Non siamo paranoici - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Prepper.
Prepper. | Copyright: Kyle Glenn / Unsplash

Non siamo paranoici

Il survivalismo è una corrente di pensiero relativamente diffusa negli Stati Uniti, ma oggi popolare anche in Europa. Ciò che accomuna i suoi fautori, chiamati in gergo "preppers", è l'idea che la società possa collassare da un momento all'altro.

Prepper. | Copyright: Kyle Glenn / Unsplash
Alessandro Rosa

studia i rapporti tra l’uso della tecnologia e le sue ripercussioni in ambito sociale e scientifico, con un occhio di riguardo per l’area biomedica e tutto ciò che riguarda algoritmi, big data ed elaborazione del linguaggio naturale. Scrive su diverse riviste.

Quando penso alla figura del prepper l’archetipo che mi viene in mente è quello rappresentato nel film horror sci-fi 10 Cloverfield Lane. Il film di J.J. Abrams è ambientato quasi interamente nel bunker personale di Howard, che l’ha costruito appositamente per una situazione apocalittica come quella che fa da sfondo alla narrazione. Howard rappresenta il prepper in tutte le sue sfaccettature: dall’esterno viene visto come un paranoico, ma la sua ossessione per il disastro risulta alla fine essere giustificata; è saldamente convinto delle proprie idee, ma non altrettanto bravo a convincere gli altri che la sua non è solo un'ossessione; in poche parole, è qualcuno che di fronte alla scelta tra definirsi pessimista o ottimista risponderebbe sarcasticamente con “realista”. 

Il survivalismo, i cui seguaci sono più comunemente noti come prepper (dall’inglese “to prepare”) è una vera e propria cultura ampiamente diffusa negli Stati Uniti e che si è estesa ormai anche al Vecchio Continente. Si tratta di un indubbio retaggio della guerra fredda, un periodo storico dove la distruzione del mondo per mano di una guerra nucleare non era poi un evento così improbabile. Una realtà in cui possedere un rifugio sicuro in cui proteggere sé stessi o la propria famiglia difficilmente sarebbe stato giudicato come un atteggiamento paranoico. Eppure, se la divisione a blocchi può considerarsi una stagione sociopolitica ormai superata, lo stesso non si può dire dello spirito survivalista, oggi più che mai estremamente florido. 

In Notes From the Apocalypse, Mark O'Connell cerca di descrivere la psicologia dei prepper esplorando nel dettaglio il loro scetticismo e la loro sfiducia nei confronti del futuro. Buona parte di queste insicurezze, sottolinea l’autore, sono tutto sommato giustificate: il cittadino del XXI secolo è costantemente bombardato da notizie riguardanti il riscaldamento climatico, disastri naturali di ogni tipo, attacchi terroristici di matrice politica o religiosa; senza ovviamente menzionare l’ultima crisi economica globale e la più recente pandemia di COVID-19. Nel suo Essere Senza una Casa, Gianluca Didino descrive efficacemente quel sentimento di estraneità che l’uomo contemporaneo prova nell’abitare un luogo apertamente ostile, fragile e costantemente sul punto di crollare. La sensazione di vivere in tempi strani, dove mancano i punti fissi a cui appoggiarsi, è forse il tratto fondamentale della nostra società. Se guardiamo bene ai fatti, insomma, c’è poco da restare ottimisti, e difficilmente si può biasimare chi in queste condizioni tenta in qualsiasi modo di salvaguardare il proprio futuro e quello dei propri cari. 

Magazine survivalista, Germania.

Magazine survivalista, Germania. | 7C0 / Flickr

I prepper accolgono la precarietà del tempo corrente sposando la filosofia dell’autosufficienza, del cosiddetto “do it yourself”. Creano dei rifugi personali dove ritirarsi in caso di emergenza, ammassano viveri e risorse di vario tipo, imparano tecniche di sopravvivenza utili al di fuori di un contesto urbano e più in generale si preparano ad essere completamente indipendenti da tutti quei servizi che diamo per scontati. In un’intervista al fondatore di prepper.it, il portale principale dei prepper italiani, viene esplicitamente detto che “il prepping è l’arte del piano B”, l’arte di sapere cosa fare in caso di emergenza (o, per usare un’espressione popolare in questo ambiente, SHTF). Certo, non mancano le esacerbazioni sul tema e spesso la retorica dell’apocalisse imminente si interseca con quella del complottismo. Ma la sensazione di trovarsi di fronte a un punto di non ritorno  non è solo una prerogativa dei prepper, bensì un tema costantemente dibattuto in quasi tutti gli ambienti artistici e intellettuali. 

Raffaele Alberto Ventura aveva analizzato il conflitto tra le parti sociali nel suo libro La Guerra di Tutti, esplorando la tensione tra i cosiddetti populisti e le élite (politiche, economiche, cognitive). La mancanza di un’ideologia che faccia da collante tra i tanti attori sociali, che sono andati a moltiplicarsi assieme alle loro istanze, ha portato a una rapida perdita di autorità da parte degli stati nazionali, complici anche i nuovi sistemi dell’informazione, internet e i social network primi tra tutti. È chiaro che la filosofia del DIY mira a sopperire alle mancanze di un sistema statale delegittimato, incapace di assecondare tutti e finendo per lasciare soddisfatto nessuno. Le tecniche di sopravvivenza insegnate dai prepper possono risultare paradossali ed estreme all’interno di una società civile, ma di fronte a un potenziale ritorno dello stato di natura qualsiasi kit d’emergenza potrebbe tornare a essere utile. 

L'astronauta Samantha Cristoforetti in un training di sopravvivenza invernale, Russia, 2012.

L'astronauta Samantha Cristoforetti in un training di sopravvivenza invernale, Russia, 2012. | Samantha Cristoforetti / Flickr

La società moderna ha basato i suoi successi su un mito, quello della crescita infinita e smisurata, l’idea che il progresso non possa essere arrestato e che il futuro sarebbe stato sempre più roseo del passato. Nelle parole di O’Connell: «il mito fondante della nostra civiltà – il mito del progresso, l’idea che il futuro sia una linea continua che continuerà a salire e procedere verso destra lungo un grafico – è stato smanetellato dal nostro tempo corrente. Questo mito […] è stato costruito sulla base di un mito più profondo: il mito della natura, l’idea atavica che noi, in quanto specie, siamo fondamentalmente diversi dal resto del mondo da cui siamo emersi»*. Un mito appunto, la cui fallacia si dimostra quanto mai evidente di fronte agli sconvolgimenti di varia natura (sanitari, ecologici, ecc.) che stiamo vivendo e che hanno scosso le fondamenta del sistema globale in tutte le sue parti. 

Questo mito, però, ha continuato (e in parte continua) ad alimentare la visione di un mondo che semplicemente non esiste più. Di fronte a queste promesse infrante è facile farsi prendere dallo sconforto e passare dallo stupore alla rabbia. Credere che la propria posizione sia impermeabile a qualsiasi cambiamento storico sta avendo conseguenze importanti nell’immaginario politico. L’emergere di istanze e identità di vario tipo (sessuale, politico, etnico, religioso) sta compromettendo l’egemonia di una classe abbastanza specifica, piuttosto abbiente, maschile e bianca, che su quelle promesse di crescita ha fondato un intero mito personale, quello più comunemente noto come sogno americano. La crisi del ceto medio occidentale non va riscontrata solo nei suoi motivi economici, ma anche in quelli ideologici. È la messa in discussione di valori tradizionali considerati come assoluti e che, appunto, nel loro venire meno lasciano spazio all’incredulità e alla reazione. Così, se da una parte abbiamo chi imbraccia apertamente le armi in nome di una controrivoluzione, c’è chi vede nell’ascesa di queste nuove istanze una minaccia simile alla guerra nucleare e sceglie di isolarsi nel proprio bunker. 

Il prepping originale, quello del DIY e dei barattoli di conserve, è stato poi assimilato e metabolizzato da un’altra ideologia emblematica del tempo presente: l’individualismo neoliberalista tipico della classe alto imprenditoriale statunitense. Non è una caso che una buona parte dei personaggi più illustri della Silicon Valley si siano apertamente dichiarati impegnati nella costruzione di una via “alternativa” al collasso del mondo civilizzato. Come non è un caso che molte delle posizioni dei preppers si intrecciano con quella filosofia individualista sancita da testi come The Sovereign Individual di James Dale Davidson e William Rees-Mogg: lo sforzo erculeo dell’individuo che si stacca dalla collettività, la tassazione vista come un crimine (una posizione spesso esacerbata dagli anarco-capitalisti nel motto “taxation is theft”), il venire meno di un centro di matrice statale in favore di un dominio basato sugli attori economici; in poche parole, un inno alla sopravvivenza del più forte o, in questo caso, del più ricco.

Sulle manie della Silicon Valley per la fine del mondo si è detto molto. Peter Thiel, cofondatore di Paypal, è particolarmente famoso per la sua visione apocalittica del futuro e, non a caso, sta costruendo una fortezza personale in Nuova Zelanda. Il folle piano per colonizzare Marte di Elon Musk suscita indubbiamente qualche perplessità, eppure, nella sua stravaganza, rappresenta bene la volontà tipicamente tardocapitalista di spostare la frontiera del consumabile sempre più in là: se la Terra sta esaurendo le sue risorse ed è condannata a una fine ingloriosa, cercheremo di consumare le stelle, in una forma di escapismo che unisce fantascienza, neoliberalismo e sviluppo tecnologico. 

Le paure dei più grossi miliardari del mondo contemporaneo potrebbero indurci a provare uno strano senso di compatimento. D’altronde, come già detto poco sopra, abbiamo tutti la sensazione di vivere in tempi strani e alienanti. Le ansie di Peter Thiel per l’invecchiamento o della perdita del proprio status sociale dopo una crisi non sono poi così distanti dalle nostre paure individuali. Ed è qui che si mostrano tutte le lacune del modello individualista: se da una parte i leader economici si stanno lentamente sostituendo alle autorità statali, essi non sembrano avere il minimo interesse a stringere un patto coi propri cittadini, vanificando quindi quel ruolo di garante su cui lo stato moderno si era fondato. La decentralizzazione disorganizzata, guidata solo dall’interesse di pochi attori economici, non è poi così differente dallo stato di natura già preconizzato da Hobbes. 

Ma anche senza raggiungere gli eccessi dei miliardari spaventati dalla fine del mondo, è interessante notare come il tardocapitalismo sia riuscito a inglobare anche l’ideologia prepper. Intorno ai prepper gravita un intero mercato di nicchia, composto da kit di sopravvivenza, manuali, apparecchiatura di vario tipo, e non mancano ovviamente dei veri e propri bunker messi in vendita. Alcune aziende, come per esempio Vivos, si sono specializzate nel costruire bunker e rifugi, offrendo un posto al sicuro dall’apocalisse a partire da 35000$. Il progetto mostra anche come nell’idea di una fine imminente sia insita una dimensione polarizzante, dove la popolazione si divide in soli due gruppi: quelli consapevoli della caducità della civiltà e quelli ignari della fine imminente. I primi saranno premiati dalla loro previdenza, i secondi rimarranno a sbattere i pugni contro le porte blindate dei bunker. 

In un cortocircuito tipico del tardo capitalismo, la stessa sopravvivenza dell’umanità come specie si gioca sulla scommessa che ci sia una richiesta di un prodotto, in questo caso la propria stessa vita. Un adagio reso famoso da Mark Fisher, e poi ripetuto ad nauseam, recita che è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo. L’esistenza di un vero e proprio mercato dell’apocalisse ci permette di constatare la veridicità dell’adagio e, allo stesso tempo, la sua ingenuità: perché la costituzione tentacolare stessa del capitalismo è così capillare da muoversi non solo nello spazio, ma anche nel tempo, stritolando il futuro. Lo stesso futuro di cui si comincia seriamente a dubitare. 

*traduzione italiana a cura dell'autore

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Globale - 2021
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Alessandro Rosa

studia i rapporti tra l’uso della tecnologia e le sue ripercussioni in ambito sociale e scientifico, con un occhio di riguardo per l’area biomedica e tutto ciò che riguarda algoritmi, big data ed elaborazione del linguaggio naturale. Scrive su diverse riviste.

Pubblicato:
10-06-2021
Ultima modifica:
10-06-2021
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