La disciplina del territorio - Singola | Storie di scenari e orizzonti

La disciplina del territorio

Pukllay, carnevale Q’eros: reportage narrativo nelle Ande del Perù, alla scoperta di trasformazioni ancestrali e del loro rapporto con il presente.

Jacopo La Forgia

(1990) è fotografo e scrittore. Come fotografo ha realizzato lavori, oltre che in Italia, in Romania, India e Indonesia. È autore di Materia (Effequ, 2019) e coautore di Trilogia della catastrofe (Effequ, 2020). Vive a Venezia.

La memoria si nutre di impossibilità, e il viaggio per la nacion Q’ero voglio ricordarlo come un tracciato senza interruzioni.
Un giorno del 2022 ho preso un volo da Roma a Madrid a Lima. Aria, ventidue ore.
Da Lima ho preso un autobus notturno per Cusco. Asfalto, ventiquattro ore.
Da Cusco a Paucartambo a Q’eros ho preso due taxi collettivi. Sterrato, sei ore.
Se non si facessero soste, il territorio ancestrale si potrebbe raggiungere in cinquantadue ore.
Quand’è che il tempo si interrompe? Quando viene sospeso? Quand’è che il coltello taglia la gola dell’alpaca, mischia il sangue alla terra, la terra al sangue? Quand’è che le voci iniziano il canto?
Hermàn, il ragazzo che ti ha condotto qui, ti dice: «queste cose hanno lo stesso nome nella mia e nella tua lingua. Ma lo so che non puoi sentirle come le sento io. Un po’ mi dispiace, per questo… Io sono dentro queste cose e loro sono dentro me. Loro sono me e io sono loro. Non posso abbandonarle».

I Q’eros sono una comunità nativa di lingua Quechua delle Ande peruviane. Risiedono sul versante sud della Cordigliera Vilcanota, a circa cento chilometri di distanza da Cusco, la città che fu capitale dell’Impero Inca dal tredicesimo al sedicesimo secolo; Qosco in quechua significa “ombelico”, “centro”: nella valle di Urubamba le quattro regioni dell’Impero, in origine chiamato Tawantinsuyu, confinavano una con l’altra, e, secondo la cosmologia Inca, Uku Pacha (“il mondo di sotto”) vi toccava Kay Pacha (“il mondo di qui”) e Hanan Pacha (“il mondo di sopra”).
I Q’eros vengono conosciuti dalla comunità internazionale a seguito della spedizione etnologica condotta nel 1955 dall’antropologo Juan Oscar Nuñez del Prado.
Nuñez del Prado, insieme ad altri studiosi di Cusco che nella seconda metà del Novecento si confrontano con i Q’eros, ritiene che la comunità andina conservi ancora, nel suo assetto sociale, spirituale e politico, un retaggio diretto della società incaica. I Q’eros sarebbero tra i pochi depositari delle tradizioni del Tawantinsuyu, che in loro si mantengono vive.
Nella mitologia orale della comunità andina si afferma che il termine “Q’ero” indica il primo insediamento degli Inca ­– il luogo in cui l’Impero nasce, per decisione divina; a oggi, lo stesso termine definisce anche la comunità di persone che occupano tale insediamento.
Nella mitologia, si narra inoltre di come i Q’eros si salvarono dagli spagnoli. In un’intervista del 1983, un anziano abitante della comunità racconta che:

quando gli spagnoli arrivarono per sconfiggere gli Incas, iniziarono a inseguirli nei luoghi più lontani; qui a Q'ero c'era un reggimento di Incas. Un reggimento di spagnoli iniziò a inseguirli da Willka Kunka Q’asa [il passo per il quale si attraversa la catena montuosa orientale nel viaggio da Paucartambo a Q'ero] fino a raggiungere il luogo chiamato Weracocha Pampa [la pianura del bianchi]. dove essi decisero di resistere agli spagnoli. Gli spagnoli arrivarono e, in una terribile battaglia, sconfissero quell'ultimo reggimento Inca; si salvarono solo due uomini, che riuscirono a fuggire grazie ai loro poteri, poiché erano Alto Misayoq [i più importanti sacerdoti del popolo Q’eros];

I due uomini si rifugiarono in cima alle montagne, dove, dopo aver reintegrato la loro forza e la loro potenza, sconfissero gli spagnoli con l’aiuto delle divinità di montagna (gli Apu); un terremoto e una frana distrussero l’esercito degli invasori.
Dallo studio dei miti e della cultura Q’ero si è talvolta dedotta una sovrapposizione completa della loro identità culturale con quella degli Inca. Questa uniformazione è per alcuni una forzatura. L’antropologa Holly Wissler afferma, ad esempio, che sarebbe più corretto evidenziare come la vicinanza geografica del gruppo etnico degli Inca, nella valle di Cusco, e dei primi Q’eros, nella valle di Paucartambo, abbia prodotto una compenetrazione delle due culture.
Inca o meno, i Q’eros hanno in ogni caso un’unità culturale ed etnica molto forte e molto attiva. La loro regione culturale è, come scrive Steven Webster, un “enclave etnico”, e i Q’eros sono uno dei pezzi rimanenti di un antico mosaico di gruppi tribali che probabilmente popolavano l’area prima del consolidamento politico operato dall’impero Inca.
La nacion Q’ero è un mondo altro. Un Altrove.

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C’è una cosa di cui mi pento più del solito, adesso che scrivo questa storia e che sfoglio gli appunti raccolti sul taccuino “Hatun Q’ero”: non aver contato le persone.
La stanza rettangolare con pareti in pietra, pavimento in terra battuta, soffitto d’erba ichhu; in un angolo spuntava un ciuffo d’erba e qualcuno aveva riso dicendo: «vedi, pure in casa coltiviamo patate. Mangiamo solo tuberi, ne sappiamo coltivare centocinquanta tipi diversi»; eravamo tutti seduti in terra con la schiena al muro e le gambe incrociate, tranne i tre uomini sul margine del letto addossato alla parete – una struttura in legno con sopra un materasso, montagne di vestiti, dei flauti, una teiera, una torcia in plastica...
Nella stanza alcuni pelavano ortaggi, altri fumavano, altri scambiavano parole. C’era chi attendeva e basta. Tra poco sarebbe stato servito il primo pasto rituale della mattina.
Pukllay è la celebrazione comunitaria più attesa e anticipata del ciclo annuale, di cui si festeggia l’inizio nei primi giorni di marzo. Si celebra la procreazione degli animali e si rinnovano i legami e le relazioni comunitarie. Le interazioni sociali che avvengono tra i membri della comunità durante i nove giorni di festa sono le più prolungate dell’anno.
Ma non ho il numero di persone in mano: se lo avessi, mi sarebbe più facile visualizzare la stanza, e invece nel ricordo quella stanza respira, si allarga e si restringe come un lago andino prima e dopo le piogge estive. Di solito queste respirazioni mnemoniche le accolgo senza problemi, permettono al racconto di muoversi snodato, senza l’oppressione del dettaglio.
Eppure questa volta la vaghezza, anche la più piccola, mi preoccupa.
Avverto desideri che non si possono esaudire: ricordare il numero esatto delle persone, quante patate c’erano a terra, di che colore erano, chi aveva in testa il cappello e chi no, chi fumava, chi tagliava la carne, chi la cuoceva, chi rideva e basta, chi se ne stava serio a guardarmi – era Victor, alla mia destra, che mi insegnava come masticare foglie di coca.
Perché voglio sapere tutto questo? Perché dimenticare i dettagli mi spaventa?
Ecco, entra Hermàn con un recipiente pieno di interiora.
L’alpaca è stata uccisa poco fa. Ho assistito allo sgozzamento, allo scuoiamento e alla divisione in pezzi. Mi sono fatto molto vicino, ho scrutato il taglio usato per recidere la carotide, la giugulare e la trachea, ho studiato la posizione delle mani sul vello mentre l’animale muore, il guizzo di vuoto negli occhi.
Non lo faccio per formulare ipotesi sulla natura di un popolo a partire da come viene nascosta o mostrata la morte in cui inizia il nutrimento – non ne avrei i mezzi, non sono né un antropologo né un etnologo.
Il mio intento è vedere, essere catturato dalla visione del territorio ancestrale e delle persone che ne sono parte.
I gesti del territorio, la narrazione della carne: estrarre la vita dall’alpaca, farla a pezzi, cucinarla, sono alcune delle azioni più importanti del Pukllay. L’animale viene ucciso nel luogo dove è nato e vissuto, sull’erba di cui si è nutrito, e il sangue si raccoglie nei punti in cui la terra è più morbida, si mischia al fango, viene raccolta dai torrenti. L’animale muore con le mie mani, l’obbligo a morire con i miei propri gesti – il coltello, la nebbia, il fumo dei fuochi di sterco. Tutto è visto da tutti.
«Gli alpaca quanto spesso li uccidete?» ho chiesto a Hermàn mentre assisteva un altro ragazzo allo scuoiamento.
«Raramente. E di solito la carne viene fatta seccare. Oggi è un’occasione speciale e la mangeremo fresca».
«Certo, non avete frigoriferi…»
«Niente frigorigeri, no».
L’elettricità dei pannelli solari che il governo locale ha installato a Q’ero basta solo per un po’ di luce serale.
«Come si chiamava l’alpaca che avete ucciso?»
«Non aveva nome. Non ha senso dare nomi agli animali».
Ecco che a Q’eros, nella stanza che respira, viene servita la zuppa di interiora. Un pasto complicato, un sapore che per me è al limite del disgusto; ingoio con foga, Hermàn mette su un’espressione molto seria e, ridendo dentro di sé, mi chiede se ne voglio ancora.
Penso: “lo vorrei mangiare con un gusto più illuminato, più approfondito di quello che uso con una carne anonima, impersonale”. Lo dice il protagonista de Il Re degli Ontani di Tournier: «quando dico “amo mangiare carne, amo il sangue, amo la carne”, quel che importa è il verbo amare. Io sono tutto amore. Amo mangiare carne perché amo le bestie. Credo che sarei capace di sgozzare con le mie mani e di mangiare con un affettuoso appetito un animale che avessi allevato e che avesse condiviso la mia vita. Lo mangerei addirittura con un gusto più illuminato, più approfondito di quello che uso con una carne anonima, impersonale».
A Q’eros, durante il Pukllay, la carne è come il mondo?
E sento il rassicurante rumore delle bocche che masticano e ingoiano, i volti scuriti dal sole e dal freddo, Juan, Rosa, Aurelia, e poi il bambino di cui non so il nome che mi guarda fisso e non mi chiede niente.

L'alpaca

L'alpaca | Jacopo La Forgia

2.

Il figlio di Nuñez del Prado, anche lui antropologo, racconta che quando nel 1955 i Q’eros furono incontrati dal padre erano «un popolo consapevole come pochi della propria ascendenza andina; custodivano inestimabili testimonianze di sopravvivenza culturale della nostra antica civiltà». Allo stesso tempo, però, mostravano la «viva e lacerante permanenza di un sistema in cui cui l’uomo delle Ande, espropriato della sua terra e sminuito nel suo status politico, era alla mercé dello sfruttamento del feudatario». Nel ’55, i Q’eros, come molti altri contadini, erano ancora obbligati alla mita, una sorta di corvée a favore di una hacienda locale. La mita, pur essendo stata abolita da Simon Bolivar nel 1824, sopravviveva ancora in diverse aree del Perù.
Nuñez del Prado riuscì, insieme ai suoi collaboratori, ad avviare un processo di espropriazione dell’hacienda in cui i Q’eros venivano sfruttati. Il progetto fu portato a compimento nel 1963. A ciò conseguì il riconoscimento ufficiale di una scuola a Q’ero, l’organizzazione della attività economica collettiva, l’apertura di un conto bancario e nel 1968 i Q’eros presero ufficialmente possesso del loro territorio.
Dopo diversi anni di relativa serenità, in cui i Q’eros hanno vissuto un naturale isolamento, l’apertura della strada sterrata che collega i loro villaggi alla cittadina di Paucartambo ha cambiato nuovamente gli equilibri della comunità. La strada rende più semplice l’approvvigionamento di frutta, medicinali, e la ristrutturazione degli edifici; allo stesso tempo, però, sulla comunità si sono cominciate ad affacciare diverse imprese minerarie che tentano di sottrarre ai Q’eros il loro territorio ancestrale, per sfruttare il terreno ricco di oro e di rame.
Come scrive Nuñez del Prado, «quasi tutte le approsimazioni contemporanee hanno tentato di considerare che la civilizzazione creatrice del Tawantinsuyu fu distrutta o definitivamente sconfitta, e nel migliore dei casi, certi storici le hanno concesso una magnanima “visione dei vinti”, nella quale, nonostante la palese buona volontà, viene emesso il giudizio di una definitiva sconfitta delle Ande».
Del Prado – usando come «referenti empirici» miti e profezie che «nella loro tipica razionalità analogica ci parlano della realtà sociale e della prospettiva dei Q’eros», frequentando a lungo la comunità e confrontandosi con personalità spirituali e politiche – tenta di dimostrare che la civilizzazione andina non è stata realmente vinta: è solo stata transitoriamente coperta dalla “mareggiata” occidentale.

Mentre siamo a Q’ero la visibilità del mondo è per noi dolorosa ed eccedente. E dal troppo vedere, ne siamo convinti, provengono tutti i nostri sintomi: il disgusto per il cibo che ci viene donato, gli incubi in cui ci smarriamo di notte, l’angoscia che ci aggredisce quando siamo messi di fronte alla povertà e alla malattia.
Scrivo questo testo per dire: i Q’eros esistono ancora, e vivono in un territorio ancestrale.
Cos’è un territorio ancestrale?

È un’area occupata o posseduta da una comunità culturale indigena da tempo immemorabile. Può comprendere terre, acque interne e aree costiere; l’occupazione e il possesso (che l’individuo o la collettività ereditano dai propri antenati) sono continuativi fino al presente, interrotti solo in caso di guerra, forza maggiore, furto.

Il concetto più importante: tempo immemorabile.
Quando mi ritrovo a conversare con Ricardo Apaza, il presidente della comunità, gli chiedo se sa dirmi da quanto tempo i Q’eros abitano la zona. So già la risposta.
«Da sempre».
«Che vuol dire da sempre? Non c’è una data?»
«No, è un tempo lontano, lontanissimo, e poi...»
«E poi?»
«E poi non ha importanza trovare una data. L’idea che siamo stati stati sempre qui è naturale, normale, non è un’idea da mettere in crisi. Non ci facciamo le domande che mi fai tu».
È un uomo giovane, non avrà più di quarant’anni. Io sono seduto a terra, lui sulla prima sedia che vedo ad Hatun Q’ero. Nell’aria c’è la pacatezza che si diffonde da uomini dal potere antico, un potere che non è dominio ma vigore.
«Questi laghi sono nati insieme a noi, e noi insieme a questi laghi. Qui, fintanto che ci stiamo noi, la natura rimane intatta. Niente miniere, niente morte. Le colline e i fiumi rimangono come sono, l’acqua si può bere, le patate si possono mangiare».
Il non-tempo infrange la quotidianità e fonda l’esistenza normale, la normalità del territorio ancestrale.
Io sono nato a Roma, e credo che nemmeno se la città venisse distrutta proverei un sentimento del territorio assimilabile a quella dei Q’eros. Nemmeno se venisse distrutta la casa dei miei genitori. Quella è una casa che mia madre e mio padre hanno comprato da altri, un luogo che chiamano “casa” in seguito a una scelta, e il mio attaccamento a essa è dovuto a un’abitudine, l’abitudine di averci abitato, che inizia a svilupparsi in un momento preciso, trent’anni fa, quando sono nato.
Chiedo ad Apaza del Tinkuy, la danza di carnevale che si svolgerà tra poche ore sotto il Colque Cruz, a cavallo di uno dei passi che delimita il territorio Q’eros. Apaza mi parla dell’importanza delle canzoni che si intonano durante il Pukllay.
«Di che musica si tratta?» chiedo.
«Un tempo un gruppo di donne cantava accompagnato dal Pinkuyllu, il flauto andino suonato dagli uomini. Ora le canzoni che abbiamo scelto vengono registrate e poi vengono mandate da grossi megafoni».
Per i Q’eros, la canzone designata ogni anno per il Pukllay sarà quella che stabilirà i vincoli simbolici di protezione tra il divino e l’umano durante tutto l’anno, e di conseguenza accompagnerà le diverse attività che si sviluppano all’interno della comunità, sia nella sfera pubblica che in quella privata.
«Viene suonata una canzone sola?»
«Al massimo due».
«Per quanto tempo?».
Sorride.
«Eh, si va avanti parecchio, l’altr’anno Hermàn e gli altri si sono fatti dodici ore di seguito».
«Ballano solo i ragazzi?»
«Sì. Gente tra i diciotto e i trent’anni, direi».
Apaza mi spiega che i Q’eros hanno due generi principali di canzoni: Animal taki, che canta la fertilità degli animali domestici, e Pukllay taki, che viene inventata per l’occasione e che accompagnerà la comunità per tutto il resto dell’anno. La musica serve come forma attiva di rinnovamento, rigenerazione e riproduzione dell’ordine sociale e cosmico.
La performance musicale e la danza attivano i processi rigenerativi su diversi piani: quello della rivitalizzazione delle relazioni con gli spiriti cosmologici – gli Apu e Pacha Mama; quello del rinnovamento e del rinforzo dei legami sociali e dei ruoli di uomini e donne; quello della ricostituzione e riproduzione dell’ordine cosmologico.
«Chi le sceglie le canzoni?»
«Se ne parla tutti insieme, ma sono io a scegliere in via definitiva quelle che verranno suonate».

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È venerdì, la nebbia assiste le montagne nel loro tentativo d’invisibilità, è presa a cadere una pioggia debole e inarrestabile. Con Lucio, il padre di Hermàn, ci incamminiamo verso la prima cresta a est della comunità. Supereremo le lagune, e poi arriveremo al passo dove oggi si svolgerà il Tinkuy. Hermàn dovrebbe essere già arrivato; è partito prima di noi, insieme alla fidanzata Aurelia con cui vive a Cusco.
Mentre Lucio ed io camminiamo, rifletto su come i Q’eros considerino la musica un’offerta agli Dei della terra e del cielo. Prima si è offerta la carne, poi si sono accesi i fuochi, alla fine si offre il corpo come musica e come voce.
Lucio è un uomo piccolissimo e rapido, cammina senza dire una parola, si orienta seguendo una forza che percepisce solo lui. Ogni tanto si ferma e mi attende: se fossi solo, lo sa, mi scioglierei nella nebbia.
Dopo circa un’ora, rallentiamo. Ecco arrivare la musica; si ispessisce un passo dopo l’altro, fino a quando non ne riconosciamo la fonte. È lì, alla nostra destra…
I colori: d’improvviso la nebbia si fa da parte e la montagna ci offre la vista di numerosi gruppi di persone. Stanno seduti in diversi punti della grande area erbosa a cavallo del passo.
Domina il rosso dei poncho e delle cerate su cui la gente si siede, e la maggior parte degli sguardi sono rivolti ai due alberi di circa cinque metri che sono stati conficcati a terra in occasione della festa. Sono ricoperti di palloncini colorati e di festoni. Il rito è comune a diverse comunità peruviane. Secondo la cosmovisione andina l'albero rappresenta l'uomo e la terra la donna. Storicamente il rito ha implicite connotazioni di carattere sessuale, che ora, nel contesto in cui mi trovo, rimangono vaghe.
Gruppi di venti o trenta ragazzi danzano accoppiati intorno ai tronchi, saltano da un piede all’altro, poi corrono su per il fianco erboso della montagna. La gente li osserva e riceve ondate di calore dalla loro energia.
Lucio va a sedersi accanto ad Apaza e agli altri uomini, su un pancale appoggiato a una grande formazione rocciosa. Stanno un po’ in disparte, a qualche centinaio di metri dal nucleo della festa. Ogni tanto uno degli uomini si alza, cammina di fronte agli altri offrendo sigarette e foglie di coca. Ne prendo una manciata. Si beve alcool puro mischiato ad acqua. La nebbia danza con i ragazzi, si aggruma, scende, poi rotea su sé stessa, sparisce, poi torna nuovamente.
Dopo un po’ mi alzo, Lucio mi dice che sono libero di esplorare, di muovermi tra i ragazzi e vederne i movimenti, di seguire il patto e lo scambio che i piedi fanno con la terra e che le mani fanno con le altri mani, stringendo, tirando, spingendo, lanciando.
La chiara macchia di sole si sparge a poco a poco nell’aria, la luce diviene parte della danza. La luce. Non viene da un luogo specifico, promana da un’altezza vaga, è sopra di noi come una calotta, è atmosfera come è atmosfera l’acqua fredda che una leggera folata di vento mi getta sulle guance. La terra sotto i piedi, la montagna, la terra è la montagna, la montagna è terra, la terra è atmosfera come è atmosfera l’aria, è il mondo tutto. I ragazzi corrono, pestano i piedi, saltano.
La musica. Due enormi megafoni grigi. Canti, lunghi fischi di flauto.
Nell’altro mondo, qui, oggi, diciotto marzo duemilaventidue alle quattro del pomeriggio, la prima cosa che c’è stata, prima di tutte le altre, è stata la musica, la voce modulata nel canto, le parole che non comprendo, le parole che mi hanno lanciato contro, o io che, non avendone esperienza, mi lanciavo contro le parole, non avendo l’abitudine di questa musica-territorio, del territorio-musica, del territorio come voce, come canto.
Ho avuto l’immagine di me, sedici anni fa, in un bosco del centro Italia, un’altra musica, senza parole, solo battiti, battiti dentro alti muri di casse nere, i boschi umidi, un caldo freddo, un’umidità d’acqua e di pelle, un corpo preso nella musica.
Ho avuto l’immagine di me, e così la mente ha provato a orientarsi, nell’adiacenza tra me (io che sono memoria e concetto) e quest’altro assoluto.
Ho provato, istintivamente, a mentirmi, ho provato ad avvicinarmi. Con l’immagine dei miei boschi e della mia danza ho mentito. Mi sono detto: i nostri due mondi si possono toccare.
No.
Mi manca l’aria, la testa si svuota, mi siedo a terra. Chiudo gli occhi, provo a recuperare il respiro. Cos’è? Hermàn e Aurelia mi passano vicino, correndo e danzando. Cerco i loro sguardi, forse; cerco qualcosa nei loro volti.
Quasi mi calpestano, mi sposto.
Per un po’ non esisto (loro continuano ad esistere?).
Lo sguardo si espande e si restringe (il loro, il mio?).
Il loro corpo è penetrato nella musica, la musica nel corpo, il loro corpo è il territorio e il territorio è il corpo. Io no.
Odio questa musica, mi fa male alle orecchie, agli occhi, al petto.
Respiro ancora. Rischio di svenire.
Ho paura che la musica mi annienti. La gioia dei ragazzi non mi contagia.

D’altro canto, le persone che mi circondavano si muovevano tranquille, la fronte liscia priva di preoccupazioni, all’interno di un circolo dove l’abitudine aveva da tempo aperto cammini sicuri, dove i fatti si spiegavano ragionevolmente per cause visibili e quelli più straordinari si legavano agli Dei.

O forse mi sto ingannando e, nella mia felice cecità, non ero in grado di vedere le cose più a fondo? Non lo so, ma adesso mi pare impossibile che nella zona d’ombra di ogni uomo, perfino in quelli più pacifici, non si annidi la minaccia di altri uomini, più dolenti.

Lucio mi ha visto, si avvicina e mi chiede se sto bene, mi aiuta a sollevarmi, mi conduce sotto braccio al pancale.
Dice:
«Devi bere, ricordati che non sei abituato all’altitudine come noi».
È vero, mi sono dimenticato di bere acqua, tiro fuori la borraccia dalla borsa, la mando giù tutta. Gli uomini sono seduti uno accanto all’altro, ridono, si passano le sigarette, i loro denti scuri, le foglie di coca, la mano di Lucio sul mio avambraccio. Nessuno si preoccupa, non mi preoccupo nemmeno io, la musica sembra abbassarsi di volume. È il mio spirito che impara, per necessità, ad accettare note che stridono con esso, con cui non sa porsi in armonia. È strano sentirsi di nuovo un bambino: peso almeno trenta chili più di Lucio, sono alto trenta centimetri di più, e qui la mia grandezza non è niente. Sono minuscolo.

Bisognava evitare a tutti i costi che quella tendenza all’analisi, che terminava nella riduzione del mondo a miseri elementi quantitativi, mi colpisse. Dovevo reagire.

Un modo per non avere paura delle cose è studiarle, e nella parola “studio” contraiamo l’esigenza di un mondo tradotto in narrazione. Quando il mondo straborda da questa narrazione facciamo esperienza del limite.
Ecco che vedo i flussi di corpi che corrono intorno agli alberi, accelerano il passo, navigano sulla terra accidentata come navi che non possono affondare. Donne e uomini che ho conosciuto, con cui ho parlato. Mi sono ingannato di averli capiti. Si tramutano in terra, e la terra si tramuta in esseri umani. Vorrei parlare di “miracolo”, e nessuna parola sarebbe tanto sbagliata.
Al tramonto, i machete colpiscono i tronchi degli alberi. Arrivano cani chiamati dalle urla, le urla di gioia chiamate dai ragazzi. Compare un fuoco, l’albero cade, cadono gli alberi, gli uomini e le loro ombre sembrano moltiplicarsi.
E Lucio dice: «torniamo al villaggio, si fa notte».
«Ho la torcia, stiamo un altro po’, non c’è problema, sto bene».
«Dobbiamo andare, a questo non puoi assistere».

 

Le ultime tre citazioni presenti nel testo («D’altro canto, le persone che mi circondavano si muovevano tranquille...» e «Bisognava evitare a tutti i costi che quella tendenza all’analisi...») sono tratte rispettivamente dai racconti di Clarice Lispector Ossessione Storia interrotta.

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Sud America - 2022
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Jacopo La Forgia

(1990) è fotografo e scrittore. Come fotografo ha realizzato lavori, oltre che in Italia, in Romania, India e Indonesia. È autore di Materia (Effequ, 2019) e coautore di Trilogia della catastrofe (Effequ, 2020). Vive a Venezia.

Pubblicato:
10-08-2022
Ultima modifica:
15-08-2022
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