali hanno cercato timidamente di sanare i guasti dello sviluppo industriale, all'interno dell'ecosistema il disastro è proseguito in maniera assolutamente implacabile. Tanto da far risuonare allarmanti ammonimenti nel 2021, proprio nella ricorrenza del 51esimo anniversario della “Giornata della Terra”.

Riguardando indietro al passato, molti hanno iniziato a chiedersi se le conferenze siano state effettivamente la soluzione migliore o solo un palliativo usato come paravento dai vari governi per non attuare le necessarie misure. Se siano ancora la via giusta per affrontare la più estrema e difficile battaglia dei nostri tempi.

Lo status attuale

Passati quasi sei anni dall'Accordo di Parigi, i suoi limiti sono diventati ancora più evidenti nonostante alcuni progressi, mentre le successive COP si sono impantanate nelle sabbie mobili, con addirittura plateali insuccessi. I famosi piani nazionali (NDCs), ovvero i “Contributi Determinati su Base Nazionale” che rappresentano gli strumenti ed obiettivi che ogni Paese dovrebbe elaborare per ridurre le emissioni (con successiva revisione ogni cinque anni), sono stati presentati solo da una minoranza delle nazioni, mentre le emissioni hanno continuato ad aumentare salvo il calo causato dalla crisi pandemica. I fondi previsti per i Paesi più poveri, i famosi 100 miliardi di dollari annuali a partire dal 2020, non sono stati ancora raggiunti e presentano svariati problemi di allocazione ottimale. Mentre continuano a persistere notevoli perplessità sulla reale efficacia delle principali strategie decise a Parigi.

Di fronte a tutte queste difficoltà e sulla scia dei cambiamenti indotti dalla pandemia, nell'ultimo anno la narrazione pro-decarbonizzazione ha subito un'accelerazione insperata all'interno delle varie classi dirigenti, con la richiesta di un “Grande Reset” dell'attuale sistema capitalistico. Forti di questi auspici e grazie anche al cambio della presidenza negli Stati Uniti, tutte le speranze sono ora riposte nella COP26 che si terrà a novembre, nella città di Glasgow, e vedrà un co-organizzazione da parte del Regno Unito e dell'Italia. Lo scopo principale di questa conferenza è quello di attuare finalmente i vari piani promessi anni or sono, oltre che incrementarli con ulteriori ambiziosi obiettivi, segnando l'inizio effettivo della lotta al cambiamento climatico a partire dal 2022. Ma se da una parte vi sono le dichiarazioni “imperative” dei maggiori leader internazionali, con anche iniziative collaterali e svariati progetti per spronare ad ulteriori azioni, dall'altra aleggiano pesanti ombre e sospetti sull'efficacia di questo ennesimo meeting, dove le stesse industrie fossili esercitano pressioni notevoli. Senza contare che il formato del prossimo incontro, limitato necessariamente dall'emergenza sanitaria in corso, sta suscitando diverse critiche fra gli ambientalisti e gli esperti, dato che potrebbe sfavorire proprio le nazioni più deboli dove le vaccinazioni procedono molto a rilento, oltre che portare all'ennesimo fallimento de facto.

Severn Cullis-Suzuki, Rio de Janeiro.

Severn Cullis-Suzuki, Rio de Janeiro. | Caio Macedo / Flickr.

Passati tre decenni, l'insoddisfazione, il malumore, oltre che l'evidente scollamento fra la realtà e le promesse fatte in queste conferenze, hanno iniziato a generare analisi sempre più scettiche e disilluse sulla possibile efficacia di questi consessi e accordi. Accordi che vengono siglati in un contesto tremendamente complesso e sfuggente, dove vigono molteplici rapporti di forza e interessi geo-strategici che impediscono qualsiasi coordinazione effettiva e profonda su larga scala. Si assiste così ad ogni round ad un profluvio di parole, di grandi promesse future, di buone intenzioni espresse pubblicamente, confutate successivamente dai veti sottobanco e dalle reali politiche energetiche-economiche portate avanti dai singoli Paesi. Proprio il Regno Unito, che si fa promotore di una radicale decarbonizzazione in vista della COP26, sta praticando nella realtà diverse misure discutibili, le quali hanno suscitato critiche a non finire. Allo stesso tempo le nazioni che predicano la green economy, sono le stesse che stanno finanziando con oltre 230 miliardi di dollari innumerevoli settori industriali ad alte emissioni e nuove ricerche di petrolio, gas e carbone. Alimentando ancora di più la fortissima discrepanza fra le azioni patrocinate nelle COP e l'andamento della lotta contro il cambiamento climatico.

Vi è ormai un incredibile ciclo di illusioni-delusioni, con ogni successiva conferenza che viene caricata di promesse impossibili e aspettative irrazionali. Questo evidente dislivello non è semplicemente il frutto del tradimento delle promesse da parte delle leadership attuali, ma deriva anche dall'errata comprensione di tutta una serie di vincoli che rendono i meeting internazionali sostanzialmente poco efficaci ed incisivi.

I vincoli

Nel dicembre del 2018, alla COP24 di Katowice, un singolare episodio rese evidente tutte le difficoltà derivanti dalla necessità di mettere d'accordo decine di nazioni, fra cui soprattutto determinate Potenze. Intorno al rapporto speciale numero 15, elaborato dall'IPCC e commissionato dai vari governi, si era scatenato un imbarazzante scontro sulle conclusioni di questo rapporto, con un duraturo stallo che portò ad accantonare determinati termini a causa del veto di Arabia Saudita, Russia, Kuwait e Stati Uniti.

Questo piccolo esempio è solo uno fra i tanti che sono occorsi nelle varie COP; consessi dove si radunano decine di migliaia di persone con numerose trattative bilaterali, continui compromessi al ribasso, frasi di circostanza nei documenti e assolutamente nessuna misura fortemente coercitiva per i futuri trasgressori, se non il biasimo della comunità internazionale. Un formato che vede il primo vincolo proprio nella struttura burocratica scelta per condurre le trattative, la quale deve per forza tenere da conto i rapporti di forza fra i vari Stati, i loro interessi e le loro ambizioni strategiche, specialmente nel caso delle nazioni più ricche e potenti.

Sebbene sia ignorato quasi sempre dal dibattito ambientalista, il vincolo geopolitico risulta essere uno degli elementi maggiormente condizionanti in qualsiasi trattativa sovranazionale e ha un enorme peso sulle scelte adottate. Cambiare in pochi anni un certo modello di sviluppo, l'approvvigionamento delle fonti energetiche e quindi nel complesso le strutture economiche su cui si è sviluppata gran parte dell'economia moderna, significa anche cambiare la ricchezza e il potere di questo o quello Stato. Molte nazioni ricche di risorse fossili potrebbero trovarsi in breve tempo con l'economia collasso, mentre altre tecnologicamente avanzate sulle rinnovabili otterebbero un maggiore peso nello scacchiere globale. Un rapido mutamento in chiave “green” paradossalmente potrebbe comportare un netto aumento delle tensioni, fino a veri e propri conflitti dovuti all'instabilità generata dalla transizione, a meno di un improbabile e massiccio trasferimento di ricchezza da parte delle nazioni “vincenti” a quelle povere legate al vecchio mondo fossile. Ma l'attuale sviluppo delle campagne vaccinali sta dimostrando l'esatto contrario, ovvero la persistenza di un egoismo economico da parte delle nazioni più avanzate.

Oltre a questo, va tenuto a mente il contesto in cui si stanno volgendo le trattative sulla crisi climatica, il quale è decisamente cambiato rispetto a qualche decennio fa in cui dominava solo la superpotenza americana. Con l'ascesa della Cina, dell'India, il ritorno della Russia e l'emergere di nuove potenze regionali affamate di potere & sviluppo, sta diventando sempre più difficile trovare un'intesa comune che vada oltre i discorsi di circostanza. Le logiche del nuovo mondo multipolare purtroppo confliggono con la cooperazione internazionale, e l'incremento della competizione fra le nazioni dominanti avrà sicuramente un impatto sulle collaborazioni transnazionali. I freddi venti delle nuove “guerre fredde” si stanno già facendo sentire nelle trattative in vista della COP26 e condizioneranno tutte le mosse di questo decennio.

Strettamente collegata alla geopolitica vi è l'architrave economica globale dipendente dalle fonti fossili, fortemente intrecciata a interessi statali, bancari e investimenti per migliaia di miliardi di dollari. Questo è un altro punto dolente che nelle conferenze viene sfiorato, senza però arrivare mai a politiche rapide e decisive. Pure le nazioni virtuose a livello ambientale come la Norvegia, hanno forti reticenze e difficoltà a ridimensionare la propria industria petrolifera, fonte di ricchezza e benessere materiale. Quindi se da una parte vi sono i trionfali annunci che delineano la fine degli investimenti e delle sovvenzioni per i settori energetici inquinanti, allo stesso tempo ogni nazione difende i propri campioni energetici nazionali professandosi dalla parte dell'ecosistema.

Ma al di là di questi specifici punti, va tenuto in considerazione un vincolo ancora più stringente: l'impossibilità di un'unica azione mondiale a tutti i livelli. Il concetto di umanità che agisce come elemento compatto esiste solo nella narrazione ingenua ed utopistica, mentre l'attuale situazione planetaria presenta un contesto frammentato dove abbiamo circa 200 nazioni, a loro volta divise in infiniti gruppi, con differenti culture, burocrazie, leggi e altri sotto-sistemi. Pretendere che in brevissimo tempo otto miliardi di individui agiscano seguendo all'unisono dei precisi e dettagliati piani è assolutamente irrealistico. Nemmeno all'apogeo della potenza occidentale negli anni '90, con l'imposizione delle politiche del WTO a gran parte del pianeta, sarebbe stato possibile.

Il futuro e le possibili azioni

La crisi climatica nella sua dimensione e gravità presenta un immenso “nodo gordiano”: richiede soluzioni concordate su scala planetaria entro uno o due decenni, ma allo stesso tempo il modello umano vigente è impossibilitato a dare una risposta celere e coordinata a tutti i livelli. Al centro di tutto vi è l'enorme conflitto fra l'espansione industriale e la tutela dell'ecosistema. Un punto fondamentale e al momento irrisolto, che viene spesso ignorato in nome della crescita “costi quel che costi, senza limiti”.

Viene da chiedersi quali soluzioni potrebbero essere più efficaci delle grandi conferenze data la scarsità di tempo a disposizione. Al di là di ipotetiche frammentazioni e rallentamenti indotti nella Globalizzazione, o miracolose innovazioni tecnologiche al momento inesistenti, rimangono delle possibili combinazioni di azioni. Alcuni esperti del settore hanno suggerito di abbandonare il modello delle COP ed instaurare al loro posto una serie di piattaforme e trattati internazionali legati a specifici settori industriali e “regioni” del mondo, con trasferimenti di tecnologie e aiuti fra le varie nazioni appartenenti al singolo quadro “regionale”. Una grossa parte dello sforzo dovrebbe arrivare anche dal settore privato, spingendolo ad adottare misure concrete e allo stesso tempo punendo severamente le aziende al di fuori degli standard ambientali affidabili. In realtà una parte di questo cambiamento sta già venendo attuato da diverse grosse multinazionali, il quale però ricade nel paradosso del nostro Sistema: si ricercano tecnologie e pratiche per ridurre l'impatto inquinante, mentre contemporaneamente si insegue furiosamente l'aumento del fatturato nelle trimestrali, con espansione dei consumi, della produzione e quindi inevitabile assalto alla biosfera.

Per rimanere nel campo del realismo, ricercando comunque un'azione efficace, si dovrebbe puntare su una serie di obiettivi strategici preliminari. In primis il condizionamento dell'operato delle nazioni più ricche e quindi delle élite più potenti. Sebbene gli USA, la Cina o le altre Potenze non possono comandare a piacimento il mondo, sicuramente un impulso forte dai principali centri economici del pianeta si riverberebbe a cascata su tante altre nazioni. Ma questo impulso non dovrebbe essere semplicemente basato sulla solite promesse di riduzione delle emissioni, ma su ben altri elementi: una discussione franca su i limiti della crescita industriale con la necessaria rimozione del Pil come misura del benessere materiale, così come l'imposizione di drastici cambiamenti nel campo finanziario-industriale. A seguire l'introduzione di una tassazione sulle merci importate da nazioni inquinanti, migliorando il tentativo perseguito dall'Unione Europea. Contemporaneamente accelerare lo scambio di aiuti “effettivi & sensati” fra le varie “regioni” del mondo. Infine l'adozione di una serie di obiettivi annuali, non più basati su date sideralmente distanti come certe promesse legate all'anno 2050 o 2060. Obiettivi chiari e realistici, accompagnati da precise sanzioni politiche ed economiche per i trasgressori, in modo da rendere gli impegni effettivamente coercitivi e valutabili entro il 2030.

Sono ovviamente tutte misure iniziali e parziali, le quali risentono degli stessi vincoli che abbiamo elencato precedentemente e che sicuramente andranno incontro a innumerevoli problemi, veti e ostilità da parte di numerosi centri di potere. Per questo motivo, oltre alle trattative internazionali, va potenziata assolutamente l'azione locale territoriale, coniugata con una rivoluzione del dibattito pubblico nei singoli Paesi. Per esempio parlando apertamente di certi argomenti confinati momentaneamente fra pochi “addetti ai lavori”, a partire dalle dinamiche intrinseche del tardo-capitalismo e la traiettoria di questo sviluppo fuori controllo.

Infine, considerato che la crisi climatica ha già iniziato ad agire nel mondo, serviranno delle conferenze pragmatiche sovranazionali, nazionali e locali per coordinare i vari piani di adattamento. Un altro tabù culturale-mediatico, nascosto sotto le magnifiche sorti e progressive della green economy, che andrà portato al centro dell'attenzione globale. Sfruttando proprio i riflettori puntati sulla prossima COP a Glasgow.

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Alessandro Leonardi

è giornalista pubblicista, speaker radiofonico e autore di analisi sul sistema industriale-tecnologico. Si occupa di evoluzioni e crisi dei modelli di sviluppo, con al centro la crisi climatica e i piani di mitigazione/adattamento connessi con la geopolitica e la macroeconomia. Scrive su varie testate nazionali.

Pubblicato:
21-06-2021
Ultima modifica:
08-07-2021
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