La cattedrale - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Sede del Rettorato e dell'Aula Magna dell'Università "La Sapienza", Roma.
Sede del Rettorato e dell'Aula Magna dell'Università "La Sapienza", Roma.

La cattedrale

L'avanzata di Coursera e dei Google Career Certificates. Il gergo da campagna di marketing e l'ultraliberismo. Ha ancora senso l'università come l'abbiamo conosciuta o è diventata un edificio da abbattere?

Sede del Rettorato e dell'Aula Magna dell'Università "La Sapienza", Roma.
Alessandro Rosa

studia i rapporti tra l’uso della tecnologia e le sue ripercussioni in ambito sociale e scientifico, con un occhio di riguardo per l’area biomedica e tutto ciò che riguarda algoritmi, big data ed elaborazione del linguaggio naturale. Scrive su diverse riviste.

Poco prima di morire in un tragico incidente aereo, in un libro dai toni quasi profetici Bill Readings aveva descritto con estrema lucidità le trasformazioni che il mondo accademico anglosassone stava intraprendendo all'inizio degli anni ‘90. La metamorfosi delle università da luoghi di trasmissione del sapere a delle vere e proprie aziende regolate dalle leggi del mercato non è avvenuta in una data precisa, ma si è palesata come la naturale conseguenza di quei processi di globalizzazione che hanno plasmato l'epoca moderna. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: un costo dell’istruzione sempre più alto, un mondo della ricerca selvaggio e regolato dall’imperativo categorico del publish or perish, un corpo docenti sempre più stressato e costretto a vivere sull’orlo del baratro per mantenere la propria posizione , il venire meno dei fondi pubblici e il conseguente calo della spesa sull’istruzione, il divario incolmabile tra i vari corsi di laurea sulla base della loro spendibilità sul mercato del lavoro, che si riflette poi sulla qualità stessa dell’insegnamento.  

Un cambiamento che è partito dagli Stati Uniti, ma che ha in breve tempo investito l’intera Europa e ha lentamente trasformato anche le università italiane, dove tra tagli all’istruzione pubblica e smembramento della figura dei ricercatori e insegnanti l’accademia si trova costretta a reiventarsi come brand per attrarre fondi privati. Federico Bertoni professore ordinario di teoria della letteratura dal 2000 presso l'Università di Bologna, ha recentemente descritto l’università italiana come affetta da una particolare sindrome di Stoccolma. Se difatti la causa del suo progressivo disfunzionamento è proprio quell’ideologia neoliberale che spinge alla costruzione di un sapere come prodotto da commercializzare in serie e consumare rapidamente, il modello che la stessa università adotta è proprio quello aziendale. Con i suoi parametri qualitativi impossibili da soddisfare, i suoi oscuri meccanismi burocratici, il suo gergo da campagna marketing  (la “mission”, il “recruiting”, lo “scouting”, ecc.), l’università contemporanea sta perdendo la sua funzione sociale primaria, quella di veicolare un messaggio culturale e trasmettere il sapere.

Il comportamento di un’università che ha imparato ad amare e imitare il proprio persecutore appare ancora più paradossale se consideriamo che le stesse forze dell’industria non mancano mai di denunciare l’inefficienza del sistema dell’istruzione. Ai giovani diplomati o neolaureati vengono spesso richieste competenze molto lontane da quelle offerte dall’accademia con il risultato di necessitare di ulteriori tempi di formazione sul posto (spesso e volentieri non retribuiti), mettendo in serio dubbio l’effettiva professionalizzazione dei titoli di studio universitari. Qualche tempo fa un portavoce di Confindustria denunciava lo scollamento sempre più marcato fra la formazione scolastica e universitaria e le reali esigenze del mercato del lavoro, arrivando a definire il mismatch educativo come una «piaga sociale». La richiesta di figure sempre più specializzate costringe ad accumulare titoli di studio nella speranza di tramutarli in occasioni lavorative, in un circolo vizioso che non fa altro che erodere lentamente lo strato sociale benestante e a impedire qualsiasi forma di ascesa sociale per le fasce più deboli.

Durante l’estate di questo imprevedibile 2020, Google ha annunciato di voler istituire dei corsi formativi dalla durata di 6 mesi equiparabili a una tradizionale laurea di 4 anni. L’azienda di Mountain View ovviamente si concentra sul settore informatico, dunque sul sito troviamo i vari profili più richiesti da questo ambiente, dal Data Analyst al IT Support, con tanto di salario medio in bella mostra che rende esplicito il vantaggioso rapporto costi/benefici. In un emblematico post pubblicato sul blog ufficiale del colosso tech troviamo una tacita critica al sistema formativo moderno, che non è in grado di restituire in forma di salario i soldi e il tempo spesi in istruzione. Se il continuo accumulo di titoli universitari, certificazioni, master e via dicendo si traduce solo in un lieve margine di guadagno sul lungo termine, un certificato dalla durata di sei mesi risulta un investimento ben più sensato o perlomeno meno rischioso. Fermo restando che l’accumulazione di titoli rimane un lusso che solo un determinato ceto sociale può permettersi, eliminando ogni forma di competizione con chi non ha un patrimonio sufficiente per ottenere tutti i sopracitati titoli.

Striscione esposto all'Università di Pisa, 2011.

Striscione esposto all'Università di Pisa, 2011. | Franco Cecchi / Flickr

Le parole del post riflettono tutta la tipica immedesimazione nella figura del buon samaritano a cui spesso le aziende della Silicon Valley  aspirano. App, cloud, machine learning, big data sono tutti strumenti che, nell’immaginario delle aziende leader del digitale, migliorano la vita quotidiana nello stesso modo in cui è possibile migliorare un programma ottimizzandone il codice. Il caso dell’istruzione non sembra essere diverso: con la sua mossa Google sta constatando l’obsolescenza del sistema educativo per come lo conoscevamo, che non solo non è al passo coi tempi, ma è soprattutto tendenzialmente improduttivo. Si tratta di un segnale molto forte, in grado di mettere in serio dubbio l'utilità e la funzione di un titolo di studi universitario, ma anche emblematico di un modello tardo-capitalista incapace di rallentare e ansioso di generare profitti (lo stesso tema della produttività è un perno centrale dell'ideologia che si è diffusa a partire dalla baia di San Francisco).

La questione appare ancora più urgente se consideriamo il crescente costo dell’istruzione superiore negli stessi Stati Uniti, dove non è raro ritrovarsi a fine percorso con un debito di decine di migliaia di dollari da ripagare durante i primi anni della propria carriera. Ma a quale carriera può aspirare oggi qualcuno che ottiene un Bachelor of Arts? E quali vantaggi può trarne un ingegnere che guadagna quasi quanto un diplomato? In Italia gli ammortizzatori sociali per il diritto allo studio riescono ancora a evitare di indebitarsi concretamente per conseguire una laurea, ma il problema del ritorno economico sul breve-medio termine è esattamente lo stesso.

La questione del surplus di laureati in materie non professionalizzanti è stata ampiamente dibattuta, tra gli altri, da Raffaele Alberto Ventura nel suo Teoria della classe disagiata, e non è questo il luogo per riesaminarla. Il centro focale, infatti, non riguarda esclusivamente i titoli di studio più critici, ovvero non si tratta di valutare se studiare lettere o filosofia sia un buon progetto di vita per un neodiplomato o meno. Quello che è da mettere in discussione è lo statuto stesso dell’ambito accademico nei confronti dei sistemi formativi emergenti. Sistemi che, sia chiaro, esistono ormai da tempo (basti pensare per esempio ai grandi aggregatori di corsi online come Coursera, i cosiddetti Massive Open Online Course), ma che fino ad oggi non sarebbero mai stati equiparati a un titolo universitario. Di fronte alla nascita di un’offerta come il Google Career Certificate il valore e il senso di una qualsiasi laurea, anche una altamente professionalizzante, viene messo in discussione, perlomeno se guardiamo al rapporto costi/benefici.

Università di Ancona, 2003.

Università di Ancona, 2003. | Gilberto Taccari / Flickr

Proprio su questo nodo si concentra il nocciolo della questione. Qualcuno potrebbe obiettare che un titolo di studi universitario non è da valutare in base alla sua spendibilità all’interno del mercato occupazionale, ma dipende da tutta una serie competenze e capacità di sfondo che non possono essere acquisite altrimenti. L’università è, in breve, sapere e cultura, due modalità di conoscenza che richiedono un approccio più diluito, non facilmente comprimibili in compartimenti stagni. Ma è difficile capire se e in che modo l’università odierna sia ancora in grado di fornire questo genere di conoscenza, come lo stesso Readings ha preconizzato 25 anni fa. Qual è la cultura che viene trasmessa nelle aule sempre più affollate, da professori sempre più oberati di lavoro che nulla ha a che fare con l’insegnamento e con ritmi praticamente fordisti? 

Nel suo The Game, Alessandro Baricco racconta una breve storia del mondo del digitale, ricordando una prima epoca di internet dove il sapere era equamente distribuito, dove per “rete” si intendeva proprio il risultato finale della connessione di una miriade di menti pensanti. Il mito della democraticità della rete è crollato nel momento in cui si è voluto sacrificare questa libertà d’esplorazione in nome di una presunta efficienza, che si è poi ovviamente tradotta in un ingente ritorno economico per quei pochi che l’hanno saputo sfruttare. Allo stesso modo l’accademia si è ritrovata strozzata dal paradigma dell’efficienza, della quantificazione e dagli obiettivi economici dell’editoria del settore, perdendo per sempre quell’idea di distribuzione del sapere equa e alla portata di tutti. 

"L'università di Google", come è stata spesso chiamata dalle testate che hanno riportato la nascita del servizio, in teoria ha ben poco a che fare con l’istituzione formativa che conosciamo. Si tratta piuttosto di un prodotto figlio dei tempi che corrono; dove la parola prodotto qui è la chiave. Google non sta offrendo una laurea, sta vendendo un servizio in cambio del quale i suoi acquirenti potranno accedere a un determinato benessere. Come dimostra la discussione di cui sopra, anche le stesse università stanno cercando di battere questa strada (il sapere come servizio, la laurea come titolo per accedere a una posizione lavorativa), ma come spesso accade da tutto ciò che proviene dalla Silicon Valley i certificati di Google sono più economici, più rapidi, più efficienti: ricalcando il gergo del settore potremmo aggiungere l’aggettivo smart. 

È emblematico che l’avvento dei Google Career Certificates sia coinciso con l’epidemia di COVID-19. Con l’economia globale in netta crisi e l’innalzarsi del tasso di disoccupazione, il futuro di una grossa fetta di popolazione appare a dir poco incerto e la possibilità di reiventarsi ex novo a un costo praticamente nullo potrebbe essere un’ancora di salvezza per moltissimi, giovani e non. Dall’altra parte, il processo di digitalizzazione forzato ha costretto gli atenei ad accettare nuove forme di didattica, aprendo la strada a un nuovo modo di intendere la distribuzione del sapere. Questo, oltre a fornire una via d’uscita dalla questione del caro degli affitti nelle grandi città metropolitane, pone il mondo accademico nella posizione di ripensare alle proprie funzioni sociali. Hanno ancora senso i tradizionali metodi didattici nell’epoca del costante flusso informativo a cui la rete ci ha abituati? Possiamo ancora parlare di lauree professionalizzanti, se questi percorsi hanno poco contatto con il mercato del lavoro? Continueremo a dare lo stesso valore al titolo di studio al netto delle capacità effettive?

Nella loro perfetta sincronia coi tempi che stiamo vivendo, i Google Career Certificates ci mettono di fronte al fatto compiuto: l’università sta rovinosamente perdendo la sua funzione sociale, in primis come equo sistema di distribuzione del sapere, e in secondo luogo come strumento di professionalizzazione e ascensore sociale. L’emergere di certificati in grado di fornire una formazione facilmente spendibile in poco tempo e a costo praticamente zero non può che essere accolta come una buona notizia proprio perché può aiutare ad assottigliare le diseguaglianze socioeconomiche preesistenti. Allo stesso tempo, però, è anche un indicatore allarmante dell’inevitabile erosione del sistema educativo odierno. In un’epoca di sovraccarico informativo il ruolo dell’università dovrebbe proprio essere quello di direzionare meglio il sapere, dargli una forma più coesa e metabolizzare meglio i processi che ci investono tutti i giorni. Proprio per queste ragioni è difficile continuare a credere che si possa mantenere in vita un’istituzione di questo tipo senza rivederne completamente i meccanismi interni. Come ammoniva già Readings, ci troviamo a vagare tra le rovine di questo enorme edificio del sapere, e gli spettri che incontriamo lungo la volte in decadimento non sono altro che gli stessi fantasmi che hanno completamente cambiando le nostre idee di stato, società ed economia. 

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Questo articolo è parte della serie:  Sapere futuro
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Alessandro Rosa

studia i rapporti tra l’uso della tecnologia e le sue ripercussioni in ambito sociale e scientifico, con un occhio di riguardo per l’area biomedica e tutto ciò che riguarda algoritmi, big data ed elaborazione del linguaggio naturale. Scrive su diverse riviste.

Pubblicato:
03-02-2021
Ultima modifica:
10-11-2022
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