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Verso una nuova fibra

Durevole, riutilizzabile, riparabile, riciclabile: sono le caratteristiche che dovrà avere tutta la moda in un futuro prossimo. Viaggio tra idee, innovazioni e criteri che fanno fatica a diventare regole.

Laila Bonazzi

è giornalista professionista basata a Milano. Ha lavorato a lungo per la rivista Marie Claire occupandosi di temi sociali, sostenibilità, moda etica e innovazione sociale.

Di quello che indossiamo sappiamo molto poco. Come e da chi sono prodotti i nostri abiti, da dove arrivano i materiali, cosa ne sarà di loro quando li getteremo via. Ciò è particolarmente evidente se pensiamo, invece, alle strette regolamentazioni imposte per altri beni di consumo, come alimentari e cosmetici: le etichette dell'abbigliamento comunicano davvero poche e vaghe informazioni a confronto. Da qualche anno la questione è al centro del dibattito nel sistema moda, sia a causa della crescente sensibilizzazione dei consumatori che di alcuni eventi di cronaca. Il momento di rottura più eclatante è stato sicuramente il crollo dell’edificio del Rana Plaza del 2013: una palazzina con alcune fabbriche di abbigliamento collassò non lontano dalla capitale del Bangladesh, causando oltre mille vittime. Le aziende lavoravano per marchi venduti in tutto il mondo e il caso accese i riflettori sulle condizioni di sicurezza di questi lavoratori fantasma che fino ad allora non avevano nemmeno un volto.

All'epoca Marina Spadafora, coordinatrice nazionale italiana del movimento Fashion Revolution, aveva già abbandonato da qualche anno il suo lavoro di consulente per le maison del lusso e si stava dedicando a progetti di moda etica ed ecologica. Il suo giudizio a quasi dieci anni di distanza è tagliente: "È come se questo settore avesse i tacchi piantati per terra e noi li stessimo trascinando verso un cambiamento necessario, che però si rifiutano di vedere". Dopo diverse esperienze oggi Spadafora sta lanciando il progetto D Refashion Lab, che propone ai brand di modificare i capi in magazzino per rimetterli in vendita, in quell’operazione che in gergo si chiama "upcycling", eseguito con macchinari d’avanguardia come laser e stampanti 3D. Sostanzialmente si tratta di reinventare stock di invenduto affinché non vengano gettati via ma riproposti sul mercato in una nuova veste: "Oggi si parla molto di sostenibilità ambientale ma ancora poco di quella sociale. Io preferisco usare la parola responsabilità. Chi cuce questi capi per noi e in quali condizioni? Spesso ancora non possiamo nemmeno esserne certi. Quel che sappiamo è che 70 milioni di lavoratori della filiera non sono pagati il giusto. Da sempre è questa la missione di Fashion Revolution. Stiamo per lanciare una grande campagna a favore del compenso dignitoso, che non significa compenso minimo, ma un salario più che sufficiente per vivere, che sia incluso dai marchi nel prezzo finale dei capi".

Sull'incapacità del settore di autoregolamentarsi Spadafora non è stupita, lo è piuttosto sulla mancanza di regole imposte dall’alto: "Il vero elefante nella stanza che nessuno vuole affrontare rimane la sovrapproduzione, soprattutto di capi di bassa qualità, a ritmi dannosi per l’ambiente e per la società".

Le cosiddette quattro R della sostenibilità, che tutti ora sembrano voler inseguire, partono proprio con Ridurre (le altre parole sono: riutilizzare, recuperare-riparare, riciclare). Produrre e consumare meno ma meglio è uno slogan che torna ciclicamente in auge. Di recente è riapparso durante la crisi innescata dal Covid-19, una pandemia che sembra aver indotto a riflettere più i consumatori che i brand della moda, sia del lusso che del cosiddetto fast fashion. Lo conferma Antonio Mancinelli, giornalista, scrittore, storico della moda. "Questo settore vive un momento di grande crisi e si sta dimostrando più arretrato rispetto alla realtà di acquirenti che hanno desideri ed esigenze molto diverse rispetto a quelle di venti o trenta anni fa. In verità questo scollamento è iniziato da tempo, da quando la finanza è entrata prepotentemente nell’industria moda, quindi dall'inizio degli anni duemila". La visione romantica dello stilista che crea sulla base del suo estro è finita, se è mai davvero esistita. I grandi marchi del lusso ormai sono multinazionali a tutti gli effetti, che decidono in base a previsioni di consumo che tipo di prodotti introdurre nei mercati.

Marina Spadafora, coordinatrice nazionale italiana del movimento Fashion Revolution

Marina Spadafora, coordinatrice nazionale italiana del movimento Fashion Revolution

"Regolarmente vengono fatte molte promesse sul ridurre le collezioni", continua Mancinelli, "e anche con questa crisi sono puntualmente state disattese. Si sta facendo finta che tutto sia esattamente tornato come prima. A guardarla da un punto di vista positivo, si potrebbe dire che questi ritmi di produzione assicurano lavoro e stipendio a moltissimi dipendenti, anche per piccole aziende che lavorano per i mega-brand. Ma proprio l'aspetto quantitativo è quello che più preoccupa chi ha a cuore le sorti del pianeta: sei o otto collezioni all'anno sono semplicemente troppe, superflue, eccessive. Una cadenza addirittura amplificata dal fast fashion, che rilascia milioni di pezzi ogni mese in un numero indefinito di lanci stagionali. Questa mancanza di rinnovamento è un grave peccato cui porre rimedio al più presto. La moda italiana è sempre stata l'alfiere di un'imprenditoria snella, veloce e anticipatrice di nuove forme di serializzazione, in passato. Infatti, il suo boom è cominciato in un altro grande momento di crisi politica ed economica. Convenzionalmente si data la sua nascita nel 1978: Giorgio Armani sfilava al Principe di Savoia con quella che era l'uniforme per una donna che aveva finalmente un nuovo ruolo nella società e nel mondo professionale, dove iniziava a fare carriera. Armani creò le divise per le nuove lavoratrici, giacche e tailleur che andavano a vestire una rivoluzione epocale, che era stata segnata anche da tante battaglie femministe. In quegli anni è nata la parola stilista e un nuovo tipo di impresa di moda guidata dalle idee e basata su un'alleanza tra gli industriali del manifatturiero e del tessile italiani e i creativi. Abbiamo industrializzato e serializzato la moda, esattamente come aveva fatto il design, con un risultato dal grande valore estetico ed economico", conclude Mancinelli. Qualche segnale di rinnovamento c'è, ma sembra più la risposta a un'esigenza di mercato che un piano organizzato di rivoluzione della filiera e della produzione: "La nuova generazione di consumatori ormai pretende e considera scontato che i suoi capi e accessori siano sostenibili. Prodotti da persone pagate il giusto, con materiali non inquinanti e che sia tutto tracciabile dal campo di cotone al negozio tramite strumenti come il QR code".

Eppure un movimento di piccoli marchi di abbigliamento e accessori italiani sembra aver capito l’aria dei tempi e riesce a unire estetica, etica e sostenibilità ambientale. Utilizzano i social media per costruire una community di seguaci e clienti che condividono i loro valori. Quelli di una moda durevole, riparabile, riutilizzabile, riciclabile, attenta alle cause sociali e al tema dell’inclusività. Non inseguono l’ultima tendenza proponendo tante collezioni, alcuni non seguono nemmeno la stagionalità, e per questo sono definiti "slow fashion", moda lenta. I negozi fisici sono un'eccezione e una spesa non sempre necessaria. Le filiere sono corte e trasparenti, i volumi di produzione sono ovviamente limitati ma permettono di non avere sprechi, anche grazie allo strumento del pre-ordine, a modelli semplici con poche taglie, a un'organizzazione produttiva volutamente controllata nei numeri. Tutte queste caratteristiche già parte del Dna del marchio li rendono "nativi sostenibili", al contrario di quei brand che invece cercano di diventarlo in un secondo momento.

Tra di loro alcuni scelgono di registrarsi da subito come società Benefit, come il marchio di lingerie milanese Chitè o quello di streetwear Anti-do-to. Le camicie Pina G sono prodotte dalla Cooperativa Alice che impiega donne con un passato in carcere, le borse e zaini Cingomma riutilizzano vecchi copertoni di auto e biciclette, gli abiti Endelea sono disegnati a Milano ma fabbricati in modo etico in Tanzania. Persino i calzini hanno trovato un loro universo sostenibile grazie al marchio Arturo, che allega ago e filo a ogni paio acquistato, invitando a prendersene cura. Non manca chi sperimenta nuovi materiali come le giacche Fili Pari, rese impermeabili grazie alla polvere di marmo scartata dalle cave, o i capi in tessuti di canapa e ortica di Opera Campi e FiloTimo. Tra i marchi che hanno avuto più successo imprenditoriale vale la pena citare Progetto Quid, di Verona, e Rifò di Prato, che di recente hanno anche unito le forze in una collezione. Progetto Quid recupera tessuti in eccedenza dalle case di moda e li confeziona con sarte coinvolte in progetti di reinserimento lavorativo. Rifò, invece, affonda le sue radici nella tradizione pratese del riciclo di tessuti: creano maglieria e capi in cashmere, lana e denim rigenerato, raccogliendo direttamente l’abbigliamento dismesso dei clienti.

Una camicia Pina G

Una camicia Pina G

Proprio distretto di Prato si è distinto negli ultimi anni per la felice evoluzione. Da sempre nella città toscana si riciclano gli abiti in nuovo tessuto, in una filiera animata dalle mani esperte dei "cenciaioli", operai specializzati capaci di separare per materia e colore montagne di abiti che qui arrivano da tutta Italia e dall'estero e che tornano a nuova vita come materiali per l’automotive e l'arredamento, addirittura tessuti per la moda. Un sistema guardato un tempo con sufficienza per la bassa qualità e lo stigma associato a questo lavoro, che oggi viene rietichettato come esempio ammirevole di economia circolare, attirando l’attenzione persino dei media stranieri.

Da quando si è iniziato a parlare del problema dei rifiuti tessili oltre il circolo degli addetti ai lavori il modello Prato viene citato a più riprese. L’Europa e gli Stati Uniti inviano tonnellate di rifiuti tessili in Paesi stranieri, dal Cile al Ghana. Nella capitale del Ghana, a Kantamanto, esiste uno dei mercati più grandi del mondo dove si commercializzano i nostri abiti di seconda mano, si scambia tutto l’utilizzabile e il resto si getta in discariche non regolamentate, arrivando persino a invadere le coste marine. Questo mercato appare nelle immagini del nuovo documentario Stracci scritto da Silvia Gambi con la regia di Tommaso Santi (in dvd dal 18 gennaio). "Ogni cittadino europeo produce 26 kg l’anno di rifiuti tessili e di questi 11 finiscono in discarica", spiega Silvia Gambi, autrice pratese di un blog e podcast dal titolo Solo moda sostenibile ed esperta di tessile.

Delle quattro R della sostenibilità, l’ultima, riciclare, è di certo la più complessa in ambito tessile. Affinché un capo di abbigliamento possa essere riciclato con il minor spreco di energie e risorse vergini deve essere progettato con questo scopo: meglio se di un'unica fibra e facilmente disassemblabile nelle sue singole parti (zip, bottoni, accessori ecc). "Sembra che se ne siano accorti solo ora ma di questo problema si parlava già nel libro No Logo di Naomi Klein del 1999. Non è una questione di facile soluzione. A livello europeo si sta studiando una legge ad hoc che probabilmente si ispirerà al modello francese sulla responsabilità estesa del produttore. In Francia chi immette un prodotto di abbigliamento sul mercato paga una cifra, variabile a seconda della complessità del capo, che funziona come una quota per il suo smaltimento, come per i rifiuti elettronici. Questa cifra può essere ridotta se, per esempio, il marchio mette in campo alcune azioni per allungare la vita dei suoi prodotti".

Dal 1 gennaio in Italia è diventata obbligatoria la raccolta differenziata urbana dei tessili, anticipando di qualche anno l’obbligo europeo del 2025, anche se la maggior parte dei comuni non sembra essere preparata, prosegue Gambi: "Secondo una recente indagine della Global Fashion Agenda con le tecnologie disponibili oggi si potrebbero riciclare l’80% dei rifiuti tessili. Invece secondo la Ellen MacArthur Foundation solo l'1% degli abiti usati viene riciclato in abiti nuovi. Idealmente la soluzione migliore sarebbe mantenere la stessa qualità del tessuto originale durante il riciclo, in modo che venga riutilizzato sempre per farne abiti. È quello che accade a Prato. Il problema è che vanno costruiti gli impianti, in linea generale ogni distretto di produzione moda dovrebbe avere vicino un distretto del riciclo tessile".

Gambi è anche appassionata di nuovi materiali, che sono il terreno più vivace di investimento al momento. La domanda di alternative sostenibili ai prodotti di derivazione animale – pelle, piume, lana, pelli esotiche – è destinata a decollare. Ma anche di alternative ai derivati dal petrolio come il poliestere, visto che anche la sua versione riciclata, tanto amata dai marchi come materiale per mini collezioni definite green, ha dimostrato grossi limiti: rilascia infatti microplastiche come quello vergine e perpetua la dipendenza da fonti fossili (lo stesso motivo per cui anche le pellicce sintetiche non possono sostituire le originali in un’ottica di sostenibilità).

Secondo il rapporto 2021 dell’organizzazione Material Innovation Initiative - MII si tratta di un mercato valutato 2,2 miliardi di dollari entro il 2026. "Da una parte i brand cercano questi materiali per creare collezioni facili da etichettare come sostenibili, dall’altra c'è un potenziale di ricerca enorme ma che ha bisogno di tempo per passare da idea sperimentale a qualcosa che può essere utilizzato su larga scala". Tra gli esempi di maggior successo nati dalla creatività italiana c’è Vegea derivato dagli scarti della lavorazione vinicola, il tessuto Orange Fiber dagli scarti degli agrumi e sicuramente il Flwrdown, un’alternativa alle imbottiture sintetiche fatta con fiori di campo, biopolimeri e aerogel (ideata dalla toscana Grado Zero che è parte del collettivo internazionale della società Pangaia).

Il terreno di innovazione più futuristico comprende sperimentazioni con coltura di staminali in laboratorio e altri processi biotecnologici che si intrecciano con la ricerca sui cibi senza derivati animali. La conclusione del rapporto MII, infatti, sottolinea l’aiuto che potrebbe arrivare dalla ricerca sulle proteine alternative per il settore alimentare, che è iniziata da molti più anni. Gli stessi elementi, come il micelio dei funghi, o tecniche come la fermentazione hanno il potenziale per creare sia la cosiddetta carne artificiale che tipi di fibra adatti a diventare tessuto. Arriverà il momento in cui l’hamburger che stiamo mangiando sarà dello stesso materiale della nostra giacca?

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Italia - 2022
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#4 Oltremoda
Laila Bonazzi

è giornalista professionista basata a Milano. Ha lavorato a lungo per la rivista Marie Claire occupandosi di temi sociali, sostenibilità, moda etica e innovazione sociale.

Pubblicato:
26-01-2022
Ultima modifica:
26-01-2022
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