Elementi di estetica del terrore - Singola | Storie di scenari e orizzonti
L'attentatore degli attacchi di Christchurch del 15 maggio 2019
L'attentatore degli attacchi di Christchurch del 15 maggio 2019

Elementi di estetica del terrore

I filmati dell’attentato di Christchurch, le esecuzioni in video di ostaggi dell’Isis, le fotografie dei prigionieri seviziati ad Abu Ghraib, la curiosità morbosa dei fatti di cronaca nera. Un'analisi che parte dalla domanda: perché la violenza ci attrae?

L'attentatore degli attacchi di Christchurch del 15 maggio 2019
Chiara Godino

(1994) ha studiato Letterature comparate in Italia e all'estero. Scrive soprattutto di violenza, di conflitti e di guerra.

Il 15 marzo del 2019 un video di 17 minuti viene condiviso su Facebook.
Le immagini in diretta mostrano l’attentato nelle due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, in cui vengono uccise 49 persone da un uomo dalle ideologie razziste e di estrema destra, Brenton Harrison Tarrant. Il video, agghiacciante e crudele, diventa virale in pochissime ore: 200 sono gli utenti che lo hanno guardato in tempo reale e nessuno fra loro lo ha segnalato come inopportuno. Prima di essere rimosso da Facebook, è stato visto 4000 volte. Ma le immagini rimangono online: un milione e mezzo di copie vengono caricate altrove nelle successive ventiquattro ore e più di un milione e duecentomila bloccate in fase di caricamento.

Secondo l’indagine condotta da We are Social e Hootsuite, piattaforma leader nel settore del social media management, trascorriamo sette ore al giorno online, di cui un terzo sui social.
L’alto consumo di immagini e informazioni che si possono incontrare su internet in un tempo estremamente ridotto crea una dipendenza nell’utente che a prescindere dal prodotto, dall’obiettivo o dalle ragioni della scelta, diviene passivo di fronte al contenuto stesso.
Quella che viene generata è un’attitudine a consumare senza avere consapevolezza di ciò di cui si fa consumo.

Un esempio. In Italia è presente un grande consumo di notizie di cronaca nera o giudiziaria. Molti programmi televisivi hanno una peculiare attenzione per storie di omicidi, violenze e abusi, malattie, incidenti stradali e calamità naturali. Quando i format televisivi affrontano questi argomenti, si parla di “TV del dolore”. Una ricerca del 2015 curata dall'Osservatorio di Pavia Media Research e dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha evidenziato una presenza ampia e costante, quasi tre ore al giorno, di fatti di cronaca nelle diverse reti; omicidi e scomparse sono i casi più seguiti, in maniera seriale, in programmi come Pomeriggio Cinque, Chi l’ha visto e Amore Criminale, per citarne alcuni. Le vittime sono il punto di partenza narrativo per esplorare un giallo, un caso giudiziario o un crimine. La famiglia, gli amici, i sopravvissuti, il pubblico in studio e il pubblico a casa sono uniti da un senso di lutto collettivo, di partecipazione, di vicinanza, che si elabora in una manciata di minuti, per poi passare al caso successivo o addirittura, ad una parentesi di leggerezza. La trasmissione porta il dolore dentro la casa dei telespettatori in varie forme e lo abitua alla violenza, fisica e/o psicologica. In alcuni casi infatti, si mostra l'atto violento stesso, l'istante in cui è inferto alla vittima, attraverso immagini brutali spesso riprese da telecamere di sorveglianza e messe a disposizione dalle forze dell'ordine. I fotogrammi sono sgranati, in bianco e nero, rallentati nel montaggio, i volti oscurati, proposti al ritmo di musica incalzante, o di una triste colonna sonora ipnotica, che suggestiona lo spettatore associando elementi di finzione alla realtà. Indipendentemente dalla crudezza delle immagini trasmesse, questa tipologia di televisione trasforma un dolore privato in uno spettacolo pubblico. 

Una manifestazione contro la tortura, Iowa, 2011.

Una manifestazione contro la tortura, Iowa, 2011. | Justin Norman / Flickr

La violenza e il dolore sono così utilizzati come uno strumento di comunicazione e di manipolazione estremamente persuasivo, e in alcuni casi possono affascinarci.
Il rapporto interno stilato da Antonio Taguba, generale americano incaricato di indagare sul carcere iracheno di Abu Ghraib, periferia ovest di Baghdad, parla di prigionieri sodomizzati con lampade chimiche o con manici di scopa, di percosse con bastoni e sedie, di getti d’acqua fredda sui corpi nudi, dell’obbligo per i detenuti di indossare biancheria intima femminile o di assumere pose umilianti e sessualmente esplicite. Le foto ritraggono volti sorridenti di soldati americani a fianco di prigionieri incappucciati, nudi, tenuti al guinzaglio, ammassati a formare una piramide umana, attaccati a fili elettrici, assaliti dai cani. 

Dinamiche di gruppo come questa possono trasformare il comportamento degli uomini, o meglio, del singolo, e permettono di comprendere un fenomeno come Abu Ghraib. 
È nell’atto di ricoprire un ruolo che la persona rinuncia alla propria individualità (o a parte di essa) assumendo fisionomie che sono già state tratteggiate. Non importa tanto conoscere chi agisce, ma in quale contesto l’azione ha luogo.
Nessuna traccia di malignità è stata infatti riscontrata nei soldati americani. Ostinarsi a cercare spiegazioni disposizionaliste vorrebbe dire ignorare che Abu Ghraib è figlia di normali (e prevedibili) processi psicosociali; vorrebbe dire ignorare un problema sistemico di violenza e abuso di potere, insito nella struttura delle forze dell’ordine, le quali sono capaci di azioni simili proprio perché rivestono quell’incarico.

Questa sorta di motivazione non vuole giustificare i responsabili, ma i due episodi mostrano che se siamo mescolati con altri, fusi in una massa che per un po’ spoglia l’identità personale e annebbia le capacità riflessive, incontriamo le condizioni ideali per liberare istinti repressi. A maggior ragione se ci troviamo in una posizione di “superiorità e potere” rispetto ad altri. 

Analizzando le fotografie di Abu Ghraib è sconcertante la similitudine con le immagini provenienti dal mercato pornografico: ciò che più stupisce non è tanto la violenza in sé quanto la qualità di questa violenza, un accostamento tra potere, umiliazione e sessualità; i prigionieri disposti come fossero attori porno ricordano le istantanee di carattere amatoriale che proliferano nei siti internet. La brutalità pornografica di Abu Ghraib è certamente meno cruenta rispetto ad altri strumenti di violenza, ma risulta più attraente, in quanto appartiene totalmente a quel miscuglio di sessualità e umiliazione che caratterizza buona parte dell’immaginario pornografico occidentale. Occorre aggiungere che l’atto di registrare la tortura non serve solo ad umiliare la vittima, ma a divertire il suo carnefice: i volti degli aguzzini sono sempre sorridenti, alzano il pollice all’obiettivo, e non solo credono che non ci sia nulla di sbagliato, ma trasformano la violenza in un atto di intrattenimento. Il cosiddetto war porn, porno di guerra, non è infatti progettato per sollecitare, ma per umiliare le sue vittime e terrorizzare il suo pubblico. 

Nonostante si osservino le immagini di violenza con un certo distacco, una questione degna di interesse è la compresenza ossimorica di piacere e disgusto, di attrazione e repulsione: si ricerca ciò che il nostro corpo vorrebbe istintivamente e naturalmente allontanare, il “politicamente scorretto” per contrastare la noia e il quotidiano, i prodotti splatter che provocano adrenalina e tensione. Ci seducono e avvincono le immagini di violenza e morte, perché abbiamo bisogno di guardarle in faccia per poterle esorcizzare e stabilire su di esse una qualche forma di controllo. E forse finché non capita a noi o a chi ci è vicino non ne rileviamo la sottile violenza. Perché il rischio è che lo sguardo impietoso si trasformi esso stesso in violenza, e soprattutto che il “guardare” diventi voyeuristico e prioritario rispetto al “cosa guardiamo” e che l'osservatore possa tacitamente acconsentire alla messa in atto e alla perpetrazione di crudeltà e soprusi, normalizzandoli.

La possibilità di guardare la violenza con un certo fascino è permessa anche dalla condizione dello spettatore: distante, in una posizione sicura, soprattutto se di mezzo c’è uno schermo. Tutto avviene al di fuori di lui, l’osservatore vive tante cose dentro di sé ma esternamente è fermo e ha davanti agli occhi una messa in scena che da fuori è la più terribile possibile ma in realtà sono dei pixel che si illuminano. Certi che a noi una cosa del genere non potrà mai accadere ci sentiamo sicuri e al riparo.

La conferma arriva da Piero Bocchiaro, psicologo e ricercatore siciliano e dal suo libro Psicologia del male dove afferma che la quasi totalità delle persone, oltre a ritenersi immune dalla possibilità di compiere azioni crudeli, si pensa al di sopra della media rispetto a molte qualità come onestà, sensibilità e generosità, per citarne alcune. Questa tendenza è l'esito di una manipolazione sistematica e automatica effettuata sulle informazioni riguardanti il sé. In particolare, le persone, spinte dal bisogno universale di percepirsi positivamente, si confrontano con chi è in condizioni inferiori. Dunque il nostro io, per sentirsi sicuro di sé, ha bisogno di vedere qualcuno che sta peggio: non è quindi una questione di empatia e compassione, ma più un gioire inconsapevolmente delle disgrazie altrui per sentirci meglio, per sentirci superiori. E ancora, la tendenza a pensarsi al di sopra della media si associa generalmente al sentirsi meno esposti degli altri agli eventi spiacevoli della vita.

L’alta attenzione che prestiamo alle immagini violente è anche emersa da uno studio pubblicato nel 2014 dall’Università della Florida e da quella dell’Indiana, condotto dalle docenti Rubenking e Lang, le quali hanno esaminato le reazioni di circa 120 soggetti a tre diversi tipi di video disgustosi: il primo era a tema socio-morale—atti di razzismo, sessismo, omofobia—, nel secondo venivano mostrate feci, mentre il terzo era di tipo splatter-gore, con torture, budella, sangue e morte. Questo esperimento ha rivelato come il disgusto verso azioni non corrette dal punto di vista sociale e morale, come razzismo o sessismo, provoca nell'osservatore un basso livello di attenzione, che per alzarsi ha bisogno di molto tempo, e una debole accelerazione del battito cardiaco; invece i video che mostrano torture, violenze fisiche e sangue provocano subito una reazione difensiva e un'attenzione altissima per tutta la durata del video, con un'accelerazione del battito cardiaco molto intensa. Lo studio conclude l'analisi affermando che il disgusto che noi proviamo verso video splatter-gore agisce più a livello fisico che mentale, innescando un meccanismo di repulsione verso ciò che è un tabù, che da una parte dobbiamo rispettare, ma dall'altra dobbiamo sconsacrare per conoscere da vicino le azioni che non dobbiamo assolutamente compiere nella nostra vita. Quindi, ancora, vogliamo vedere ciò che non potremmo e non dovremmo mai fare. 

La sensazione provata dai partecipanti dell’esperimento si potrebbe sintetizzare nel concetto di awe, descritto nel libro di Oriana Binik, Quando il crimine è sublime. La parola indica un sentimento di sorpresa, una sensazione di meraviglia mescolata alla paura. La proviamo quando siamo di fronte ad un incidente stradale, per esempio. In quelle occasioni è difficile distogliere lo sguardo dalle lamiere contorte, dalle vittime sconvolte, dal sangue per terra; uno spettacolo visivo certamente attraente in cui è incorso ognuno di noi. Ma il fatto che l’esperienza sia comune non aiuta però a decifrarne le cause, al contrario proprio l’incidente stradale suscita spesso delle reazioni contrastanti: per alcuni non è bene guardare, è meglio volgere lo sguardo altrove. Questa regola non scritta non fa però che rafforzare l’evidenza dell’attrazione che l’incidente esercita su di noi e, perché avvenga questa specifica attivazione emotiva, è necessario che ci sia un evento sorprendente, che genera uno stato di allerta e che abbia una caratteristica particolare: si deve trovare al di fuori della gamma delle cose abituali, note e comprensibili, deve essere cioè radicalmente diverso.

Un altro esempio che viene in mente quando si parla di morte in diretta sono i filmati delle decapitazioni o dei corpi bruciati vivi dall’ISIS; l’utilizzo di strumenti di marketing e comunicazione digitale era alla base del loro terrorismo, che oltre a, socializzare il terrore attraverso l’opinione pubblica, rendeva la paura imitabile e popolare. L'ISIS ha seguito una strategia audiovisiva sofisticata senza precedenti, che consisteva nella massiccia elaborazione e distribuzione di immagini audiovisive, altamente salienti e risonanti nella cultura del loro pubblico di riferimento. 

Secondo i dati analizzati dal ricercatore Javier Lesaca, il gruppo terroristico ha pubblicato quasi 900 campagne audiovisive in meno di due anni, più di una ogni giorno. L'entità di queste si può osservare nella distribuzione. I sostenitori controllavano oltre 46.000 account twitter, attraverso i quali trasmettevano messaggi direttamente agli smartphone del loro pubblico. L’analisi mostra che oltre il 15% delle campagne è direttamente ispirato da film, videogiochi e videoclip musicali di cultura popolare contemporanea come Saw, Matrix, American Sniper, Call of Duty e Mortal Combat X. Il gruppo terroristico usava immagini culturali della modernità per promuovere un progetto politico basato su valori anti-moderni. In questo modo “trasformava” le vittime del terrorismo in attori dei prodotti culturali popolari occidentali, con l’obiettivo di coinvolgere il loro pubblico globale e rendere popolare il terrorismo. 

La narrazione insistente di questi casi di cronaca nera ha poi negli ultimi anni alimentato il fenomeno del turismo dell’orrore, la fascinazione della collettività per i luoghi in cui si sono consumate tragedie, crimini efferati, interesse per i contesti in cui la storia si è manifestata in tutta la sua drammaticità. Le persone, a caccia di emozioni forti, si recano per visitare i siti associati alla morte, alla sofferenza o a ciò che è apparentemente macabro. Quando si tratta di episodi come quello della nave Concordia o del delitto di Avetrana -il cui interesse culturale o paesaggistico non è mai stato particolarmente rilevante- si tratta di una forma di ossessione che con la conoscenza non ha nulla a che vedere.  Dopo dodici anni dall’omicidio di Cogne, la Stampa riportava ancora di visitatori che si erano recati in gita nel paesino valdostano per vedere dal vivo la villetta del delitto. Nessuna motivazione turistico-culturale può celarsi dietro una decisione di questo tipo. 

Malcolm Foley e John Lennon, gli accademici che hanno coniato il termine dark tourism, sostengono che esso si posiziona a metà tra gli atti inumani della storia recente e le rappresentazioni che di questi ne hanno dato i film e i giornali. I turisti del nero sarebbero quindi guidati dalla voglia di andare oltre la rappresentazione fornita dai media, nel tentativo di sperimentare in prima persona emozioni forti, autentiche.


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Fonti

C. Uva - Il terrore corre sul video. Estetica della violenza dalle BR ad Al Quaeda - Rubbettino, 2008
P. Bocchiaro - Psicologia del male - Laterza, 2009
O. Binik - Quando il crimine è sublime: la fascinazione per la violenza nella società contemporanea - Mimesis edizioni, 2017
H. Arendt - La banalità del male - Feltrinelli, 2019

Hai letto:  Elementi di estetica del terrore
Globale - 2021
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Chiara Godino

(1994) ha studiato Letterature comparate in Italia e all'estero. Scrive soprattutto di violenza, di conflitti e di guerra.

Pubblicato:
08-11-2021
Ultima modifica:
08-11-2021
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