Polizia, mercato, Instagram: storia e futuro del decoro - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Cool in LA, Los Angeles, USA, 2017.
Cool in LA, Los Angeles, USA, 2017. | Copyright: Joey Z1 / Flickr

Polizia, mercato, Instagram: storia e futuro del decoro

Le operazioni di pulizia urbana hanno una lunga storia, ma al centro della faccenda c'è sempre la domanda su a chi appartiene la città, se a tutti, a una parte o ai turisti. Oggi siamo a un altro giro di boa.

Cool in LA, Los Angeles, USA, 2017. | Copyright: Joey Z1 / Flickr
Alice De Gregoriis

(1994) è redattrice, editor e giornalista freelance. Scrive soprattutto di letteratura, società e cultura. Suoi articoli sono apparsi per DINAMOpress, Altri animali, La Balena Bianca e altre riviste.

Dalla teoria delle finestre rotte alle ordinanze anti-bivacco, la storia di pulizia del territorio urbano ha da sempre intersecato diversi vettori: estetizzazione del vivere sociale, estetizzazione della politica ed estetizzazione del mercato. Esigenze di restauro visivo che hanno attraversato gli anni Novanta accompagnate da ordinanze comunali (oltre che da comitati cittadini per il decoro urbano) e dalla più subliminale influenza della gentrificazione. Partendo dalla rivalutazione della politica di prossimità e della Quality of life, il lungo percorso di ripensamento dello spazio urbano accoglie la principale caratteristica di questa prossimità: l’immediatezza visiva. Così il decoro ha influenzato il modo in cui fruiamo le città. Ora Instagram propone un ulteriore passo avanti, plasmando l’estetica urbana nel tentativo di adeguarla alla cosiddetta Instagrammability. Una nuova estetica adeguata all’occhio pulito e imparziale della macchina e del suo consumatore-utente, che è anche cittadino. Un’evoluzione prevedibile, perché «gli effetti della tecnologia non si mostrano al livello delle opinioni e dei concetti, ma alterano continuamente e inconsciamente i rapporti sensibili e i modelli di percezione», diceva Marshall McLuhan.


Agli albori del decoro

Le politiche di decoro urbano sono legate al concetto di Quality of life, al tentativo di ristabilire una qualità della vita, via via percepita sempre più come pericolante. La richiesta dei cittadini statunitensi ‒ nata come richiesta di welfare ‒ si traduce in un’istanza sempre più impellente all’inizio degli anni Ottanta, quando inizia ad assumere il connotato securitario di quella che sarà la cosiddetta Tolleranza zero. In quegli anni New York vede l’insorgere delle rivendicazioni di proprietari di casa e famiglie della middle class, che ribadiscono: la Quality of life trascurata era la loro. Il sindaco democratico Ed Koch risponde con un po’ di polizia e un po’ di cura del territorio, lanciando i primi passi incerti verso una tendenza che diventerà sempre più diffusa.

La palla passa negli anni Novanta a David Dinkins, che cerca di conciliare istanze securitarie e istanze sociali. Le prime procedono più spedite (perché molto meno complesse e di impatto più immediato), e vengono accolte da Rudy Giuliani, nuovo sindaco di New York che vince le elezioni nel 1993. L’aria che si respira è quella della caccia ai crimini di strada, della creazione di una comunità liberata grazie a un rinnovato senso di sicurezza e ordine. I discorsi del sindaco ‒ come ricordato da Wolf Bukowski in Piccola storia del decoro ‒ incrociano perfettamente un articolo di Fred Siegel (Reclaming Our Public Spaces: Strategies to Restore Civility to our Street and Parks), pubblicato nel 1992 sul City Journal del Manhattan Institute. Siegel, offrendo il fianco a una estetizzazione della politica, traduce il senso di disordine cittadino in un vero e proprio attacco alla decenza e, dunque, alla qualità di vita. La sporcizia delle strade, la povertà, la micro delinquenza non sono più accidenti da sopportare, ma si trasformano in un’aggressione personale ai danni del cittadino. Su tutto incombe un senso di minaccia, i «mucchi di rifiuti che fanno mulinello» diventano un «assalto estetico», i venditori irregolari sono «predatori».

La nuova percezione politica, estetica e sociale dello spazio urbano si irraggia nel cuore di quegli anni anche in altre metropoli statunitensi, come Los Angeles e Chicago, e nel giro di pochi anni anche altre città adottano le strategie di controllo urbano impiegate nel dipartimento di polizia di New York, la cosiddetta Tolleranza zero. Sono anni di messa al bando di soggetti ritenuti pericolosi, dello sviluppo della pratica spesso discriminatoria dello stop and frisk, ovvero della possibilità di fermare e perquisire chiunque sia ritenuto sospetto (guarda caso, in genere, maschi afroamericani o latini). Sono anni in cui alla polizia viene affidato non solo il compito di reprimere comportamenti criminali, ma anche di anticiparli, estendendo il sospetto del crimine anche dove non era manifesto, giustificando non solo un processo alle intenzioni, ma anche un processo alle apparenze. E quali erano le apparenze nel mirino della polizia? Quelle dei marginali, dei non appartenenti alla middle class bianca, degli homeless e dei drogati. In sostanza, dei poveri della lower class. Il degrado divenne una colpa perché antiestetico, e quindi anche politicamente impopolare, il decoro un nuovo simbolo di dignità e riscatto politico. Ma prima di tutto, il degrado andava combattuto in quanto primo segnale di trascuratezza, e quindi di arrendevolezza nei confronti del crimine.

Sgombero di un'occupazione abitativa, Milano, 2014.

Sgombero di un'occupazione abitativa, Milano, 2014. | Cantiere Centro Sociale / Flickr


La teoria delle finestre rotte

Qual era la ragione profonda di questa appropriazione ed espropriazione dello spazio urbano? I due movimenti presero piede proprio a partire dalla cosiddetta teoria delle finestre rotte, formulata da James Q. Wilson e George L. Kelling in un articolo del 1982 sulle pagine di The Atlantic. La teoria prendeva spunto, a sua volta, da un esperimento condotto alla fine degli anni Sessanta dallo psicologo sociale Philip Zimbardo.

Nel corso dell’esperimento un’auto fu parcheggiata senza targa nel Bronx, un’altra a Palo Alto, in California, ed entrambe furono abbandonate con il cofano aperto: solo l’auto parcheggiata nel Bronx fu saccheggiata. L’esperimento fu ripetuto una seconda volta, ma questa volta l’auto a Palo Alto fu abbandonata con un finestrino rotto. Risultato? Anche quella vettura fu saccheggiata, tra l’altro da persone che ‒ sottolinea Zimbardo ‒ non avevano affatto l’aspetto di criminali.

L’interpretazione dello psicologo sociale fu una sorta di «l’occasione fa l’uomo ladro»: il finestrino rotto poteva esser scambiato come testimonianza di uno stato di abbandono dell’area e, dunque, come zona franca nella quale poter commettere un crimine restando illesi. La teoria fu rielaborata nell’articolo del 1982: il mantenimento dell’ordine consente anche, indirettamente, un abbattimento del crimine. Si sviluppò così una politica in grado di sfruttare questa teoria criminologica e di piegarla alle proprie esigenze: fornire la percezione di controllo contemporaneamente a elettori e delinquenti.


Dall’estetica come mezzo all’estetica come fine

Pur partendo da esigenze legittime, l’ideologia del decoro ha progressivamente allontanato e oscurato il degrado urbano, che spesso è sintomo di disagio economico-sociale, pensando così di aver sradicato il problema insieme alla sua visibilità. I sospettati della Tolleranza zero sono stati gli stessi poi allontanati con ordinanze sempre più escludenti, senza neanche il bisogno del sospetto di un crimine. Il crimine era diventato il brutto. E il brutto era in genere ciò che stava al margine. Veniva allontanato chi, per motivazioni economiche, non rispondeva agli standard estetici e morali di chi dettava le regole e i criteri.

E qui il decoro inizia la sua corsa verso una estetizzazione del mercato. Questo è avvenuto anche in Italia, a colpi di ordinanze e Daspo urbani. Così pian piano ci si è aspettati dall’estetica urbana una pulizia senza soluzione, un’incipriata di naso senza troppe pretese sociali. Il naso incipriato era quello di un ripensamento della città progressivamente orientata alla bellezza, al godimento, alla rotondità plastica dello spazio e al consumo di qualità. L’estetica è passata dall’essere uno strumento per il mantenimento della sicurezza, all’essere il fine delle politiche comunali.

Non stupisce allora se nel 2019 il sindaco di Firenze Nardella ha riconfermato la cosiddetta ordinanza anti-cafoni, che vieta di mangiare panini nel centro storico della città. Il commento a latere del primo cittadino nomina tutte le parole chiave di cui si è parlato prima: «Manteniamo altissima l’attenzione del Comune su tutti quei fenomeni di mancanza di rispetto delle regole del buon vivere che danneggiano l’immagine della nostra città e la qualità della vita dei nostri cittadini. Sul decoro e sul rispetto di Firenze noi non abbassiamo la guardia né ora né mai. Confido nel lavoro professionale e scrupoloso degli agenti di polizia municipale».

Firenze, a spasso.

Firenze, a spasso. | Alessandro Bonvini

L’altro volto del decoro: mercato e gentrificazione

Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Zero prese il via un’ulteriore mutazione nella percezione di decoro e spazio urbano. La nuova estetica da strumento divenne fine, e non solo per motivazioni politiche: il decoro venne messo a capitale dal mercato, sotto forma di speculazione immobiliare e gentrificazione. Nuove frotte di investitori e di yuppies ‒ arricchitisi nei centri suburbani e stanchi del pendolarismo ‒ iniziano a rivolgersi ai quartieri operai delle città (si pensi alla massiva operazione che ha travolto Chicago), proponendo un mix semplice: si scriveva riqualificazione urbana, si leggeva speculazione immobiliare.

I palazzi malmessi vengono acquisiti a prezzi stracciati agli abitanti dei quartieri felici di ritrovarsi nuova liquidità tra le mani; la riqualificazione di interi quartieri porta all’innalzamento dei prezzi immobiliari e del costo della vita; gli abitanti originari vengono spinti ancor più a margine, laddove la gentrificazione non è ancora arrivata. Tutto questo produce vaste operazioni di decoro, grazie alle quali effettivamente si alza la Quality of life, ma non per tutti. Il nuovo canone estetico imposto è quello della middle class divenuta più agiata, orientata ‒ comprensibilmente ‒ a voler consumare la ricchezza ottenuta, e dunque a voler creare luoghi di placido consumo, lontano dai mezzucci di sopravvivenza e piaceri a basso costo tipici dei quartieri urbani marginali. A partire da quegli anni ha inizio una sottile linea rossa che, di fatto, stabilisce chiaramente un principio: l’estetica della città deve esser funzionale al mercato. Il cuore della città deve essere un luogo di produzione della ricchezza o di agevole consumo. E chi consuma più dei turisti?

In questo senso il decoro non solo diventa la manifestazione estetica del neoliberismo, ma ne dimostra anche i paradossi interni. In primis, l’autodisprezzo: ristabilendo a forza i gap sociali alimentati dal sistema economico, offuscando le divergenze di classi, il decoro diventa lo strumento che consente al mercato di non puntare gli occhi sui suoi effetti negativi. Il secondo paradosso è una tacita ammissione di impotenza (inserita nel delirio di onnipotenza): la politica economica della libertà di mercato, dell’assoluta e autosufficiente imprenditorialità del sé, ha in realtà bisogno di stato e ordinanze comunali per occultare a forza quello squilibrio di cui si vergogna (primo paradosso).

"Wir bleiben alle" - Restiamo tutti: è andata proprio cosí? Berlino, 2010-2020.


Dal mercato dell’immobile al mercato dello spettacolo

Politica, mercato e società influenzano e si lasciano influenzare dall’estetizzazione. Tutto questo si imprime sull’architettura urbana. Cosa manca a questo piano di analisi? Lo spettacolo. La piana superficie che fa dell’immediatezza visiva uno strumento per riflettere la realtà, ma a immagine e somiglianza dello spettacolo stesso (che non è altro che l’emanazione estetica del capitale), assumendosi il privilegio di poter rappresentare e dunque di poter influenzare. Tornano utili le parole di Guy Debord, che nella Società dello spettacolo del 1967 afferma:

«La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima».

La traslazione di capitale in immagine rappresenta lo stadio ultimo del capitale, quando ha raggiunto il massimo grado di accumulazione, sosteneva Debord. A quel punto l’avere diventa origine e scopo dell’apparire: l’apparire attribuisce prestigio all’avere e l’avere deve esser funzionale all’apparire. Parlando di paesaggio urbano, questa ulteriore mutazione imprimerà un nuovo volto alle città. Anzi, lo sta già facendo. Da tempo ormai il turismo appare guidato da un’altra forza trainante, diversa dal consumo di beni e molto più vicina alla produzione e consumo di immagini: l’Instagrammability.

Mentre sul web si moltiplicano le guide turistiche in grado di consigliare i posti migliori da instagrammare, mentre l’appetibilità dei luoghi su Instagram entra di prepotenza tra i criteri con i quali si scelgono le mete turistiche, mentre persino Ryanair pubblica già da qualche anno articoli come Europe’s 17 most Instagrammable cities, anche l’architettura delle città si sta adeguando a questa nuova tendenza. D’altronde non poteva essere altrimenti, proprio in virtù di quanto ribadito prima: se l’estetica e il decoro urbano sono legati al mercato, e il mercato ora è legato alla produzione di immagini e dati, allora anche l’architettura urbana dovrà necessariamente piegarsi a Instagram. E se McLuhan ha ragione quando afferma che l’analisi dei media consente di comprendere meglio la realtà attuale e del futuro, allora vale la pena spendere qualche parola.

Ha imparato velocemente la lezione dell’Instagrammability lo studio statunitense di design e architettura Diller Scofidio + Renfro (DS+R), che si adatta esplicitamente ai canoni estetici di Instagram con un progetto del 2017 situato a Mosca, il Zaryadye Park: si tratta di un parco pubblico di quattordicimila metri quadri, caratterizzato da un punto panoramico che si erge a sbalzo sul fiume Moscova, padiglioni, due anfiteatri e una sala da concerto. Gli eleganti edifici composti da pannelli in vetro si adattano perfettamente alle diverse quote del terreno, creando una struttura riflettente, moderna e allo stesso tempo in grado di interagire con il paesaggio (centrando in pieno il canone estetico di Instagram).

Il progetto ha da subito suscitato clamore sul social, conducendo flotte di turisti a visitare il progetto per ottenere ciò che il progetto stesso prometteva: una foto Instagrammabile. Gli esempi da fare potrebbero essere tanti, ma ora è interessante notare che il nuovo canone estetico di Instagram non influenza solo i grandi progetti architettonici, ma anche l’estetica di locali e ristoranti che popolano le strade delle metropoli. Per rispondere alla domanda di un nuovo design, ad esempio, lo studio australiano Vale Architects ha deciso di scrivere una Instagram design guide per mostrare agli architetti come ottenere un «visual sense of amazement», incoraggiando i proprietari di ristoranti e hotel a creare spazi in cui gli ospiti possano mettersi al centro dello spazio non solo in maniera fotogenica, ma anche in maniera condivisibile e likabile. Insomma, Instagram sta modificando l’architettura delle nostre città. Ma l’influenza riguarda solo l’estetica degli edifici? La discussione è già iniziata.

Un bellissimo articolo apparso su Strelka Mag sottolinea, insieme ad altri saggi, come l’evoluzione della pianificazione urbana in questo senso spesso prediliga l’Instagrammability alla funzionalità dell’architettura urbana, creando un paesaggio che perfettamente si adatta ai canoni estetici del social ma che, così facendo, inizia ad escludere la vivibilità di quei luoghi. Le strutture vengono già create per l’occhio della macchina, non per l’agibilità dei cittadini. Le costruzioni e il loro circondario si trasformano automaticamente in attrazioni, le strade centrali delle città non sono più fatte per esser calpestate (neanche dai turisti consumatori) ma per esser fotografate, le superfici riflettenti vengono epurate da ogni imperfezione, pronte ad accogliere solo l’aria tra il soggetto fotografato e il puro spazio circostante, i posti non sono più popolati da cittadini, ma da consumatori morsi dalla voglia di documentare le loro vite e gli oggetti che le riempiono.

L’estetica proposta da Instagram è confortevole, moderna, individualista e ‒ certamente ‒ benestante: i colori pastello, le superfici in acciaio e i primi piani di un soggetto isolato, perfettamente integrato in un paesaggio spesso meccanizzato, restituiscono l’idea di una socialità ridotta (o piuttosto, trasposta sulla piattaforma). Per rispondere al bisogno di una società cartolinizzata e perfettamente fotografabile, è diventato allora necessario eliminare le impurità dall’orizzonte visivo, rimuovendo tutto ciò che è considerato estraneo, marginale e, in una parola, degradato. Per ricollegarci al discorso precedente, ancora una volta il decoro potrà assumere un nuovo volto, ancor più estremo, ancor più fittizio, ancora più settario.

Alla creazione di una realtà a immagine e somiglianza dello sguardo puro della macchina, si aggiunge poi la tracciabilità dello spazio urbano, la trasposizione della geografia in una nuova realtà digitalizzata nella quale Google maps invia notifiche agli utenti consigliando posti da vedere, ancor meglio se instagrammabili. Lo sguardo della fotocamera punta sul soggetto cittadino e sul soggetto consumatore, recuperando lievemente anche quel piacere del controllo sociale che tanto aveva affascinato il decoro degli albori. Tutte le caratteristiche della nuova estetica instagrammabile riconfermano allora il paradigma del decoro, sempre lo stesso, sempre nuovo: mezzo si sorveglianza, estetica del mercato (lo spettacolo è il capitale giunto allo stadio ultimo), espressione dei criteri estetici di una determinata classe sociale, strumento di esclusione delle classi che non rispettano quei criteri estetici (ed economici). Non resta che la bellezza, che probabilmente diventerà virale ma non condivisibile.

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Alice De Gregoriis

(1994) è redattrice, editor e giornalista freelance. Scrive soprattutto di letteratura, società e cultura. Suoi articoli sono apparsi per DINAMOpress, Altri animali, La Balena Bianca e altre riviste.

Pubblicato:
08-02-2021
Ultima modifica:
09-02-2021
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