Il secondo balzo della Cina - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Il Presidente cinese, Xi Jinping, in visita a Bali, Indonesia, 2013.
Il Presidente cinese, Xi Jinping, in visita a Bali, Indonesia, 2013. | Copyright: APEC2013 / Flickr

Il secondo balzo della Cina

Processi storici. Nuovi scenari esplosivi. Dal gigante asiatico si attende ora uno slancio oltre il socialismo e le posizioni attuali.

Il Presidente cinese, Xi Jinping, in visita a Bali, Indonesia, 2013. | Copyright: APEC2013 / Flickr
Roberto Comandè

è laureato in filosofia. La sua ricerca si concentra sull'evoluzione nel medio lungo termine delle dinamiche socio/politiche mondiali, in particolare quelle relative ad ambiente e cambiamenti climatici.

«LL’egemonia occidentale nel campo delle idee e delle visioni del mondo, finora data per scontata, deve ora confrontarsi con una Cina che fa della propria strategia di sviluppo e del proprio assetto politico-istituzionale un modello cui altri possono ispirarsi.» (La “nuova era” cinese – a cura di Alessandra Spalletta, AGI 2017, pg. 59)

A metà tra minaccia e profezia, il brano estratto da un’intervista rilasciata all’AGI dal docente universitario Giovanni Andornino [1], fissa uno chiodo centrale nel discorso sul futuro, spesso sottovalutato, o distorto e manipolato, nella narrazione comune. Il rischio di tale eurocentrica distorsione è che si liquidi l’emersione impetuosa, complessa e controversa, di un nuovo attore internazionale come la Cina, alla stregua di una questione lontana e secondaria, assimilabile fin troppo facilmente alla già navigata logica del blocco. Quando invece le dinamiche in moto stanno già oggi ridisegnando drasticamente i lineamenti del panorama economico, politico, militare, tecnologico, ambientale e socioculturale, e lasciano presagire sviluppi ancor più radicali tanto sul corto, quanto sul medio-lungo raggio.

Occorre allora tentare di approfondire i processi che coinvolgono la Cina, superare letture riduttive e stereotipate, e integrare l’evoluzione del gigantesco paese asiatico nella ricerca sul futuro. Se accettassimo di correre il rischio sopra accennato, potremmo doverne pagare il prezzo facendoci travolgere dagli eventi, senza alcuna reale comprensione.

Ma davvero è possibile immaginare che un paese largamente feudale solo una novantina di anni fa, sia oggi nella condizione di proporsi come alternativa all’attuale forza egemone dominante? E se ci riuscisse, in che modo ne sarebbe influenzato il futuro dell’umanità? Come apparirebbe, in sostanza, il mondo illuminato dall’alba di un sole rosso?

Queste sono alcune delle domande a cui si tenterà di dare risposta, senza arrischiarsi in bislacche congetture, ma analizzando con attenzione quanto sta già succedendo adesso, e come potrebbe evolvere nel futuro. L’ipotesi è che la parabola storica contemporanea sia in procinto di virare verso oriente, e che l’unità politica territoriale più longeva della storia – la Cina per l’appunto – possa riacquisire il primato nella competizione geopolitica internazionale, scippatogli dalle forze colonialiste europee agli inizi del XIX secolo.

Questo è anche un obiettivo dichiarato del nuovo corso della politica nazionale cinese, inaugurato nel 2013 dal presidente della Repubblica popolare, Xi Jinping, e battezzato il «sogno cinese» (Ideologia e sviluppo politico nella Cina di Xi Jinping – A. M. Cimino, CSCC, 2018); se rispetto alla politica interna lo scopo è quello di «ottenere la prosperità del paese, la rivitalizzazione della nazione e la felicità del popolo» (ivi, pg. 4), in politica estera si assiste a un abbandono della precedente posizione attendista e difensiva, il “basso profilo” inaugurato da Deng Xiaoping negli anni ’70.

«Xi Jinping e con lui la quinta generazione avrebbero lasciato alle spalle i precetti di Deng Xiaoping per assumere una postura da potenza decisa a far valere con maggiore decisione i propri interessi. Al “basso profilo” denghista, si sarebbe sostituita la “diplomazia da grande potenza con caratteristiche cinesi”». (La Cina popolare – Diego Angelo Bertozzi, L.A.D. 2020, pg. 363)

Ancora più esplicitamente, così il presidente si è espresso di fronte alla plenaria delle Nazioni Unite, a Ginevra, nel 2017:

«Lasciare che la fiaccola della pace passi di generazione in generazione, lasciare che le forze dello sviluppo fluiscano eternamente e lasciare che la luce della civiltà risplenda attraverso i secoli: questo è ciò che i popoli di tutte le nazioni desiderano; questa è quindi la responsabilità che tutti gli statisti della nostra generazione devono assumersi. Per vedere tutto ciò realizzato, la soluzione della Cina è questa: costruire una comunità umana con un futuro condiviso e realizzare uno sviluppo reciprocamente vantaggioso». (Discorso alla sede delle Nazioni Unite di Ginevra – Xi Jinping, 2017 – corsivo mio)

Proclami entusiastici sulla grandezza della nazione e sulle sue luminose prospettive si susseguono (e vengono puntualmente rispettati) nella Cina contemporanea sin da quando, nel 1949, venne fondata la Repubblica Popolare dalle forze rivoluzionarie guidate da Mao Zedong; ciò che è interessante in questo particolare estratto è la concreta tendenza universalistica, inedita nell'orizzonte politico della Cina, del progetto che esso propone. Costruire una comunità umana con un futuro condiviso è una prospettiva che va ben oltre i pur ampissimi confini della Cina, e che lascia intravedere il dischiudersi di una dimensione internazionale. Superando la prima barriera semantica, quella propagandistica, che spettacolarizza ed enfatizza le parole e non costituisce il motivo primario del discorso, ci rendiamo conto dell'intrinseco significato politico che questa dichiarazione possiede: la Cina è pronta ad inserirsi nella realtà politica internazionale, ma non solo, si addossa anche il compito di guidare la stessa realtà politica internazionale verso la costruzione del proprio futuro condiviso, senza dubbio difficile ed incerto.

Su quali basi il colosso comunista può arrischiarsi in tali ambizioni?

Stencil di Xi Jinping, Cina, 2015

Stencil di Xi Jinping, Cina, 2015 | Thierry Ehrmann / Flickr

Di recente Bloomberg, piattaforma d'informazione non certo famosa per la simpatia nei riguardi della Cina, ha pubblicato un articolo dall’eloquente titolo «Who has the world’s N 1 economy? Not the U.S.»; nel testo si spiega come, secondo la maggior parte degli indicatori, la Cina si stia appropinquando al sorpasso economico rispetto agli USA. Il dato è ancora controverso e può variare in base al criterio di misurazione adottato, la questione sarà quindi discussa ancora per qualche anno, eppure resta lecito affermare che il gigante asiatico abbia superato concretamente gli USA, o che sia in procinto di farlo.

«Siamo pertanto di fronte a un’informazione e un nuovo dato di fatto quasi sconvolgente: a partire almeno dal 2015-2017 si è verificato un eclatante sorpasso della Cina nel decisivo campo economico (anche se non nella produttività pro-capite) e tecnoscientifico (supercomputer, comunicazioni quantistiche, ecc.) rispetto all’ormai declinante potenza statunitense che godeva del primato economico su scala planetaria a partire dal 1873». (Che piaccia o no: il Dragone scavalca l'America - D. Burgio, M. Leoni, R. Sidoli, Aurora 2017, pg. 1)

Xi Jinping può dunque permettersi di auspicare che la Cina sia presto al vertice della piramide mondiale perché sa di governare il paese, oggi, economicamente più solido al mondo, e che da questo primato possono derivare tutti gli altri. Sottolineando un ironico paradosso, notiamo come il cardine su cui la cultura capitalista occidentale ha fondato il proprio dominio sui popoli del mondo, il primato economico, potrebbe anche essere la pietra da cui quel dominio inizierà a sgretolarsi.

Proprio nell’ambito economico bisogna evidenziare un dato fondamentale, che spiega in massima parte il larghissimo consenso di cui gode il Partito Comunista Cinese e in generale l’istituzione statale, e la conseguente stabilità politica; la veemente crescita cinese ha, numeri alla mano, rivoluzionato radicalmente la vita di centinaia di milioni di persone, accompagnandole fuori dalla fame e dalla povertà. Sono le Nazioni Unite (non certo un’organizzazione iscritta alla fanpage del Marxismo internazionale) a riconoscerlo:

«Secondo il Millenium Development Goals Report compilato dalle Nazioni Unite, [la Cina] è riuscita a passare da una quota di povertà assoluta che nel 1990 interessava il 61% della popolazione al 4% del 2015, segnando un “ridimensionamento che non ha pari nella storia dell’umanità se si considera il numero degli individui che ne sono stati beneficiati: oltre 600 milioni”». (La Cina popolarecit., pg. 280)

In sostanza quindi, è grazie alla marmorea solidità della propria economia e alla stabilità del proprio assetto politico interno, che la Cina può porsi oggi come alternativa all'egemonia del sistema occidentale, sia nel campo economico, che di conseguenza, in quello delle idee e della visione geopolitica internazionale. È inoltre importante sottolineare, prima di proiettarci nel futuro, il fatto che la Cina abbia raggiunto la posizione appena evidenziata senza ricorrere al sistema di alternanza al potere tipico delle democrazie occidentali, ma con un sistema di tipo consultivo; e pur facendo propria la priorità capitalistica dello sviluppo, l’ha perseguita – con oscillazioni, ma prevalentemente – tramite un controllo politico e una pianificazione economica fortemente statalizzati, in particolare rispetto ai servizi pubblici e ai settori strategici; il famigerato “socialismo con caratteristiche cinesi” inaugurato dal Grande Timoniere Mao, e riadattato di volta in volta alle reali condizioni storico/sociali dai suoi successori.

Ideologicamente, questo è ciò rende inaccettabile la Cina agli occhi degli USA e dell’occidente, e che, soprattutto negli Stati Uniti, giustifica la crociata anticinese perpetrata ormai da decenni, mascherandone le reali ragioni; queste sono da rintracciare proprio nella minaccia al primato economico (e dunque politico) che a Washington fiutano già da parecchio tempo.

«Per tutte le amministrazioni statunitensi, via via succedutesi dal 1988 ad oggi, il regime socialista cinese ha rappresentato un nemico da abbattere e la Cina dopo il 1991 è stata considerata il principale avversario su scala internazionale». (Ipotesi Hong Kong o Armageddon? – R. Sidoli, M. Leoni, D. Burgio, Aurora, Capitolo Ottavo)

Bisogna allora assumere che un passaggio di testimone alla testa delle relazioni internazionali, o un sostanziale aumento del peso politico globale della Cina, non avverrà certamente col placido benestare dello Zio Sam, che anzi, con le recenti dichiarazioni del neoeletto Joe Biden, sembra affilare gli artigli in vista di una nuova guerra fredda. Si pensi al piano strategico adottato dall’amministrazione Obama, il «Pivot to Asia», promosso per accerchiare la Cina con accordi economici e militari con altri paesi asiatici (India, Giappone, Afghanistan, ecc.), o il National Military Strategy of the United States of America, «nel quale si dichiara il “mantenimento di una forte presenza militare in Asia per decenni”». (La Cina popolarecit., pg. 344)

È in questa cornice che bisogna inoltre sottolineare il ritorno di una narrazione mediatica fortemente anticinese, anche sui principali giornali italiani; in certi casi con il fine di cementare stereotipi culturali faziosi e divisivi, in altri con quello di riaffermare l’adesione alla linea dettata dagli Stati Uniti, seppur in assenza di ostilità dalla controparte.

La possibilità che nel futuro l'escalation di tensioni finora solo commerciali si tramuti in una contesa militare, è remota ma non improbabile. Di focolai fertili per la trasformazione del conflitto in un'aperta ostilità politica e potenzialmente bellica, se ne possono contare in abbondanza: l’isola di Taiwan, cruccio della Cina e pluridecennale nodo di scontro con gli USA, la Corea del Nord, il cui reggente Kim Jong-un è strettissimo alleato della Cina, la precaria situazione nel Mar cinese meridionale, a causa delle numerose dispute territoriali tra i paesi della zona, con frequenti “esercitazioni” delle forze statunitensi, che hanno già provocato più volte rimostranze da parte della Cina. Il termometro delle relazioni internazionali potrebbe quindi registrare un sensibile aumento della temperatura; in quest’ottica va visto, inoltre, l’avvicinamento tattico fra Cina e Russia, concretizzato nella stipula di una “comprehensive strategic partnership”, in cui i due paesi attestano di condividere «common security threats and economic interests.» (Will China and Russia form an alliance against the United States? -  Huiyun Feng, Danish Institute for International Studies - Copenaghen 2015)

È possibile dunque aspettarsi l'insorgere di conflitti più o meno locali, l'aumento di schermaglie e scaramucce e l'intensificarsi della polarizzazione politica delle relazioni internazionali nell’ottica del “o con noi, o con loro”, soprattutto da parte degli Stati Uniti, sulla scorta del modello di politica internazionale aggressivo e interventista mantenuto dalla Seconda Guerra Mondiale fino a oggi.

Proprio su questo punto possiamo iniziare a scorgere le sostanziali differenze tra i due modelli, che risulteranno decisive per cogliere appieno l’idea di comunità umana dal futuro condiviso che hanno in mente ai piani più alti del potere cinese. Perché, se da un lato il modello di egemonia statunitense si fonda su accordi unilaterali che gli eventuali aderenti non hanno che da sottoscrivere, e su una forte presenza militare (oltre 800 basi all’estero), il modus operandi cinese è del tutto diverso:

«La Cina ha bisogno di svolgere la cooperazione sulla base del reciproco vantaggio, creare una rete più fitta di interessi comuni e portare gli interessi convergenti a livelli superiori. Dobbiamo cercare di approfondire il modello del reciproco vantaggio e del win-win. Dovremo sviluppare percorsi globali di sviluppo economico, commerciale, per le risorse scientifiche e tecnologiche, finanziarie e altro, fare buon uso dell’integrazione strategica, approfondire la cooperazione reciprocamente vantaggiosa». (Xi Jinping: China to futher friendly relations with neighboring countries - Quotidiano del popolo, 26 ottobre 2013)

Xi Jinping e Obama, California, USA, 2015.

Xi Jinping e Obama, California, USA, 2015. | vhines200 / Flickr

Con un’unica base militare all’estero (un polo logistico di supporto commerciale), in Gibuti, e una ricca serie di colossali progetti incentrati proprio su cooperazione e reciproco vantaggio – come vedremo – le intenzioni del Partito sembrano proprio quelle di tener fede con costanza e convinzione a quanto dichiarato nel 2013, e ripreso in più occasioni, defilandosi con decisione dalla logica internazionale del perenne scontro d’interessi. La Cina punta così al rafforzamento dei suoi network commerciali e infrastrutturali, definiti dal partito stesso come «reti multidimensionali» che «si sviluppano attorno a principi che prefigurano una sorta di comunità internazionale “alternativa” a quella attuale». (La Cina popolarecit., pg. 325)

Per descrivere che aspetto potrebbe assumere questa comunità alternativa, e cosa sta facendo concretamente la Cina per realizzarla, analizzeremo quali misure la Repubblica popolare sta sviluppando per affrontare due iperproblemi che caratterizzano il presente, e che saranno sempre più incisivi nel futuro; la disuguaglianza della ricchezza fra nord e sud del mondo, e il cambiamento climatico.

Rispetto alla prima questione, basti notare l’attenzione (diplomatica e finanziaria) riservata dalla Cina negli ultimi quindici anni ai paesi maggiormente colpiti dal neoimperialismo occidentale; Ciad, Niger, Congo, Zambia, Ghana, Mali, Sudan, Kenya, solo per citarne alcuni. L'intervento della Cina in Africa mira precisamente a riempire le crepe lasciate da sconsiderate e pluridecennali politiche di sfruttamento, ed è di natura nettamente diversa rispetto a quello occidentale; questo punta a ottenere il controllo totale delle materie profittevoli presenti nel continente, senza contribuire alla sua stabilizzazione, ma piuttosto alimentando un caos perenne. I metodi del colosso asiatico, di contro, per quanto abbiano chiaramente come fine l'ottenimento di risorse a basso costo e/o di accordi privilegiati nel commercio, si sviluppano in una sorta di do ut des in cui il guadagno per le nazioni coinvolte consiste nella costruzione di reti infrastrutturali civili, agricole, industriali e commerciali, in investimenti mirati alla normalizzazione economica e all’occupazione, nel trasferimento di  tecnologie, e in generale, nella creazione di realtà economiche – e quindi politiche - solide e in crescita con cui sia possibile instaurare relazioni durevoli e vantaggiose, e non semplicemente fino ad “esaurimento scorte”. Tradotto in dati, il totale degli investimenti cinesi in Africa, già nel 2014 raggiungeva i 215,91 miliardi di dollari;

«Secondo l’agenzia di stampa cinese Xinhua, il 2018 è stato il nono anno consecutivo nel quale la Cina si è posizionata al primo posto come partner commerciale del continente africano, e sfiora i cento miliardi di dollari di volume complessivo. I progetti riguardano 30 mila chilometri di autostrade, 85 milioni di tonnellate all’anno di attività portuali, oltre 9 milioni di tonnellate al giorno di capacità di pulizia dell’acqua e circa 20 mila megawatt di generazione d’energia, oltre alla creazione di circa 900 mila posti di lavoro» (La campagna d'Africa – Giulia Pompili, Il Foglio, febbraio 2019)

E' evidente come l'apprezzamento nei confronti della Cina e del suo sistema stia crescendo a ritmi incalzanti fra i paesi africani, così come avviene nelle nazioni post-colonizzate del sud est asiatico, facenti parte dell'ASEAN, come il Laos, l'Indonesia, il Vietnam e le Filippine, che parimenti ricevono  finanziamenti da Pechino e vengono coinvolte in progetti di crescita simili a quelli messi in campo in Africa: l'investimento cinese in quest'area supera i dieci miliardi di dollari l'anno, ormai dal 2015.

Se c’è un progetto che incarna questa tensione cinese all’espansione della cooperazione fra stati (soprattutto in via di sviluppo e del terzo mondo, ma anche con Unione Europea e altri paesi occidentali), questo è senza dubbio la Nuova Via della Seta, o Belt and Road Initiative (BRI).

L’ambiziosa intenzione cinese è quella di costruire una rete infrastrutturale trans-continentale comune ai paesi che decidano di prendervi parte, senza limiti ideologici per l’adesione. Dove non solo le merci, ma anche i capitali e le tecnologie circolino liberamente, favorendo oltre che l'aumento della mole di scambi e della collaborazione, anche la crescita e lo sviluppo interno ai singoli stati; a fine 2019 il progetto, che consiste nel finanziare e costruire porti, aeroporti, ferrovie, strade, centrali di produzione elettrica e infrastrutture di supporto al commercio, contava l'adesione di 152 paesi . Partendo da Pechino, mira a coinvolgere tutta l'area dell'Asia centrale fino all'Europa orientale e settentrionale, i paesi asiatici e africani che si affacciano sull'Oceano Indiano, fino all’America meridionale e alla nuova rotta artica, aperta in seguito allo scioglimento dei ghiacci, che arriverebbe a toccare la Russia, i paesi scandinavi, la Groenlandia, fino a giungere in Canada e gli stessi USA. Alla sua realizzazione, la Belt and Road, è progettata per coinvolgere nella propria rete infrastrutturale il 65% della popolazione mondiale.

Rispetto invece al cambiamento climatico, di certo la sfida più scottante e potenzialmente devastante per qualunque potenza internazionale, ci sono delle controversie; in meno di settant'anni la Cina è stata protagonista di uno sviluppo economico tale da equivalere a numerose rivoluzioni industriali condensate negli stessi anni, e di una conseguente e parimenti esplosiva crescita demografica: il costo ambientale pagato per elevarsi a leader dell'economia mondiale è stato, dunque, altissimo. Il recente picco nell’utilizzo di energia a carbone, dovuto allo sforzo per la ripresa post covid-19 (in Cina già del tutto avviata), lascia prevedere ancora grossi limiti da questo punto di vista.

Eppure la dirigenza ha preso molto seriamente la questione ambientale; durante il diciottesimo Congresso del Partito, per la prima volta, accanto ai ribaditi impegni per l’aumento dei redditi dei lavoratori e per la lotta alla povertà ancora presente, è stata data una posizione di rilievo alla questione ecologica: «Dobbiamo continuare ad impegnarci per una politica statale di base per la conservazione delle risorse e la tutela dell’ambiente, per dare la massima priorità alla promozione del risanamento ambientale, e lottare per uno sviluppo verde e per la circolazione con basse emissioni di carbonio». (La Cina popolare – cit., pg. 278)

Xi Jinping stesso ha ripetuto in varie occasioni che conoscere, gestire, e provare a tamponare il problema climatico è una della priorità del grande sogno cinese e, dunque, del governo della Cina; tradotta in fatti, riportiamo l’approvazione della National Strategy for Climate Change Adaptation, un documento ufficiale che fissa le strategie e i metodi per adattare il paese al cambiamento climatico, il tredicesimo piano quinquennale, che pone particolare enfasi sul concetto di Economia Circolare, designando una serie di provvedimenti che ne favoriscano la diffusione, come l'istituzione di “Eco Parchi – Industriali”. Ovvero di:

«grandi distretti manifatturieri (nei quali operano sino a 4000 imprese) dove aziende appartenenti a diverse filiere si “scambiano” scarti e rifiuti che vengono dunque reimmessi nella catena del valore in luogo di materie prime vergini, piuttosto che finire in discarica o in impianti di incenerimento» (Piaccia o no: il Dragone scavalca l'America – cit., pg. 28)

Ancora, il China’s Natural Forest Conservation Program, che mira ad aumentare l'estensione del territorio boschivo di circa quattro miliardi e mezzo di metri cubi, volume equivalente a circa tre volte quello del Regno Unito, entro il 2030, e di raggiungere l'audace percentuale assoluta del 42% di superficie forestale in Cina entro il 2049. (Guide to chinese climate policy – David Sandalow, SIPA, 2018, pg. 100 e 101). L’intero pacchetto di misure che via via sono state varate fino al 2020 risulta, rispetto alle nostre striminzite politiche in materia, impressionante:

«Per alcuni si tratta del piano “più green” della storia: investimenti per 368 miliardi in infrastrutture per agevolare la transizione verso fonti rinnovabili, l’installazione ogni anno dai 15 ai 20 GW di potenza solare» (La Cina popolare – cit., pg. 286)

Infine, proiettandoci in avanti di qualche decennio, occorre evidenziare il progetto cinese GEIDCO, pensato per affrontare il problema dell’approvvigionamento energetico nel futuro, ma che come la BRI, rappresenta anche un concreto modello dell’idea di relazioni internazionali che la Cina intende realizzare. L’obiettivo è quello di costruire enormi zone di produzione energetica rinnovabile (dislocate in punti strategici del pianeta) e collegarle a un tessuto infrastrutturale che permetta di distribuire l'elettricità prodotta in modo rapido, poco costoso e sostenibile, in ogni angolo del mondo; comprese quelle aree che non godono di un accesso continuo ed affidabile alla corrente elettrica, che oggi ospitano circa tre miliardi di persone:

«Immaginate, per capire che cosa hanno in mente a Pechino, parchi solari nel Sahara e parchi eolici nelle zone ventose dell’Artico e Antartide. Immaginate una nuova rete di trasmissione dell’energia capace di connettere tutto il mondo. Immaginate che tutto questo porti entro il 2050 a produrre il 90% dell’elettricità con fonti rinnovabili a livello mondiale e investimenti globali per 50 mila miliardi di dollari in 30 anni» (Piaccia o no: il Dragone scavalca l'Americacit., pg. 37)

Sostenendo politiche di respiro globale come questa, volte al creare condizioni di win/win per i paesi che decidono di parteciparvi, e mettendo le proprie immani capacità organizzative e di pianificazione al servizio della comunità globale, la Cina potrebbe dunque realizzare la “Teoria del Magnete”; ideata per la prima volta da Friedrich Engles e poi ripresa Lenin e Deng Xiaoping, consiste nell’attirare con le proprie politiche di sviluppo i paesi stranieri, proiettando così de facto quella comunità umana condivisa auspicata nei discorsi del presidente, che l'egemonia occidentale USA fatica sempre più a tenere sotto il proprio controllo.

Occorre a questo punto porre la questione chiaramente: può, un metodo fondato sul reciproco vantaggio e su intese multilaterali, sulla diplomazia, sulla cooperazione infrastrutturale, sulla stabilità economica e politica, seppur promosso da un potente gigante, risultare alle nazioni del mondo preferibile a uno basato sull'unilateralità dei rapporti, sulla guerra e sullo sfruttamento, che ha, nei fatti, condotto l'umanità sull'orlo della crisi più spaventosa che si possa ricordare?

Ipotizziamo una risposta per lo meno probabile aspettandoci che gli stati potrebbero infine preferire l'appartenenza all'orbita cinese piuttosto che a quella occidentale, come avviene già oggi nei paesi del terzo mondo ed in quelli “in via di sviluppo”; per gli abitanti di questi stati le migliorate condizioni di vita dei lavoratori e cittadini cinesi rappresentano un obiettivo assolutamente auspicabile. Inoltre, la comunità internazionale (compresi USA e UE) potrebbe trovarsi – e in parte, economicamente, si trova già oggi - costretta a rivolgersi e adeguarsi al soft power economico e diplomatico della stabile e fiorente Cina, per garantirsi la sopravvivenza in un sistema di mercato le cui sorti dipendono sempre più dal colosso asiatico. Siamo già di fronte a qualcosa del genere quando paesi occidentali come l'Italia, la Francia, la Germania, il Giappone, l'Australia ecc., siglano accordi economici speciali con il governo di Pechino.

È in questo quadro che va interpretata l’ultima, fondamentale, caratteristica della comunità umana dal futuro condiviso guidata, o per lo meno trainata, dal dragone rosso; il principio irrinunciabile della non ingerenza politica, e della costruzione di un orizzonte pacifico entro cui creare reti integrate per lo sviluppo.

In merito, la politica della Cina è «orientata a opporsi con decisione e con costanza a una configurazione che fondi la legittimità o meno di un governo su norme ritenute universalmente valide e che possono giustificare interventi o intromissioni nella politica interna degli Stati (quindi il ritorno a pratiche coloniali da politica delle cannoniere)» (La Cina popolare – cit., pg. 318)

Il gradiente del fascino internazionale cinese, per molte realtà nazionali ripetutamente stuprate dall’interventismo estero, non può che aumentare.

Se le cose andassero secondo i piani di Pechino, allora, potremmo trovarci entro una cinquantina d’anni con una comunità internazionale egemonizzata da un paese prospero, politicamente stabile, militarmente non aggressivo ed enormemente organizzato, abile nell’esercitare uno stretto e capillare controllo politico, economico e socioculturale, capace di diminuire le divisioni interne alla società umana per via della spiccata indole cooperativa e pianificatrice, in grado di attuare piani su vastissima scala e a lunghissimo termine; la Cina, e con essa il sistema di relazioni internazionali sotto la sua egida, potrebbe dunque configurarsi in modo più funzionale rispetto a come il sistema occidentale ha dimostrato di poter fare finora. Specialmente rispetto agli enormi problemi globali (come le disuguaglianze economiche e il cambiamento climatico) che affliggeranno il futuro del mondo, a prescindere da chi ne deterrà le redini.

Più che una “globalizzazione cinese”, spauracchio dei media USA, ci troveremmo piuttosto di fronte a una “riglobalizzazione”; lo stesso Xi Jinping osserva come «il sistema internazionale ha problemi, ma dobbiamo perfezionarlo, non sovvertirlo», e che il solo mondo veramente globalizzato è quello che «rispetti le diverse culture, le idee e i modelli di sviluppo, e valorizzi la diversità culturale».

Certo, se gli Stati Uniti, come prevedibile, dovessero continuare con la strategia della tensione, con la logica del blocco, l’ingerenza politica e la costante minaccia militare, le cose potrebbero cambiare. Se l’intensità dello scontro dovesse salire fino a un aperto conflitto politico o addirittura militare (che coinvolgerebbe certamente la Russia, così come l’Unione Europea, non solo i paesi “poveri”), non si può escludere l’adozione di strumenti più decisi da parte della Cina per difendere i propri interessi, con risposte commisurate a eventuali provocazioni o atti ostili; in uno scenario di questo tipo non è assurdo immaginare un aumento della pressione politica del governo cinese nei confronti di paesi più o meno allineati, ai quali potrà essere richiesto, in base al tipo e grado di minaccia, se non un adeguamento politico, la ridiscussione di trattati, o per lo meno un azzeramento dell'opposizione. Questo non è nelle intenzioni della Cina, ma la grande forza del Partito che ne è alla guida è sempre stata la capacità di analisi, elaborazione e adattamento davanti al mutare delle condizioni storiche, e nulla lascia intendere che non sarà ancora così. Questa, forse, è l’unica certezza sul futuro della Cina.

Se dovesse infine materializzarsi – più o meno pacificamente – la comunità dal futuro condiviso a cui ambisce l’ex Celeste Impero, gli Stati Uniti, in un modo o nell’altro, dovranno adattarsi, come ha fatto più di mezzo mondo nei suoi confronti durante gli ultimi settant’anni; le ipotesi qui vanno da una «de-dollarizzazione del sistema economico mondiale» (Piaccia o no: il Dragone scavalca l'Americacit., pg. 37) in favore dello Yuan, fino all’adozione, negli USA, di un «serio programma “riformista-forte” che potrebbe essere accettato da una parte della stessa borghesia statunitense in un caso di totale emergenza» (Ipotesi Hong Kong o Armageddon? – cit., Capitolo Decimo), mirato a rendere più “gradevole” il sistema americano al Partito comunista cinese.

Prospettive che oggi sono senz’altro difficili da immaginare, ma che potrebbero tradursi in realtà molto prima di quanto pensiamo, soprattutto se la linea politica occidentale continuerà a essere ostile, non aperta al dialogo, volta alla ricerca della supremazia e non della coesistenza.

Per concludere, può essere utile menzionare il prezioso monito del filosofo sloveno Slavoj Žižek:

«Stati Uniti e Cina rappresentano entrambi, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell'organizzazione senza radici dell'uomo massificato». (La nuova lotta di classe – Slavoy Žižek, Ponte alle grazie, 2016, pg. 19)

La vera sfida a cui la Cina - obiettivamente più attrezzata degli altri competitor - o qualunque altra potenza con un ruolo preponderante nella geopolitica futura, dovrà rivolgersi, giace ancora silente dietro i clangori delle relazioni internazionali; si tratta dell’immane compito di trovare alternative valide non tanto all’attuale modello di sviluppo, quanto alla idea stessa di sviluppo. Perché più o meno organizzati, o più o meno guerrafondai, continuando a svuotare il pianeta delle sue interiora saremo condannati ad abitare un arido e infecondo deserto, su cui nessuno avrà voglia di egemonizzare.


Note

[1] Docente all’Università di Torino e vicepresidente del Torino World Affairs InstituteTwai

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Cina - 2021
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Roberto Comandè

è laureato in filosofia. La sua ricerca si concentra sull'evoluzione nel medio lungo termine delle dinamiche socio/politiche mondiali, in particolare quelle relative ad ambiente e cambiamenti climatici.

Pubblicato:
23-06-2021
Ultima modifica:
23-06-2021
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